Piano Primo – Pinacoteca
Sala IX, di Didone – le donne di Raffaello
La sala deve la sua denominazione ai dipinti che decorano la volta, raffiguranti episodi della storia di Enea e Didone.
Fig. 1: Dama con liocorno, Raffaello
L’opera raffigura una delle tante donne effigiate dall’artista urbinate, notoriamente grande ritrattista, e risale al 1505/1507, cioè al periodo fiorentino di Raffaello, prima del suo trasferimento a Roma. Rappresenta una fanciulla fiorentina, che indossa un prezioso abito alla moda dei primi anni del Cinquecento, con le ampie maniche di velluto rosso e il corpetto di seta marezzata (una seta cioè con venature, linee sinuose come onde del mare). Probabilmente era un dono di nozze. Le pietre del pendente alluderebbero al candore virginale, la collana annodata al collo richiamerebbe il vincolo matrimoniale, anche l’unicorno che giace in grembo alla fanciulla, animale fantastico, potrebbe essere un attributo simbolico della verginità.
Nonostante la posa monumentale, la donna, col busto di tre quarti e lo sguardo rivolto verso lo spettatore, appare spontanea, mantenendo una sciolta naturalezza. E dall’acutezza dello sguardo si percepisce una profonda introspezione psicologica. La ricercatezza dell’abito, i gioielli, testimoniano la sua appartenenza alla ricca borghesia. Sullo sfondo un dolce paesaggio collinare.
Nella sala è esposta anche una copia da Raffaello de La Fornarina (di Raffaellino del Colle).
Fig. 2: La Fornarina, Raffaello
Non è un mistero la passione amorosa di Raffaello per le donne. Sarà proprio la sua libertà sessuale a farlo ammalare di sifilide e a portarlo alla morte a soli trentasei anni. L’originale, del 1518/19, è conservato a Palazzo Barberini a Roma. Anche qui una donna è la protagonista del quadro. Ora però la seduzione raggiunge il suo massimo livello. La ragazza, ritratta a seno nudo, coperta appena da un velo trasparente, col quale cerca inutilmente di coprirsi, guarda a destra, oltre lo spettatore. In testa ha un turbante di seta dorata a righe verdi e azzurre annodata tra i capelli, con una spilla composta di due pietre incastonate e una perla pendente.
Il quadro è noto come La Fornarina, perché, secondo l’ipotesi più accreditata, si tratterebbe di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amatissima da Raffaello, durante il periodo in cui l’artista lavorava a Villa Farnesina.
Gran parte della critica è concorde sul fatto che la giovane donna sia stata presa come modello anche per altre opere, che raffiguravano Madonne o figure del mito. Ma questa è una donna reale, resa unica e seducente dal pennello dell’artista, un’allegoria di tutti gli amori del pittore.
Sala X – di Ercole o del Sonno – gli amori degli dei
La stanza fu chiamata nel ‘600 del Sonno, perché ospitava un letto a baldacchino e un gruppo scultoreo con l’Allegoria del sonno. Nel soffitto episodi relativi a Ercole e al centro la sua Apoteosi. Vi sono esposte a confronto due Veneri, una di Cranach, (Kronach 1472/Weimar 1553), del 1531, e l’altra del Brescianino, del 1525.
Fig. 3: Venere e Cupido, Lucas Cranach
La prima, nuda, coperta solo da un sottilissimo velo trasparente, fissa l’osservatore; è sensuale, corpo affusolato e seni piccoli, sul capo porta un ampio e lussuoso cappello ornato di piume, mentre una reticella dorata raccoglie i capelli e una preziosa collana orna il collo sottile. Alcuni versi scritti in alto, in latino, tratti da un inno di Teocrito, ricordano che il piacere è caduco e porta tristezza e dolore, come capita al piccolo Cupido che, dopo aver rubato il miele dall’alveare, viene punto sul dito da un’ape: la dea dell’Amore si trasforma così in ammonimento di carattere morale sulle conseguenze dolorose della voluptas.
