Sbarchiamo in lancia ad Hanga Roa, saliamo su un minibus con accompagnatore locale – Jorge – e partiamo alla scoperta dei moai. Ce ne sono 887 sull’isola abitata da poco più di cinquemila persone, patrimonio dell’Unesco dal 1996. Ne vediamo subito uno non lontano dal porticciolo. Ma l’emozione è palpabile quando ci fermiamo sul bordo di una vallata e vediamo il moai con gli occhi e l’acconciatura. Poco distante, altra piattaforma (ahu in lingua locale) e quindici giganti senza occhi, imponenti solenni silenziosi giganteschi custodi di… ma cosa dovevano proteggere? Nelle piattaforme (sono nel complesso 270 sparse sul territorio dell’isola) che li sorreggono forse c’erano sepolture di uomini illustri che vivevano lungo la costa; nell’interno invece abitavano i poveri. L’80% dei moai è stato ricavato dalla caldera del vulcano Ranu Ranaku: noi ci andiamo arrampicandoci lungo la collina, accompagnati da moai di varie dimensioni, finché arriviamo all’imboccatura della cava, dove scorgiamo il moai non-finito, volto abbozzato e corpo saldamente ancorato alla pietra. Come un nonfinito michelangiolesco. Forse non è stato scolpito per intero perché gli abitanti sono fuggiti (per andare dove? erano in pericolo? chi li minacciava?). Scendendo verso la pianura vediamo ancora la piattaforma dei quindici, lontani e soli. Incontriamo un moai particolare, forse è inginocchiato: prega? si nasconde? Jorge ci dice che non si sa se sia il primo o l’ultimo… Aggiunge che i moai potrebbero essere espressione di culti religiosi, di luoghi di cerimonie, di allineamenti astronomici, di potere politico. Potrebbero essere semplicemente dei monumenti nei cimiteri. In realtà davanti alle piattaforme ci sono pietre in fila. L’unica cosa certa è che gli abitanti cominciarono a scolpire i moai nel 600 d.C. e si estinsero nel 1630, forse vinti in guerre tribali o vittime di fame e sete. Si dice che per far arrivare i moai vicino al mare li facessero scivolare su tronchi, quindi dalla distruzione della flora deriverebbe anche quella della fauna e della popolazione stessa. I 1000 anni di storia sarebbero rappresentati dai 15 moai, dunque la piattaforma sarebbe cresciuta secolo dopo secolo. Dopo un pranzetto nella trattoria “Tia Berta” a base di empanadas di tonno e formaggio, serviti da una giovane e gentile cameriera dalla pelle ambrata e dagli occhi espressivi, scuri, leggermente a mandorla, camminiamo lungo la strada che porta al molo, intorno alla quale vediamo pochi negozi e qualche bar. La vita è semplice, ragazze e ragazzi, studenti, il lunedì mattina partono per Santiago (5 ore di volo) e il venerdì tornano a casa; le donne forse sono alle prese con i lavori dell’orto o in casa a preparare il pranzo; i turisti vengono qui per amore dell’archeologia o della natura, quindi niente vip da strapazzo. Trascorriamo un po’ di tempo in un bar per connetterci e recuperare il rapporto con il mondo; vado in bagno uscendo dalla porta posteriore del locale e vedo un portico, fiori bellissimi, piccole curatissime case che creano una specie di quadrato verde al loro interno. Fotografo un ibiscus gigantesco. Il w. c. è pulito, pareti dipinte a colori vivaci: pesci coralli fiori. Lungo il mare ci sono piscine naturali dove sguazzano i bambini con le loro tavole. Il mare, appena mosso da un vento leggero e costante, ha un colore intenso, i moai sono lontani, eppure presenti con le loro suggestioni. Il ricordo un po’ malinconico dei misteriosi custodi del nulla mi fa compagnia. Intorno, silenzio.