McQueen, il nuovo documentario sul genio della moda creato dall’oscurità

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A meno di dieci anni dalla morte di Alexander McQueen, avvenuta nel febbraio del 2010, sono già numerose le iniziative volte a omaggiare la memoria e il genio artistico dello stilista inglese, noto anche come ‘l’hooligan della moda’. McQueen, documentario a firma di Ian Bonhôte e da Peter Ettedgui, è l’ultimo atto che si aggiunge alla lista – dopo un primo documentario e la magnificente mostra Savage beauty del 2015 – il cui punto di vista è estremamente intimistico. McQueen viene chiamato spesso col suo primo nome, Lee, o Alexander e, benché il legame tra personalità e le creazioni sia strettissimo, il documentario pende leggermente dalla parte dell’uomo, sul suo processo artistico, sulla sua vita.

Il titolo di hooligan è comprensibile se si richiama la nota collaborazione con Givenchy: Lee approda a Parigi con una squadra strampalata di amici e amiche che lo assistono professionalmente. Nel cuore dell’haute couture, Lee & company si installano non come fascinosi bohémien, ma portando con sé la Londra punk e ribelle. Lo stilista sconvolge la scuola parigina: strappa, ricuce, rimodella. Apparentemente un distruttore, in realtà continua a fare quello che ha sempre fatto, fin dall’apprendistato: imparare, carpire il meglio della tecnica, farla propria e ribaltarla – la base di tutte le rivoluzioni creative e della ricerca artistica. Nulla si distrugge, tutto si aggiunge.

McQueen era l’esempio vivente del detto ‘You can’t judge the book by the cover’: per le aspettative del mondo della moda, nessuno era più lontano di lui dal physique du rôle standard. Portava con sé il marchio delle sue origini, poca attenzione alla forma e molto focus sulla sostanza: la caparbia ricerca del raggiungimento di un obiettivo, la tenacia del lavoratore e l’irresistibile richiamo di un destino. Quando Lee si sottopone a un intervento di liposuzione e diventa più trendy, non si riconosce più. Quando i ritmi di produzione lo risucchiano, comincia a soffrire della sua arte.

Con una sincerità decisa, professa il vincolo tra le sue emozioni e le creazioni: ‘se non riesco a fare emozionare – non importa se in bene o in male – vuol dire che non ho fatto bene il mio lavoro’. Lee trova il modo, attraverso la creatività, di esorcizzare i suoi demoni – un passato di abusi e violenza che condivide con la sorella a causa del marito di lei – e di dar forma alla bellezza non fine a se stessa. Lo stilista cerca anche qualcosa da raccontare, lungo una ricerca sia di stile che di storia. Dà scandalo la collezione Highland Rape, ispirata agli stupri degli inglesi a seguito della battaglia di Culloden, e a quello che Lee definisce senza mezzi termini un genocidio. La stampa sentenziò la misoginia di McQueen, senza approfondire altre possibili letture di un’operazione così contraddittoria e inedita: portare in passerella un fatto storico dalla prospettiva delle donne, che sempre, sempre emettono potenza, a dispetto della vulnerabilità storica rappresentata.

Il connubio tra passato e presente – McQueen è uno dei primi stilisti che interroga la rivoluzione digitale – lo rende vicino ad altre grandi personalità artistiche come Björk, grande assente del documentario impostato sulla prossimità dello stilista, nelle origini più che in ciò che è noto. 

In questo gustoso ed emozionante viaggio nella vita di McQueen, emerge la sua passione per Sinead O’Connor o per Michael Nyman, compositore (The piano, La fine della storia) nonché amico personale; e sempre sul filo del personale, il suo suicidio si colloca nella scia della morte della madre e del suicidio della sua amica Isabella Blow (indiscutibile fonte d’ispirazione per Lady Gaga), colei che lo aveva lanciato e a cui poco è prono a riconoscere nell’ultima parte della sua amicizia.

Vicino allo stile di Vivenne Westwood, se ne discosta per l’assenza di quella gioiosa baldanza propria di lei; Alexander McQueen ha dato vita a uno stile eccentrico eppure romantico, decadente e affascinante, colmo di angoscia e di struggente bellezza. Bellezza selvaggia, come ricorda la mostra succitata. Una bellezza che seduce il pubblico con tocchi di trash sublime e sofisticatezze tecno, con la stessa potenza di una natura morta di seicentesca memoria, nell’incarnazione di donne forti in corpi eterei, a cui lo stilista-artista era legato da un geloso sentimento di appartenenza, come tutto ciò che si sente l’urgenza di esprimere e di condividere in forma di arte, rompendo il tabù del segreto della propria interiorità più profonda, oscura, sublime e disperata. 

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=4OjX3ZbsfbU

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Ina Macina, pugliese per nascita e nomade per divenire. Vive tra Italia e Barcellona. Formatrice in questioni di genere, consulente in diversity management, umanista. Nel 2017, consegue un dottorato presso l’Università di Barcellona in filologia moderna, con specializzazione in letteratura e studi di genere. Blogger ed entusiasta della fotografia, dal 2009 ha scritto per diverse riviste online nella sezione cultura, in particolare letteratura, arte e cinema. L’interesse per la critica cinematografica matura durante la prima edizione del Bif&st, Per il cinema italiano, tenutasi a Bari nel 2009; durante il festival, frequenta il laboratorio ‘Fare critica cinematografica’ e fa parte della giuria per i documentari (il vincitore della categoria sarà Gianfranco Rosi). Nel tempo, il suo approccio critico è andato specializzandosi nella prospettiva di genere.