La partigiana Agnese

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Scrittrice precocissima, Renata Viganò, classe 1900, aveva partecipato alla Resistenza da staffetta partigiana e infermiera, ma pure come collaboratrice della stampa clandestina, insieme al marito Antonio Melluschi, anch’egli giornalista e scrittore. Per Viganò, il successo, non duraturo (oggi è poco letta e di lei di rado ci si ricorda) ma significativo, giunse col primo e più riuscito tra i suoi scritti sulle vicende resistenziali, il romanzo che nel titolo, a un tempo, indica la protagonista e ci fa dolorosamente certi della sua sorte, L’Agnese va a morire. Pubblicato nel 1949, conquistò il secondo posto al Premio Viareggio di quell’anno e fu riconosciuto come un frutto maturo del Neorealismo, e vibrante, luminosa testimonianza della lotta partigiana, degli ideali che l’avevano ispirata, della generosità e dell’abnegazione al bene comune delle donne e degli uomini che insieme l’avevano sostenuta, spesso fino a sacrificare la vita stessa per la libertà e la pace che avevano così donato agli altri senza poterne essi stessi godere. Nel 1976, Giuliano Montaldo dal romanzo trasse un film col titolo omonimo (foto di copertina).

Valli di Comacchio, dopo il 25 luglio del 1943. Agnese, donna in età più che matura, fa la lavandaia. È forte e lavora duramente per mantenere se stessa e il marito, Palita, di salute cagionevole, che sta a casa e intreccia vimini da cui ricava ceste. Sono insieme da tanto tempo e si vogliono un bene profondo e sereno, lui sembra più giovane di lei, che lo protegge con un affetto che è anche di madre. Non hanno figli e quando Palita attende Agnese gli fa compagnia una gatta nera, affettuosa e dolce, che fa le fusa tutto il giorno. Un giorno, un soldato italiano che cerca di tornare a casa, dopo la rotta dell’esercito, chiede loro aiuto. Agnese e Palita gli danno da sfamarsi e lo fanno dormire a casa loro per una notte. Ma i tedeschi sono sempre allerta e hanno informatori, fra i quali i vicini di casa di Agnese, marito, moglie e due ragazze che si accompagnano ai fascisti e ai soldati tedeschi in cambio di cibo e di denaro. Avvertita, Agnese riesce a far fuggire il soldato, ma Palita insieme a molti altri uomini viene portato via dai tedeschi. Da subito Agnese non vuole illudersi e si dice che il marito non tornerà. Quando poco dopo arrivano lettere dai rastrellati, Agnese non riceve nulla. Ha sempre disprezzato i fascisti e odia i tedeschi, ma la sua consapevolezza del male di cui essi sono portatori si fa sempre più lucida, più vigile. Appena andato via Palita, i partigiani compagni di Palita vanno a trovarla, le dicono quanto loro fosse prezioso per loro. Da quel momento Agnese entra a far parte del loro gruppo e viene impegnata dal Comandante in operazioni di staffetta. Col suo corpo grosso e pesante, ma forte e resistente, percorre decine e decine di chilometri al giorno in bicicletta, portando ordini, armi, materiali esplosivi per le azioni partigiane. Di giorno Agnese, umile, inconsapevole del proprio coraggio, che i partigiani apprezzano silenziosamente, compie azioni sempre più impegnative, con modestia, quasi timorosa, stupita e imbarazzata da se stessa, dà consigli e propone soluzioni, che vengono sempre accolte. Di notte sogna Palita, che la incoraggia, la rassicura. Palita sta bene, è contento di lei. Le si siede vicino e le parla. Agnese non crede ch’egli viva in una dimensione in cui potranno rivedersi, non pensa che mai si ricongiungeranno, ma trae conforto da quei sogni ed è felice solo quando il sonno giunge con la sua pace e coi sogni. Smette di fare la lavandaia, per se stessa ha a sufficienza da vivere e non vuole lavorare per i tedeschi, lavare i loro panni; quando dal comando la chiamano per offrirle lavoro, si dice ammalata. Dopo alcuni mesi, il giovane figlio di un compaesano, deportato con Palita, riuscito a fuggire, raggiunge la casa di Agnese, racconta il loro trasporto su un treno merci per la Germania insieme a prigionieri ebrei, durante il quale Palita, subito ammalatosi, è morto. La notizia sconvolge Agnese, che comprende di aver segretamente sperato che malgrado tutto il marito si sarebbe salvato. Quando un soldato tedesco uccide la sua gatta, che Palita le aveva affidato mentre lo portavano via, e poi ubriaco si addormenta nella cucina di Agnese, ella, col calcio del mitra di lui, gli fracassa la testa, poi abbandona la sua casa, che vede da lontano bruciare, sente le urla dei tedeschi, grida di donne (saprà poi che i tedeschi hanno ucciso i suoi vicini per ritorsione). Attraversa le paludi e raggiunge i partigiani, che l’accolgono come una madre e lei da madre comincia a prendersene cura, preparando cibo e dando loro come un’idea di famiglia recuperata con la sua presenza forte e silenziosa; prosegue tuttavia e anzi via via incrementa la sua lotta partigiana attiva. Tra sofferenze, pericoli, azioni in cui rischia continuamente la vita e in cui muoiono tanti che ormai le sono carissimi, Agnese continua in realtà un nuovo percorso di appropriazione del mondo iniziato dalla deportazione di Palita. Comprende nuove cose, i pensieri in lei si fanno più facili e fluidi, pensa al futuro che con i suoi compagni sta costruendo, un futuro che forse lei e altri non vedranno, ma che altri ancora resteranno a ricordare, quando la libertà sarà arrivata. E, mentre con la lana che ha filato prepara calze ai “ragazzi”, pensa, ricorda i pranzi domenicali sereni e silenziosi con Palita. Adesso avrebbe da dirgli tante cose, adesso potrebbero parlare di tutte le domande senza risposta che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi. Perché alcuni hanno le cose, la sicurezza della vita, la protezione e altri poco o nulla? Ora capisce. Capisce che i ricchi vogliono tutto e lo tolgono agli altri e capisce che i fascisti li sostengono nella loro prepotenza, Capisce che cosa intendevano tanti uomini e tante donne che non avevano paura e che dicevano che le cose andavano cambiate e che doveva esserci pane per tutti e non solo pane, ma anche il resto, poter divertirsi ed essere contenti. E Agnese lavora le calze e pensa ai ricchi per i quali lavava i panni che la tenevano sull’uscio della porta, al timore di sbagliare, di fare o dire qualcosa che li irritasse, che li spingesse a non darle il lavoro, a toglierle il pane. E pensa ai compagni “gente istruita, che capisce, e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: – Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa? E prima di andar via dice: – Buona notte e buon Natale, mamma Agnese. Questo era il partito e valeva la pena di farsi ammazzare”.

