Nel 1861 si assiste alla proclamazione del Regno d’Italia con capitale Torino; nel 1866 viene annesso il Veneto e la capitale è spostata a Firenze; nel 1870, approfittando della sconfitta francese nella battaglia di Sedan, l’esercito sabaudo entra a Roma e ne fa la capitale del Regno, nonostante i precedenti accordi con la Francia prevedessero di non toccare la città papale. La costruzione del Regno d’Italia non è stata tanto un’unificazione nazionale quanto piuttosto l’espansione di uno Stato sugli altri della penisola: ne è prova anche la scelta del Re Vittorio Emanuele II di non cambiare nome in Vittorio Emanuele I. Con queste premesse, la formazione del Paese non può certo essere un processo democratico e indolore.
L’Italia si è formata mettendo insieme zone con economie diversissime, creando quindi un confronto diretto tra ricchi e poveri che non poteva non danneggiare gli ultimi. I primi passi dell’economia nazionale sono tutti a vantaggio delle zone corrispondenti all’ex Regno di Sardegna. Nei decenni iniziali dello Stato unitario si forma il cosiddetto «triangolo industriale» tra Torino, Genova e Milano, area a forte sviluppo non solo di fabbriche ma anche di servizi e infrastrutture.
Tutta la crescita è a vantaggio del Nord della penisola, andando a peggiorare una situazione di partenza già abbastanza squilibrata.
Nel 1859, prima della proclamazione ufficiale del Regno, era stata istituita in Piemonte la legge Casati che imponeva l’obbligo scolastico fino a nove anni indipendentemente dal reddito e sottraeva l’istruzione al controllo ecclesiastico. Quando vari Stati della penisola diventano uno Stato unico occorrerebbe una nuova legge che pareggi le differenze regionali, e invece si decide di limitarsi ad estendere la vecchia legge piemontese. Per le famiglie ricche o quantomeno benestanti del Nord, mandare i figli a scuola non è certo un problema; ma per quelle povere del Sud, che vivono di quel poco che la terra offre, avere braccia in meno senza aiuti economici statali è una difficoltà in più per la sopravvivenza. A togliere braccia utili in famiglia e rendere impossibile la sopravvivenza dei poveri contribuisce anche la leva militare imposta dal nuovo esercito nazionale.
Mentre al Nord si producono armi e ferrovie, la maggior parte dei beni alimentari che il Paese consuma è prodotto nel Meridione da contadini e pastori, pagati poco e tassati molto di più. Infrangendo le promesse portate dall’esercito garibaldino, nell’ex Regno delle Due Sicilie il latifondo e lo sfruttamento dei braccianti non vengono aboliti, cambiano solo i nomi dei proprietari terrieri. Inoltre, il nuovo Stato privatizza tutte le terre del Sud: prima della conquista sabauda, molti pascoli e boschi erano di proprietà pubblica, usati dai nullatenenti per raccogliere frutta, legna e animali, mentre ora i più poveri sono in preda alla miseria e possono scegliere se morire di fame, essere sfruttati come braccianti nei latifondi o emigrare a Nord o all’estero a fare gli operai delle nuove industrie. Così, nel complesso, l’espansione piemontese ha determinato nel Mezzogiorno italiano un forte aumento della povertà e un immiserimento della qualità della vita. L’unico modo equo di organizzare un’unione politica nazionale che non soffocasse il Sud sarebbe stato quello di porre dei dazi regionali per proteggere le merci meridionali senza esporle alla schiacciante concorrenza con quelle del Nord. Quando invece c’erano Stati separati, la Napoli borbonica aveva un’economia industriale rigogliosa proprio perché le sue fabbriche, per quanto piccole, non dovevano competere con quelle lombarde e piemontesi.
In risposta alle troppe ingiustizie, tanti uomini e donne del Sud di tutte le età e di varie estrazioni sociali si uniscono in bande dando vita a una fitta resistenza antisabauda.
La brigante Michelina Di Cesare uccisa sul monte Morone il 30 agosto 1868 dall’esercito regio, denudata ed esposta in piazza
Alcune bande sono nostalgiche dei Borbone, altre sono indipendentiste, altre ancora chiedono solo un’Italia giusta ed equa, molte vogliono semplicemente veder abolito il latifondo una volta per tutte, con la redistribuzione delle terre, e avere il diritto di partecipare ai processi decisionali del Paese. Questi gruppi armati sono costituiti da alcuni ex soldati dell’esercito borbonico insieme a tanti contadini, pastori e artigiani depredati delle proprie terre e risorse, molti cattolici ma anche tanti laici. Nascosti tra i boschi e le montagne di Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia e Calabria, “partigiani e partigiane ante litteram” combattono contro il nuovo Stato, che considerano invasore: dalla propria parte, oltre all’appoggio della popolazione locale in parte fedele ai Borbone e in parte delusa dalla mancata realizzazione delle promesse garibaldine di democrazia e fine del latifondo, hanno il vantaggio di conoscere il territorio meglio dei conquistatori.
