Gli Oscar e i nostri tempi

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È veramente sorprendente come le ultime rappresentazioni cinematografiche abbiano significativamente puntato l’attenzione sulla questione delle relazioni in ottica di genere, e in particolare sul tema della violenza contro le donne nelle varie espressioni.

Un numero significativo di film che proprio in questi giorni si contenderanno l’ Oscar può essere letto come una sorta di prontuario di peccati capitali contro le donne; il fenomeno ha particolare valore se si pensa che le pellicole sono state girate un momento prima dell’emersione dello scossone – massiccio e globale – del #MeToo. Sembra quasi che il cinema abbia avvertito un cambiamento di atmosfera con la lungimiranza e la sensibilità propria di un dispositivo culturale in ottima salute. Certamente la storia del cinema è costellata di esemplari dedicati alla denuncia o alla riflessione sul tema (per citare i più recenti: Suffragette, Il diritto di contare, La battaglia dei sessi e anche il discusso e mediocre Madre!), ciò che sorprende è la concentrazione proprio in questo momento storico.

La peculiarità, inoltre, risiede nella particolare configurazione della messa in scena: la vicinanza all(a) questione(i) da un punto di vista specifico nel genere si specifica ulteriormente attraverso un approccio intersezionale. Il respiro che domina è quello sì  passibile di letture femministe, ma ampliato da una caleidoscopica visione sulla diversità: nella carrellata che segue, emerge ciò che si pone dall’altra parte rispetto al modello (finora) dominante del bianco, maschio, ricco. E per rendere questa rottura si sceglie soprattutto di guardare indietro, verso un passato neanche troppo lontano ma che si riconosce come distante dall’assenza, per esempio, non della tecnologia ma del suo abuso, mentre si veicola una nostalgia verso le radici autentiche di ciò che ha fatto nascere la stampa, o il cinema stesso.

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The post (Spielberg) è in sé anche un elogio alla stampa ai tempi della macchina da scrivere, della modalità e dei ritmi diversi della ricezione e trasmissione delle notizie. Emerge, anche, un’accuratezza e un’attenzione circa le fonti sulla cui importanza, in piena post verità, è necessario riflettere in merito alle questioni di potere e della costruzione del senso civico (‘la stampa serve chi è governato, non chi governa’). E, in questo senso, appare più ardua la lotta condotta dalla direttrice dello storico giornale di Washington contro la cessione di poltrone, di potere o orientamento, in seno alla gestione del giornale, per la sua sopravvivenza. È una storia vera: Katharine Graham (Maryl Streep) viene colta nel 1971 nei suoi sforzi di mandare avanti The Post mentre esplode il caso dei Pentagon Papers, una mole di documenti governativi che attestano la precoce consapevolezza, quasi scientifica ma comunque sempre dissimulata alla cittadinanza, del fallimento dell’intervento degli Stati Uniti in Vietnam. Il racconto si concentra quindi sulla figura di una donna che, posta a capo del giornale quasi per caso, deve difendere la sua credibilità contro la sfiducia di un entourage – tutto maschile, l’enorme macchia nera degli eleganti abiti degli uomini tra cui svetta sempre l’attrice vestita di colori chiari – che sta sempre a ricordarle, più o meno tra le righe, quanto non sia all’altezza, facendo anche mansplaining. La rappresentazione della sfiducia passa per la bravura di Streep che rende in suo personaggio spesso incapace di parlare, ma che poi – supportata da altre donne, personaggi minori, adeguata rappresentazione della forza spesso sotterranea di chi storicamente è rigettata nelle retrovie – trova in sé la forza della rivoluzione, che non bisogna temere e nel cui effetto domino bisogna sperare.

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‘Se non facciamo niente, neanche noi siamo umani’, dice Elisa Esposito (S. Hawkins), protagonista della Forma dell’acqua (Del Toro), una favola moderna ambientata nel 1962, che pecca qua e là in semplificazioni ma che recupera il senso dell’amore, capace di assumere la forma di chi lo dà o lo riceve, come recita la poesia che chiude il film spiegando il senso del titolo. Elisa è muta (ritorna anche qui il tema della non dicibilità), è caratterizzata da una straordinaria capacità creativa (vive in una casa iperpersonalizzata proprio sopra un cinema, elemento che ne traduce l’omaggio) e ha una bella rete di amicizie, con ‘diversi’ come lei: una donna di colore (O. Spencer) e un artista omosessuale, con cui condivide l’ostracismo sociale. Lavora in un laboratorio governativo come addetta alle pulizie, dove un giorno arriva una strana creatura dai poteri straordinari – il ‘monstrum’ – che, come Frankestein (riferimenti letterari, cinematografici e biblici ricorrono numerosi nel film), si rivelerà capace di apprendimento intellettivo e sentimentale-relazionale e di cui Elisa si innamorerà, ricambiata. Segue il caso della strana creatura un colonnello violento (M. Shannon), il suprematista che fonda la sua formazione sul pensiero positivo, legittimando il suo potere in quanto ‘immagine e somiglianza di Dio, io più di voi’, e che molesterà Elisa sul posto di lavoro. Il film si apre con una scena di autoerotismo della protagonista (come in American Beauty…) che coglie il cuore del film: il desiderio (forse l’assunto che anche  i/le ‘divers*’ concepiscono il desiderio andrebbe cambiato in: tutt* concepiamo il desiderio).

