Erica, di Elio Vittorini

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Erica e i suoi fratelli è un romanzo incompiuto che Elio Vittorini iniziò a scrivere nel 1936, ma che interruppe per lo scoppio della Guerra civile spagnola, alla quale lo scrittore progettò di partecipare tra le file repubblicane, facendo anche propaganda in questo senso, il che gli costò l’espulsione dal partito fascista. L’opera restò dimenticata a lungo e una volta ritrovata, fu pubblicata nel 1954 nella forma incompleta che conosciamo, sulla rivista «Nuovi Argomenti», quindi in volume da Bompiani nel 1956.

Il plot è essenziale e ciò che costituisce il romanzo sono i pensieri dei personaggi, innanzitutto quelli della protagonista, Erica, che ci rivelano la sua interiorità, il suo sentimento dell’esistenza, le sue paure, i suoi affetti, la sua invincibile innocenza, ma anche il sentire contraddittorio del mondo in cui vive, un sentire fatto di episodica capacità di provare una superficiale pietà e più profondi e costanti sentimenti di egoismo, invidia, rabbia, insieme ad avidità e avarizia. 

Erica, intorno ai cinque anni, si trasferisce con i genitori “nella grande città” che resta ignota, una città industriale sul mare, un mare che Erica non vede mai, ma il cui odore arriva forte in estate, come arrivano nelle strade i marinai delle navi da guerra. La famiglia è composta dal padre, operaio montatore in una grande fabbrica, dalla madre, e da due figlie, Erica e Lucrezia, che ha quattro anni meno di Erica. Quando arriverà un maschietto, Alfredo, sarà accolto con gioia dalla sorella maggiore, che sentirà aumentare nella sua vita la compagnia. Da subito sappiamo, infatti, come per Erica sia fondamentale la compagnia, e come tutto, dentro e fuori la casa e la famiglia, sia per lei compagnia. I suoi sogni infantili, pieni di alberi, uccelli che cantano e uva dorata, dentro i cui globi lei si sente entrare e vivere felice, sono compagnia. E compagnia, nella veglia, sono i colori, i gatti, la ferrovia, sì che le sue prime paure di bambina non sono gli orchi, ma che qualcosa possa sparire, che il mondo possa impoverirsi di presenze, fra le quali le cose, gli animali, non sono meno importanti delle persone. Sono per lei belli i primi anni nel nero pianterreno, che affaccia su un cortile di povere case, anni durante i quali la mamma lava i panni e li stende nella stanza dove stanno tutti insieme, mentre aspettano, davanti alla stufa col fuoco luminoso e caldo; si aspetta che il padre torni dal lavoro e la mamma le dice di chiamare altri bambini, perché lei possa raccontare a tutti loro le sue storie. Ma quando Erica ha nove anni, è presa da un terrore nuovo: comincia a temere che i genitori possano abbandonare loro bambini, come i genitori malvagi di Pollicino. Terrore e sfiducia sono suscitati da una serie di segnali, quando Erica comprende che sono poveri e insieme scopre una complicità segreta fra i genitori, che esclude loro piccoli. Quando il padre comincia a star male mentre il salario gli viene diminuito e nel freddo inverno non c’è di che scaldarsi, e infine anche il cibo manca del tutto, Erica fa provvista di sassolini, e continuamente si chiede come salvare se stessa e i fratelli. Un giorno il padre ha un’idea. Lasciare la casa d’affitto, per trasferirsi nottetempo in una casa diroccata e abbandonata a pochi metri, poco più che un rudere, composto da una stanza al pianterreno, con una stufa, e una stanza al piano superiore, non abitabile e raggiungibile attraverso una scala malmessa. Trasferitisi lì nottetempo, Erica, per quell’avventura comune, per quella prima complicità familiare, recupera fiducia e, prima il risparmio dell’affitto, poi la diminuzione della crisi, per tre anni fanno migliorare le cose. La paura dell’abbandono dentro Erica “si asciuga”, per riaccendersi, tuttavia, quando la crisi torna, finché il padre perde il lavoro e decide di partire, di fare una nuova vita, una vita da zingaro dietro il lavoro, una vita nella quale la moglie vuol seguirlo, ma loro sono famiglia, dice il padre, non possono partire. Egli va via e di giorno in giorno, fra le povere rimesse che invia e le lettere in cui spesso lamenta la sua solitudine, Erica sente crescere nella madre il rimpianto dell’uomo e l’odio per loro bambini, sente che la madre è ormai un pericolo, sente ch’ella li odia, che non sono altro per lei che un ostacolo fra lei e l’uomo, così quando decide di raggiungere il marito ammalato, Erica è felice, sollevata e a un tempo triste, più ancora, indispettita che la madre preferisca il marito a loro piccoli, ma poi si dice che finalmente il pericolo va via, che loro bambini restano nella casa, che non sono abbandonati, sono loro famiglia. La casa stessa, come i fratelli, diviene adesso una bambina di cui prendersi cura e famiglia sono pure le provviste di petrolio e carbone, di pasta, di polenta e dadi da brodo, perché sono calore e vita. 

