L’indipendenza dell’America Latina e la “dottrina Monroe”

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Nei secoli successivi alla conquista europea, l’America Latina sviluppa un’economia basata sui latifondi (haciendas in spagnolo e fazendas in portoghese) e una società in cui sono presenti forti discriminazioni razziali al suo interno.

I colonizzatori spagnoli e portoghesi hanno imposto il Cattolicesimo in tutto il continente e sterminato delle popolazioni indigene. Il ceto sociale egemone è costituito dai creoli, discendenti dei coloni europei; numerosissimi sono anche gli indios, i pochi originari di quelle terre sopravvissuti alla conquista, e i neri, pronipoti degli schiavi deportati dall’Africa come manodopera gratuita da sfruttare nei campi e nelle miniere. Gli schiavi più fortunati sono usati per mansioni domestiche anziché per lavori pesanti, ma sempre di schiavi si tratta.

Durante i secoli XVII e XVIII, i Borbone hanno instaurato in Spagna un’economia imperiale di totale sfruttamento delle risorse minerarie e agricole americane, costringendo le colonie ad attuare la cosiddetta economía hacia afuera, ovvero una produzione tutta incentrata sulle esportazioni in funzione dei bisogni europei e soffocata dalle tasse che lascia pochissimo spazio ai consumi interni.

Tra i creoli, prevalentemente ricchi o comunque benestanti che amministrano le ricchezze per conto delle famiglie imperiali di Spagna e Portogallo, cresce il desiderio di una maggiore autonomia fiscale dalla madrepatria. Il momento migliore per realizzare tale desiderio si presenta quando Spagna e Portogallo sono in difficoltà a causa dell’invasione napoleonica, vale a dire rispettivamente nel 1807 e nel 1808.

A questo punto le storie dell’America Latina spagnola e di quella portoghese prendono strade diverse.

Il Re di Spagna viene fatto prigioniero dalla Francia napoleonica, lasciando quindi in America un vuoto politico: in assenza di una figura di riferimento che si ponga come garante formale dell’ordine costituito, gestire la situazione diventa impossibile. Ed è proprio di questo vuoto che si approfitta l’élite coloniale creola, la quale peraltro usa in chiave antispagnola e antifrancese quell’ideale di libertà economica e commerciale nato proprio dalla borghesia inglese e francese durante la Rivoluzione Atlantica. Alla notizia della prigionia del Re, le famiglie creole istituiscono delle Juntas (unità locali di autogoverno) che proclamano la sospensione dei doveri fiscali verso la Spagna. Quando il Congresso di Vienna riporta sul trono il legittimo sovrano, ormai i creoli non hanno nessuna intenzione di rinunciare alle libertà conquistate. Il Re cancella la Costituzione di Cadice e pretende di restaurare l’assolutismo anche nelle colonie. Ma sono le sue stesse truppe a ribellarsi, dando inizio ai moti europei del 1820.

Tra il 1820 e il 1824 si scatena la guerra anche oltreoceano: sotto la guida di Simón Bolívar a Nord (attuali Colombia, Venezuela, Ecuador e Perù) e a Sud di José de San Martín (attuali Cile e Argentina) e José Artigas (attuale Uruguay) tutto il continente ottiene l’indipendenza definitiva dalla Spagna. In questi eserciti a guida creola confluiscono anche numerose popolazioni indigene con la speranza (mai esaudita) di veder riconosciuti i propri diritti sulle loro ancestrali terre. A onor del vero va però detto che Bolívar e San Martín riescono solo in minima parte nei loro intenti: non bisogna dimenticare che il sogno dei due libertadores non è solo la cacciata degli spagnoli ma soprattutto l’unificazione dell’intera America meridionale in un unico grande Stato federale, cosa che non sarà mai realizzata.

FOTO 1. Monumento a Los Liberadores Simón Bolívar y José de San Martín, Guayaquil, Ecuador

La famiglia reale portoghese invece, fiutando l’imminente pericolo, aveva trasferito la sede governativa da Lisbona a Rio de Janeiro prima dell’invasione napoleonica, riconoscendo così l’importanza per l’impero delle terre d’oltreoceano (ovvero l’attuale Brasile) ed evitando la crescita dei sentimenti antieuropeisti in seno alle élite locali. Dopo la Restaurazione, la famiglia reale torna a Lisbona, lasciando a Rio un reggente per niente ostile alle rivendicazioni locali. Così il Brasile è l’unico Stato sudamericano a raggiungere l’indipendenza nel 1822 attraverso un processo indolore.

Foto 2. L’indipendenza degli Stati latinoamericani

Particolarmente conservatrici sono sempre state le élite messicane, legate non solo al latifondismo ma anche alla Chiesa cattolica e, non da ultimo, agli interessi degli Stati Uniti, a danno dei piccoli contadini e soprattutto degli Indios.

Negli stessi anni gli USA, costituiti da tredici Stati tra loro federati e indipendenti dalla Gran Bretagna già dal 1777, si stanno espandendo verso Ovest in zone considerate terra di nessuno. Dove per “nessuno” si intendono vari e numerosi popoli indigeni (i cosiddetti «pellerossa») con proprie usanze e ricche culture. Quando non con le armi, gli “indiani” sono stati decimati distruggendo il loro habitat secolare e facendo estinguere gli animali che costituivano la loro fonte di sostentamento primaria.

Dopo aver sostenuto militarmente l’indipendenza messicana dalla Spagna, il presidente statunitense James Monroe pronuncia un celebre discorso datato 1823 che sarà ricordato con il suo nome e che si può riassumere nello slogan «l’America agli americani». La particolarità della dottrina Monroe è che cambierà di significato nel corso del tempo: la stessa frase, che in un primo momento aveva una connotazione antimperialista volta a scacciare le potenze europee, diventerà nel Novecento il pretesto per permettere agli Stati Uniti di intervenire economicamente e militarmente sugli affari degli Stati latinoamericani con la scusa di tutelare i propri interessi, andando a violare proprio quel principio di autodeterminazione dei popoli di cui il presidente Monroe si faceva portavoce.

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