La stampa piemontese (ormai nazionale) cerca di far passare il fenomeno non come una richiesta sociale ma come una semplice questione di ordine pubblico e attribuisce agli abitanti delle regioni meridionali l’epiteto di «terroni» e ai partigiani sudisti il nome di «briganti», accusandoli anche di depredare gli stessi paesi del Sud. Ma la popolazione locale è schierata con i ribelli. Lo Stato centrale risponde con una repressione feroce. Sotto il comando del generale Enrico Cialdini, le truppe sabaude sterminano interi villaggi del Meridione non risparmiando neanche i civili di tutti i sessi, le età, le estrazioni sociali e le condizioni personali e fisiche. Così le baionette piemontesi ripristinano l’ordine al Sud.
Intitolazione ad Angelina Romano (Longobardi, CS), scomoda testimone della violenza sabauda, fucilata a Castellammare del Golfo (TP), a soli nove anni, il 3 gennaio 1862
L’altro grande problema aperto nel nuovo Stato è il difficile rapporto con il Papa. La maggior parte della popolazione italiana è cattolica, quindi il Pontefice ha una forte influenza sulle questioni interne al Paese. Fino al 1870 Roma è stata difesa dagli accordi diplomatici con la Francia. Quando il 20 settembre dello stesso anno i bersaglieri entrano a Roma attraverso una breccia aperta a cannonate nelle mura vaticane, il Papa Pio IX sceglie di non difendersi: militarmente sarebbe inutile e l’appoggio francese è venuto a mancare a causa della Guerra franco-prussiana, Napoleone III è caduto e la nuova III Repubblica Francese è profondamente laica. L’anno seguente il governo italiano emana la Legge delle Guarentigie, con cui stabilisce che l’interno delle mura vaticane, il palazzo di Castel Gandolfo e la basilica di S. Giovanni in Laterano restano di proprietà papale, mentre lo Stato italiano versa un indennizzo per i beni espropriati allo Stato della Chiesa, misero rispetto a quanto sottratto. Il Papa si dichiara prigioniero in Vaticano e ribadisce che potere politico e potere spirituale sono inseparabili. Nel 1874 Pio IX emana il Non expedit (dal latino «non è opportuno»), una disposizione in cui intima ai sudditi del Regno d’Italia di fede cattolica di astenersi dal partecipare alle elezioni e a tutta la vita politica del Paese. Proprio in questi anni, per provocazione contro la Santa Sede, il governo Crispi fa erigere a Roma la statua di Giordano Bruno, considerato anticlericale, in Campo de’ Fiori, luogo dell’esecuzione del filosofo da parte del tribunale della Santa Inquisizione nel 1600, come simbolo del libero pensiero.
La repressione del Sud e l’astensionismo dei cattolici minano ulteriormente la già scarsa rappresentanza politica vigente nel Regno. Al momento della formazione del Regno, ad avere il diritto di voto sono soltanto i maschi adulti alfabetizzati che possiedono oltre una certa soglia di ricchezze e pagano in tasse almeno quaranta lire all’anno, ovvero circa il 2% della popolazione. Va da sé, di conseguenza, che ad avere posti in Parlamento sia una ristretta minoranza di aristocratici e una piccola cerchia di imprenditori dell’alta borghesia.
All’interno del Parlamento si vengono a creare due macrofazioni, provenienti da aree culturale ideologiche diverse ma di fatto abbastanza simili nelle iniziative politiche. La prima di queste, guidata da Agostino Depretis, è liberista nell’economia, laica nella politica interna e accentratrice nell’amministrazione: prende il nome di Destra storica e rappresenta gli interessi dei proprietari terrieri e degli industriali. Un importante obiettivo dei governi della Destra storica è raggiungere il pareggio di bilancio, ovvero saldare tutti i debiti contratti con le guerre d’indipendenza; ma tale obiettivo viene raggiunto tassando pesantemente i beni di consumo, quindi le classi sociali più povere.
L’altra corrente, guidata da Francesco Crispi, prende il nome di Sinistra storica: costituita prevalentemente da ex mazziniani ed ex garibaldini che hanno accettato la monarchia sabauda, è altrettanto laica rispetto ai rapporti dello Stato con la Chiesa e altrettanto autoritaria nella politica interna, ma punta al decentramento amministrativo e al suffragio universale maschile. Sotto la Sinistra storica, nel 1889 il ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli abolisce la pena di morte, salvo per i reati di guerra puniti dalla legge marziale.
Strano ma vero, è sotto il governo Depretis che viene allargato il suffragio elettorale dal 2% al 7% della popolazione, una cifra di per sé irrisoria ma che coinvolge pur sempre il triplo dei precedenti votanti: ora possono votare anche borghesi di basso livello e alcuni operai del Nord. Con questa nuova legge, nelle elezioni del 1882 entra in Parlamento il primo deputato socialista, Andrea Costa. Fuori dalla politica si sono chiamati invece i cattolici, offesi per l’invasione di Roma, e i repubblicani, che non si riconoscono nel Regno della famiglia Savoia.
In copertina. La Real Colonia Serica di San Leucio (Caserta), un eccellente esperimento sociale e produttivo devitalizzato dall’annessione