Le vicine disapprovano la madre, e ammirano la piccola che cura i fratelli e la casa, pure, iniziano a guardarla con un astio, con una sorda rabbia, addirittura con invidia. Abbrutiti dalla miseria, in alcuni più morale che materiale, ben presto scoprono le provviste che Erica ha raccolto nella sua camera dei giochi di un tempo, la stanza non abitabile al piano superiore della casa, raggiungibile da una scala posteriore esterna diroccata, la stanza che Erica aveva eletto a suo rifugio dei giochi, con un piccolo giaciglio dal quale guardare il terreno in vendita su cui sporge e che mai nessuno verrà a comprare.  Poco a poco, le vicine la derubano. Erica si accorge della scomparsa del cibo quando è troppo tardi, neppure sospetta il furto, la sua innocenza è assoluta, ma le reazioni cattive, quando si fa sfuggire che non trova più nulla, le fanno comprendere che sì, sono state le vicine ad aver portato via ai fratelli e a lei la possibilità di sopravvivere. Respinge allora, calma e decisa, l’aiuto che le viene offerto, malgrado il senso di colpa, con malagrazia, con rabbia, con una pietà cattiva. Erica vuole sentire che le persone ci sono, che vivono intorno a lei, ma non vuole la loro attenzione, non vuole la loro pietà piena di rancore, come non aveva voluto le cure, piene di odio represso, della madre. Pensa però che è piccola, che per lei non può esserci il lavoro dei grandi, sente che ogni lavoro le sarebbe dato per una malvagia pietà. E allora pensa che deve trovare un lavoro nel quale non ci sia pietà, un lavoro cattivo, un lavoro che sia solo crudeltà, un lavoro che chi lo dà sappia di darlo senza poterle chiedere riconoscenza, un lavoro che, improvvisamente, lei innocente, comprende oscuramente cosa sia. E la parola che per il mondo è insulto, il lavoro cattivo, il lavoro di sfruttamento assoluto, dove la pietà è ignota, quello sarà il suo lavoro.

Erica mette un nastro rosso fra i capelli e si mette alla finestra ad attendere: subito i soldati che verso sera scendono lungo la strada notano la sua bellezza così acerba e il male si compie. Si compie nel suo giaciglio dei giochi perduti, non dentro il letto innocente in cui dorme coi fratelli, non in quello che è casa e calore della casa. Ella non si dice mai io sono…, ma io faccio… E “fa solo tre ore ogni giorno”, quando Lucrezia e Alfredo sono lontani, in strada a giocare. E la ferita che il primo soldato le aperto nel corpo, si riapre più dolorosamente, ogni volta, Erica piange, soffre e trema, e nella moneta liscia e lucente che gli uomini le dànno, sente di stringere tutte le sue lacrime coagulate. Le donne del cortile comprendono e accettano quella nuova sventura come una disgrazia che tocca a loro miseri, e insieme apprezzano che Erica sia tanto discreta, tanto silenziosa. Non sono curiose di quel male, non ne parlano, né fra loro, né coi loro uomini, mariti, figli, amanti. La solidarietà delle donne mostra come quello sfruttamento, altro non è che emblema dello sfruttamento di un’intera classe, la classe operaia, che, come Erica, è massacrata dal lavoro che fa e come Erica è ad esso estranea, alienata.

Ora Erica può comprare il cibo, che è vita per i suoi fratelli e per lei. La prima volta, va al negozio della Cooperativa, con la moneta stretta nel pugno, la getta sul banco e la moneta sembra gridare ”Viva!”, Erica ripete nel suo cuore: “Viva!” e si sente piena di pace. Esita sulla scelta, non sa decidere cosa chiedere, quasi le pare di non aver più fame. Il commesso le suggerisce di prendere una scatola di sardine, poi da sola Erica sceglie ancora qualcosa, caffè. 

“Una donna, della gente ch’era lì a comprare, le chiese:  – Hai ricevuto un vaglia dalla mamma Erica? – Ma no, – Erica rispose – è denaro che ho guadagnato.

Fu una risposta troppo veemente perché la donna potesse chiedere altro, e tutti guardarono Erica andar via, s’accorsero che camminava con le gambe larghe …”

 

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Alba Coppola è docente di materie letterarie negli Istituti di istruzione secondaria di II grado. Italianista, ha lavorato per sette anni presso l'Università di Salerno per le cattedre di Letteratura Italiana e di Storia della Grammatica e della Lingua. Ha pubblicato su riviste specializzate, atti di convegni, quotidiani e riviste generaliste. Si è accostata da alcuni anni agli studi di genere con particolare riguardo alla toponomastica.