Una marcia pacifica si avvicina alla recinzione di Jabaliya. Non si vedono bandiere di partiti né di fazioni, Al Fatah e Hamas finalmente lavorano insieme. Sono trentamila persone disarmate, di entrambi i sessi e di tutte le età. Non lanciano razzi né impugnano fionde e non hanno il volto coperto dalla tradizionale kefyah. Tra i partecipanti ci sono molti adolescenti, cresciuti in una striscia di terra di circa dieci chilometri per cento chiusa dal filo spinato, dove l’acqua scarseggia e la corrente elettrica viene concessa solo per quattro ore al giorno, dove anche la pesca è sottoposta a restrizioni e il 70% della popolazione è composto da rifugiati le cui famiglie furono allontanate dalle terre su cui nacque lo Stato di Israele. La manifestazione, nota come Marcia del ritorno, chiede che il popolo palestinese possa tornare a quelle terre, a poche settimane dal settantesimo anniversario della fondazione di Israele, ricordata nel mondo arabo come Al Nakba, la catastrofe. La data scelta, indicata come Giornata della terra, ricorda un episodio del 1976, in cui le forze armate uccisero sei persone e ne ferirono altre cento per impedire uno sciopero di arabi con la cittadinanza israeliana che si erano visti requisire le proprie terre.
Un proiettile sibila nell’aria. Cade un ragazzo. Poi un altro. Poi un altro ancora. Immobili, i cecchini israeliani eseguono da lontano gli ordini che arrivano via radio. Alla fine della giornata, il bilancio è di diciassette morti e quattrocento feriti.
I vertici dell’esercito israeliano sostengono che i ragazzi uccisi fossero dei «rivoltosi» e che una manifestazione pacifica a ridosso della Pasqua ebraica costituisca una minaccia per la sicurezza e per l’esistenza stessa del Paese, parlano di «tentativi di attacchi terroristici fatti passare per manifestazioni»; il ministro della difesa Lieberman parla di «provocazione» e sostiene che i partecipanti alla marcia fossero stati istigati e manipolati da Hamas, braccio armato della resistenza e partito maggioritario nella striscia di Gaza.
Le fotografie indicano piuttosto una dimostrazione nonviolenta, non certo un’Intifada, e alcuni dei morti sono stati colpiti alla schiena mentre scappavano dai gas lacrimogeni.
Molti israeliani e sionisti ritengono che le colonie, per quanto illegali, siano indispensabili per la sicurezza di Israele e ne attribuiscono la responsabilità ai tentativi palestinesi di lotta armata. Ma la Marcia del ritorno del 30 marzo dimostra che una lotta pacifica non viene accolta dall’occupante in maniera meno cruenta. I rapporti di forza tra occupante e occupato sono del tutto asimmetrici. Non si tiene conto della violenza costante che i palestinesi hanno sempre subito. ll quotidiano arabo Al Jazeera replica che «pretendere che [i palestinesi] adottino un’ideologia nonviolenta significa dimenticare la storia delle lotte di liberazione, dall’Algeria al Viet Nam».
Mentre il Papa tace, le ONG e l’ONU sono impotenti e Trump strizza l’occhio a Netanyahu, pronto a mettere il veto quando il Consiglio di Sicurezza discuterà un’eventuale commissione di inchiesta, l’unica voce di un capo di Stato che si è paradossalmente levata contro l’ulteriore «atto disumano» commesso viene da un uomo non certo attento ai diritti umani né alla legalità internazionale: il dittatore turco. Negli ultimi giorni Erdogan e Netanyahu hanno inscenato dei grotteschi comizi televisivi dandosi dei terroristi a vicenda.
Secondo varie testate del mondo arabo (in particolare il quotidiano panarabo Al Quds al Arabi e quello di Ramallah Al Avyam), l’ONU dovrà aprire un’indagine e probabilmente interverrà la Corte penale internazionale per crimini di guerra. Difficilmente però questi organi potranno imporre all’occupante il rispetto dei diritti umani: da oltre cinquant’anni Israele disobbedisce alle ingiunzioni delle Nazioni Unite che vorrebbero il ritiro da tutti i territori occupati e in particolare la città di Gerusalemme, la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Già nel 2009, in seguito all’operazione Piombo Fuso, costata la vita a migliaia di civili della striscia, le cui notizie giungevano in Italia grazie ai resoconti di Vittorio Arrigoni, il Tribunale penale internazionale aveva aperto un processo a carico dei vertici politici e militari di Israele, presieduto allora dallo stesso Benjamin Netanyahu che siede oggi al governo, con i capi d’accusa di «crimini contro l’umanità» e «genocidio».