La Guerra ispano-americana e la Rivoluzione messicana

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Abbiamo già analizzato le caratteristiche e le contraddizioni degli Stati Uniti, dove, nonostante gli strascichi della schiavitù e la massiccia industrializzazione, il sistema elettorale è allargato anche agli stranieri, vige il sistema meno autoritario del mondo basato sulle libertà civili individuali e la società liberale permette ottime possibilità economiche e imprenditoriali; paradossalmente la grande apertura e accoglienza ai nuovi arrivati convive con un forte razzismo verso le minoranze etniche, soprattutto quella nera. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, il Nord America è il sogno e la meta di tutta la gente povera che emigra dall’Europa: la speranza di fare fortuna lì crea il “mito americano”. 

Cartina dell’America

A livello di politica estera, già nel 1823 era stata emanata la “dottrina Monroe” che, con lo slogan «l’America agli americani», intendeva in un primo momento cacciare dal continente tutte le potenze europee e in un secondo tempo assoggettare l’intero territorio, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, agli interessi statunitensi. Ma a questo punto occorre spiegare in modo più approfondito come cambia il significato della dottrina Monroe. Tra il 1893 e il 1896 la floridissima economia americana si blocca in una crisi di sovrapproduzione: se già tutti hanno tutto, la merce diventa superflua e il meccanismo industriale rischia di incepparsi. A questo punto, per non soffocare nella propria sovrabbondanza di produzione eccessiva rispetto ai bisogni e ai consumi, è necessario allargare il mercato; così l’opinione pubblica, prima isolazionista per rispetto all’idea di libertà su cui la mentalità americana è basata, diventa favorevole a una politica coloniale espansionistica. 

Nel 1898 a Cuba scoppia una rivolta guidata da José Martí per cacciare dall’isola l’esercito spagnolo ancora occupante. Contemporaneamente, la stessa rivolta antispagnola esplode alla Filippine, vicine alla Cina (e la Cina ha sempre fatto gola ai commerci europei fin dal Medioevo). Per gli Stati Uniti sono occasioni d’oro. L’esercito USA interviene in difesa di Cuba e delle Filippine e in poco tempo sconfigge la Spagna. Ma né José Martí (ucciso da soldati spagnoli durante la guerra) né il movimento indipendentista filippino ottengono ciò che speravano: le isole del Pacifico sono ridotte a colonie USA e Cuba viene riconosciuta come Repubblica sotto il protettorato statunitense. La popolazione cubana si ritrova senza diritti, amministrata da governi fantoccio, a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero i cui profitti andranno ad arricchire le casse di Washington: la situazione sull’isola rimarrà tale fino al 1959. Oltre alla produzione agricola, Cuba è sfruttata dagli statunitensi per il turismo sessuale, tanto che fino al 1959 l’isola sarà soprannominata «il bordello d’America».

Foto di José Martí

Il colonialismo USA non finisce qui: subito dopo vengono annesse agli Stati Uniti anche le isole Hawaii. Quando il Panamá insorge per ottenere l’indipendenza dalla Colombia, gli USA l’appoggiano in cambio di un contratto centennale che assicuri loro il controllo del canale che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico, fondamentale per le comunicazioni e gli scambi commerciali intercontinentali. Per tutto il Novecento, gli investimenti degli Stati Uniti in America centrale saranno vincolati all’accettazione delle loro politiche economiche.

Le ingerenze statunitensi condizionano pesantemente soprattutto i processi sociali e politici in corso in Messico, Paese confinante e ricco di materie prime. Dopo l’indipendenza, il Sud del Messico si è sviluppato con un’economia di tipo latifondista: poche persone possiedono da sole terre estese più di interi Paesi europei in cui lavoravano braccianti senza alcun diritto; il Nord invece è industrializzato sotto il controllo degli Stati Uniti. Nessuna legge tutela contadini e operai dallo sfruttamento né controlla i salari e i prezzi dei prodotti alimentari; per sopravvivere, molte famiglie sono costrette a indebitarsi e, non avendo abbastanza soldi, pagano il cibo con il lavoro, fino a ritrovarsi incastrati a vita in condizioni disumane come i servi della gleba nel feudalesimo europeo. Le terre su cui sorgono la haciendas (i latifondi) sono state espropriate alle popolazioni indigene (prevalentemente Maya e Azteca) nei secoli successivi alla conquista europea. A gestire questa situazione di ingiustizia è il dittatore Porfirio Diaz, al potere dal 1876 con lo slogan «Pace, ordine e progresso». La situazione è destinata ad esplodere. Nel 1910, dopo più di trent’anni di dispotismo di Diaz, varie città messicane insorgono sotto la guida di Francisco Madero, un proprietario terriero di idee liberali. Scoppia così una lunga guerra civile. Gli USA, che prima appoggiavano Diaz, lo lasciano deporre per il troppo potere che ha accumulato. Madero apporta al sistema politico messicano varie riforme di stampo liberale, come l’allargamento del suffragio elettorale e il divieto di ripetere il mandato presidenziale, ma non risolve i problemi economici strutturali e non fa nulla per alleviare la fame e la miseria delle masse contadine e operaie. Esplodono di conseguenza nuove rivolte, stavolta tra i ceti più poveri. A Sud del Paese Emiliano Zapata (foto in copertina) guida contadini e Indios con gli slogan «Terra e Libertà» e «La terra è di chi la lavora», chiedendo una riforma agraria che abolisca i latifondi distribuendo le terre tra i contadini e restituisca alle comunità indigene le zone a loro sottratte. A Nord Francisco Pancho Villa organizza un esercito popolare composto da operai, minatori, Indios e nullatenenti in appoggio a Zapata.

Gli USA in un primo momento appoggiano Madero ma, davanti all’insurrezione contadina, temono di perdere il controllo della situazione: su mandato dei latifondisti, del clero e degli Stati Uniti, nel 1913 il generale Victoriano Huerta assassina Madero e prende il suo posto, dando inizio a una nuova guerra civile. In seguito a nuove insurrezioni popolari e alla stesura di una Costituzione democratica con diritti sociali fortemente avanzati, l’esercito degli Stati Uniti entra in Messico e riprende il controllo della situazione mettendo al potere il liberale Venustiano Carranza. Nel 1919 Emiliano Zapata viene assassinato: la fase rivoluzionaria può considerarsi conclusa. Segue un lungo periodo di forte instabilità politica in cui è frequente l’intervento militare USA: la Rivoluzione messicana apre a tutti gli effetti la pesante ingerenza politica statunitense sull’America Latina. Dal 1940, per i settant’anni a venire, il potere rimarrà sempre nelle mani di un unico partito, il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che, con il beneplacito dei vicini del Nord, applica una minima parte degli obiettivi della Rivoluzione del 1910 ma trascura i problemi dei contadini, delle donne e dei popoli Indios. Eppure Emiliano Zapata è sempre rimasto un mito per tutti gli abitanti del Sud del Messico, mito che riesploderà a sorpresa molti decenni più tardi.

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