L’interesse del cardinale Borghese per questo dipinto potrebbe essere stato suscitato proprio dall’interpretazione in chiave moraleggiante dei versi latini. Lo stesso che caratterizza la favola mitologica di Apollo e Dafne di Bernini, scolpita sul basamento dai distici di Maffeo Barberini.
Le Veneri di Cranach hanno la pelle d’avorio, gli occhi allungati, il corpo morbido, il sorriso malizioso: nude o abbigliate sono sempre seducenti, inquietanti.
Fig. 4: Venere con due Amorini, Brescianino
L’altra Venere, quella di Andrea Piccinelli detto il Brescianino (Brescia 1486 circa – Firenze, 1525 circa), da sempre fa da pendant a quella di Cranach. Si tratta però di una Venere mediterranea, dalla bellezza classica, scultorea, di chiaro influsso michelangiolesco. Non c’è ombra di moralismo, né di peccato, o di dolorosi presentimenti. Sicura di sé, si guarda allo specchio in una conchiglia, e i due Amorini ai lati le fanno da corteo.
Ma il vero e proprio gioiello della sala è la Danae del Correggio (1489-1534).
Fig. 5: Danae, Correggio
Dipinta nel 1530/1 da Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio (Correggio, Reggio Emilia 1489-1534), l’opera raffigura l’istante in cui Danae si congiunge a Giove, trasformato in pioggia d’oro, aiutata da Amore. Dalla loro unione nascerà Perseo.
Fa parte della serie degli Amori di Giove che Correggio dipinse per Federico II Gonzaga allo scopo di farne dono a Carlo V in occasione della sua incoronazione a Bologna nel 1530. Danae viveva imprigionata in una torre, perché un oracolo aveva predetto al padre che sarebbe stato ucciso da un figlio di lei. La precauzione fu resa vana dall’intervento di Giove, che sedusse Danae tramutato in pioggia d’oro. Nel dipinto Danae giace su un letto a baldacchino splendidamente ampio, con vista fuori dalla finestra su una splendida distesa di cielo azzurro. Cupido siede familiarmente all’estremità del letto, guardando in su verso la nube, da dove scende la pioggia d’oro, e con la mano sinistra aiuta Danae a sollevare il lenzuolo bianco che è la sua ultima difesa. Danae stessa, sorridente, non sembra rifiutarsi all’amplesso, anzi con le gambe aperte favorisce l’unione.
L’atmosfera intima e serena dell’ambiente domestico è accresciuta dalla presenza dei due amorini che, indifferenti all’evento miracoloso che si svolge alle loro spalle, testano su una pietra di paragone il metallo della punta della freccia amorosa.
Sala XII – delle Baccanti
Chiamata così per l’affresco nella volta che riproduce un Ballo di Baccanti, ospita pittori del primo ‘500 di area leonardesca. La Leda, creduta fino alla fine dell’800 opera di Leonardo, è probabilmente un rimaneggiamento su un dipinto incompiuto di Leonardo operato da un suo allievo. Leda abbracciata al cigno-Giove e inserita nel paesaggio è certamente, però, invenzione leonardesca.
Fig.6: Leda e il cigno
Il mito di Leda e il cigno rappresenta l’intraprendenza sessuale maschile, in base alla quale anche l’inganno risulta lecito per giungere all’unione sessuale. E nulla potrebbe essere più lontano da uno stupro: Leda, come Danae, gode in questo amplesso.
Leda, regina di Sparta e madre di Clitennestra ed Elena, dormiva sulle sponde di un laghetto, quando fu posseduta da un candido cigno, l’animale nel quale Zeus si era tramutato per possederla. Concluso il rapporto sessuale, Zeus annunciò che dalla loro unione sarebbero nati due gemelli, i Diòscuri, Càstore e Pollùce.
Sala XIX – di Paride ed Elena – La caccia di Diana
La decorazione della volta s’ispira all’Iliade, al centro della volta è la Morte di Paride.