La lotta partigiana continua, mentre gli Alleati si muovono con troppa lentezza; più volte nel romanzo viene sottolineata anche l’irragionevolezza, l’inutilità di certe azioni. Agnese ha avuto una radio dai compagni e ascolta le notizie sui diversi fronti, il grande avanzamento a est del fronte, le incertezze a ovest. Ma poi arriva la svolta. Anche a ovest si procede più veloci, forse non ci sarà un altro inverno di guerra. E i tedeschi si fanno più feroci. La paura e la morte che li incalzano li rendono più violenti e spietati, un’azione terribile stermina quasi tutto il gruppo partigiano di Agnese. Lei e pochi altri sono rimasti, ma altri compagni arrivano, di partigiani più ne muoiono e più ne arrivano, dice Agnese. Le azioni dei tedeschi e dei fascisti si fanno più spietate e quando viene rubato un camion tedesco tutti quelli che si trovano sulla strada vicina al furto vengono sequestrati per alcune ore in un grande stanzone. Agnese è fra loro. C’è chi piange, una donna dice che la colpa è di chi provoca i tedeschi, che altrimenti non sarebbero cattivi. Agnese le ricorda aspramente i morti che hanno fatto in paese, le case distrutte, ma ancora la donna inveisce contro i “ribelli”, è a causa loro che i tedeschi reagiscono contro la popolazione. Agnese ripensa ai compagni perduti, li rivede, “compagni, partigiani, combattenti non ‘ribelli’” e interviene e grossa, alta, severa, incombe sulla donna. Un uomo le si avvicina, la riconosce, le fa un cenno d’intesa, le fa segno di lasciar stare la miserabile. Agnese si scosta, si allontana fra due file d’occhi che la guardano fisso. Poi si volta, dice che il momento della paga è vicino. Ai tedeschi non resta più nulla. Anzi, gli resta la paura. Passa ancora tempo. Poi la porta dello stanzone si spalanca, la gente viene fatta uscire, tutti corrono, si affollano, Agnese va verso l’uscita, pensa che anche stavolta non si muore, esce e un volto le si fa incontro, deformato da un urlo: è il soldato che credeva di aver ucciso in casa sua. Anche il maresciallo la riconosce, le dà due ceffoni furibondi. Poi le spara quattro colpi, negli occhi, sulla bocca, nella fronte. Tutti fuggono urlando. Il maresciallo sorride. “L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.” Quasi lo stesso Viganò scrive della gatta nera di Palita, quando il soldato tedesco l’ammazza col mitra: “Sembrò uno straccio nero buttato via”. Ma ci accompagna, dopo la lettura, il senso dell’umile grandezza di Agnese, la lavandaia che si fa partigiana, che non ha mai paura per sé, ma teme e lotta per quelli che ama e per quelli che difende, un intero popolo, che donne e uomini come lei, sconosciuti ai più, hanno liberato.

Foto. Ferrara, foto di Maria Pia Ercolini

È questo un romanzo importante, fra i primi a uscire sulla lotta resistenziale, tra i pochi a narrare la Resistenza dagli occhi di una donna.

Su questa linea Viganò, occorre ricordarlo, scrive anche Donne della Resistenza, che esce nel 1955, la storia di ventotto partigiane, cadute nella lotta antifascista.

 

 

 

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Alba Coppola è docente di materie letterarie negli Istituti di istruzione secondaria di II grado. Italianista, ha lavorato per sette anni presso l'Università di Salerno per le cattedre di Letteratura Italiana e di Storia della Grammatica e della Lingua. Ha pubblicato su riviste specializzate, atti di convegni, quotidiani e riviste generaliste. Si è accostata da alcuni anni agli studi di genere con particolare riguardo alla toponomastica.