 Tre manifesti a Ebbing, Missouri (M. McDonagh) è un film fuori dall’ordinario. L’azione si svolge interamente in un piccolo paesino dove tutti si conoscono, un’ambientazione e un’atmosfera alla Twin Peaks, per capirci. Nulla è spettacolare, e anche lo scabroso omicidio da cui la storia prende le mosse (il caso Angela Hayes, la figlia della protagonista – F. McDomarnd – ‘raped while dying’) è ridotto al minimo nella sua rappresentazione. Tutto è molto sintetico ed essenziale. Il punto è che rispetto a Twin Peaks, il pubblico non deve arrivare alla conclusione sconcertante che il male è tra noi, in noi, nei nostr* immediat* prossim*: siamo ormai tutt* smaliziat*, lo sappiamo, nessuna cittadina da scandalizzare, e con essa il mondo intero. Allora cosa resta? Il film parla della violenza nelle sue declinazioni razziste, sessiste, omofobe, classiste e riguardo le disabilità. Con pennellate veloci, con durezza e grazia allo stesso tempo. Quello che resta è che la massima ‘la violenza porta altra violenza’, verificata negli eventi della prima parte del film, si stempera nel suo contrario: ‘l’amore porta amore’. E questo lo rende un film quasi rivoluzionario. I personaggi sono l’anima di questo lavoro, caratterizzati straordinariamente anche quando solo abbozzati. È attraverso di loro che si intravede questo miracolo, nel cambio delle relazioni umane che da essere terribilmente compromesse riscoprono la speranza di un’alternativa possibile di relazionarsi attraverso il dialogo (e molto spesso attraverso un dialogo comico). La fine è sorprendente, lascia di stucco, e qualsiasi altro finale sarebbe stato inopportuno.

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Io, Tonya (C. Gillespie), è un film sulla(e) verità, sull’ambiguità tra odio e amore, sulle condizioni materiali (povertà, status) attraverso la vita della pattinatrice Harding (interpretata da M. Robbie), dello scotto da lei pagato per essere stata un’atleta non conforme nel suo essere e per non aver mai corrisposto all’immagine di figlia (e poi di moglie) di famiglia felice. Le relazioni sono al centro: il rapporto violentissimo col marito viene visto attraverso gli occhi di lei, della sua fame di amore e accettazione e della continua ricerca di questo nutrimento nel seme della violenza, precedentemente conosciuta nella famiglia d’origine funestata da una figura materna rigida, anaffettiva e a sua volta violenta. La rabbia è fulcro delle relazioni personali ma anche della sua motivazione sportiva; tuttavia, l’incredibile potenza atletica non viene spiegata con la rabbia, ma al contrario, il film sembra suggerire che il destino mutilato di Harding, come donna e come atleta (l’ombra della brutale aggressione a Kerrigan la condannò definitivamente), avrebbe potuto essere diverso se la sua vita fosse stata più libera da questa emozione.

E se neanche vale la pena di soffermarsi sulla bravura di protagoniste e protagonisti degli altri film (a parte sottolineare come Maryl Streep abbia costruito uno stile recitativo tutto suo che la differenzia da qualsiasi altra perfomance sul grande schermo), bisogna riconoscere la grande maestrìa espressiva di Margot Robbie, che riesce a modulare straordinariamente tutte le emozioni sul suo volto, e in particolare rabbia, costernazione, disperazione: la scena in cui si costringe in un sorriso prima di una gara, le vale un Oscar per riuscire a scatenare nel pubblico,  con quel sorriso stentato, un picco di empatia di incomparabile altezza.

In sala, nessuna delle persone presenti ha abbandonato la poltrona prima della fine dei titoli di coda in cui si proiettano immagini di repertorio della pattinatrice, quasi ad avere conferma alle domande: ma davvero ha realizzato quel triplo axel? Ma davvero ha avuto una vita così terribile?

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Ina Macina, pugliese per nascita e nomade per divenire. Vive tra Italia e Barcellona. Formatrice in questioni di genere, consulente in diversity management, umanista. Nel 2017, consegue un dottorato presso l’Università di Barcellona in filologia moderna, con specializzazione in letteratura e studi di genere. Blogger ed entusiasta della fotografia, dal 2009 ha scritto per diverse riviste online nella sezione cultura, in particolare letteratura, arte e cinema. L’interesse per la critica cinematografica matura durante la prima edizione del Bif&st, Per il cinema italiano, tenutasi a Bari nel 2009; durante il festival, frequenta il laboratorio ‘Fare critica cinematografica’ e fa parte della giuria per i documentari (il vincitore della categoria sarà Gianfranco Rosi). Nel tempo, il suo approccio critico è andato specializzandosi nella prospettiva di genere.