Fig. 7: La caccia di Diana, Domenichino
Dipinta nel 1616/17 da Domenico Zampieri, detto il Domenichino (Bologna 1581 – Napoli 1641), l’opera rielabora il tema dei celebri Baccanali tizianeschi nella più sensuale delle battute di caccia. Diana è al centro tra le sue ninfe e solleva con le mani frecce e arco; sullo sfondo alcune ninfe tornano con la cacciagione, altre tengono a bada i cani, che si lanciano verso i profanatori, nascosti tra i cespugli, altre sono al bagno, immerse nell’acqua. Perni della composizione sono le due ninfe in primo piano: una delle due rivolge lo sguardo allo spettatore invitandolo quasi a entrare nel quadro. Le altre vergini sono articolate ritmicamente intorno a Diana, rappresentata al culmine di una gara con l’arco. L’atmosfera festosa è accresciuta dai colori chiari e dalla luce diffusa.
La Caccia di Diana era stata commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per la sua villa di Frascati, ma Scipione Borghese, per la sua nota spietatezza collezionistica, volle il dipinto per sé e lo fece prelevare con la forza dallo studio del pittore, che fu trattenuto per alcuni giorni in prigione. A parziale risarcimento del singolare espediente a Domenichino venne saldato un pagamento di 150 scudi riferito a La caccia di Diana e a un altro dipinto, La Sibilla, presente anch’esso nella collezione Borghese.
Sala XX – di Psiche
La sala è decorata nella volta con tele raffiguranti i momenti salienti della favola di Amore e Psiche, così com’è narrata nell’Asino d’oro di Apuleio.
Sulle pareti si trovano alcune delle opere più famose della collezione e, tra queste la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini (Venezia 1433 ca.-1516) e quattro tele di Tiziano (Pieve di Cadore, Belluno, 1480/85 – Venezia 1576): Amor Sacro e Amor Profano, San Domenico, Cristo alla colonna e Venere che benda Amore.
Tra le quattro tele di Tiziano Vecellio spicca “ Amor Sacro e Amor Profano” (1514).
Copertina: Amor sacro e Amor profano, Tiziano
Capolavoro di Tiziano venticinquenne, raffigura due donne, una vestita e una seminuda, nei pressi di un sarcofago, nel quale un amorino alato sta rimestando le acque. Sullo sfondo si vedono, a sinistra, una città all’alba, contrapposta ad un villaggio al tramonto, sulla destra. Lo stemma sulla fronte del sarcofago ha permesso di legare l’opera alle nozze della figlia di un noto giurista padovano con un veneziano della famiglia degli Aureli, celebrate nel 1514. La donna seduta indossa in effetti tutti gli ornamenti abituali di una sposa: l’abito candido, bianco dai riflessi argentei, i guanti, la cintura e la corona di mirto, simbolo di amore coniugale. La sposa è assistita da Venere in persona, nuda, avvolta parzialmente in un manto rosso, con in mano la fiamma dell’amore; il bacile sul bordo della fontana, parte integrante del corredo perché utilizzato dopo il parto, e la coppia di conigli sullo sfondo sono un augurio di unione feconda. Ispirato agli ideali della dottrina neoplatonica, il soggetto si presta a molteplici livelli di lettura. Una delle principali interpretazioni identifica nella donna con in mano la fiamma ardente dell’amore di Dio la Venere Celeste, e in quella riccamente vestita, col vaso di gioie, la Venere Volgare, la felicità terrena, simbolo della forza generatrice della natura. Il titolo rivela invece una lettura in chiave moralistica del tardo ‘700 della donna svestita, l’Amore profano, contrapposto alla donna vestita, l’Amore sacro. Per quanto errato, però, il titolo tradizionale continua a esercitare fascino e a essere usato, poiché mette bene in evidenza l’armonico dualismo che è alla base dell’incanto del dipinto: alba-tramonto, sarcofago/morte-acqua/vita, bianco-rosso, donna nuda-donna vestita.