Fur è un film del 2006 di Steven Shainberg, con Nicole Kdiman e Robert Downey Jr. nei ruoli principali, tratto dal libro di Patricia Bosworth, Diane Arbus: una biografia. Il titolo è completato da un’indicazione fondamentale: Un ritratto immaginario di Diane Arbus, in quanto non si tratta di un film fedele alla biografia, ma di un’interpretazione dell’idea, del sogno della fotografa.
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La pellicola vanta a sua volta una fotografia sapiente e accattivante, aspetto che assume, naturalmente, una certa rilevanza nei film che di fotografia trattano; si potrebbe accostare a Grand Budapest Hotel, soprattutto per la costruzione ordinata delle scene, con atmosfere non più cupe ma che sollecitano una dimensione onirica e riflessiva tramite l’uso di colori freddi, ma non smorti, alternati a quelli vibrantemente autunnali.
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Il film, costruito su simmetrie concettuali (Fur rimanda per certi versi al mondo della moda, di cui si occupavano i genitori di Arbus e poi la stessa fotografa col marito, e, nel film, all’ipertricosi dell’altro personaggio principale, Lionel, che condurrà Diane verso il contatto profondo con se stessa; il suicidio di Lionel, invece, è simmetrico al suicidio reale della fotografa), racconta la ricerca personale di una donna verso la via di fuga dall’America convenzionale e spendacciona. Viene esasperata la passività del ruolo della protagonista nella gestione degli affari di famiglia, che comprendevano la realizzazione di cataloghi fotografici commerciali: appare, infatti, come assistente del marito Alan, limitandosi a ‘procurare cannucce alle modelle perché non il rossetto non sbavi’. Esasperata dal mondo patinato segue una chiamata interiore verso ciò che è non conferme, diverso, genericamente strano, riconoscendolo in sé: per questo, potremmo dire che metaforicamente l’obiettivo non è puntato verso l’esterno, ma verso la propria interiorità. E la bellezza di Diane-Kidman rende magnificamente l’idea che anche una bellezza vistosa può essere freak, poiché non è qualcosa che riguarda solo la parte tangibile e visibile della realtà, ma un vero e proprio modo di essere, e di esistere. E che a volte ci si salva dalla follia avvicinandosi ad essa a distanza di sicurezza; o sarebbe meglio dire, avvicinandosi a ciò che non si lascia addomesticare, che risveglia la nostra creatività e uno sguardo umano e comprensivo sul mondo.
Permeato di una sensualità elegante, nel legame tra Lionel e Diane l’acqua è l’elemento costante che riconnette la donna con i suoi sogni e desideri. Molto prima, insomma, della Forma dell’acqua, i concetti di norma e fuori norma sono messi in discussione tramite la potenza di relazioni umane tra persone apparentemente molto diverse.
Il film parla poco, nei fatti, della fotografia di Diane Nemerov. Nata in una famiglia borghese, benestante e incline all’arte, Diane sposerà presto Alan Arbus inaugurando con lui anche una collaborazione professionale attorno alla fotografia. I loro lavori commerciali finiscono sulle maggiori riviste di moda. Certamente, un’esperienza tecnicamente molto formativa. Intorno agli anni ’60 i due si separano e Diane comincia una ricerca personale, distanziandosi da quel mondo convenzionale che in un certo senso aveva concorso a creare nell’immaginario collettivo con i suoi lavori per i servizi di moda; le atmosfere glamorous, l’idea stereotipata e ossessivamente promossa di uno sfacciato benessere a portata d’acquisto – riflesso di quello stesso conformismo di relazioni umane, oggetti e spazi che artisti come Tim Burton hanno egregiamente rappresentato e a cui si sono ribellati dando vita ai loro freak – iniziano a lasciare il posto a nuovi orizzonti umani.
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Arbus ridefinisce ciò che è degno di essere fotografato, ciò che è bello, che è interessante perché è umano. Frequenta ambienti inusitati, un underground molto esteso fatto di identità altre, e le sublima in bianco e nero, come Vivian Maier, peraltro sua contemporanea. La differenza con Maier sta in un tecnicismo più espresso, una predisposizione più evidente alla messa in posa intesa non come artificio, ma come messa in relazione di chi fotografa, macchina e soggetto. Con occhio innamorato perché partecipe, Arbus riesce a dar vita ritratti talmente poetici da ricordare le grandi attrici del cinema muto, o a far diventare protagonisti, davanti l’obiettivo, tutti quei testimoni di un’alterità che il mainstream aveva lasciato fuori, condotto a sé con il richiamo e la partecipazione dell’intimità.
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In copertina. Dalla mostra di Toponomastica femminile “Donne e lavoro”. Sezione Fotografe. Obiettivo sui grandi talenti