L’Estate Romana e il Cinema

Fu Renato Nicolini, geniale assessore alla cultura nella giunta Argan, a voler aprire il centro storico della capitale al bisogno di convivialità e di spettacolo delle masse. Era il 1977, un anno duro per il Paese, soggetto a frequenti attentati terroristici e a violenti scontri di piazza: diffidenza e paura avevano svuotato le piazze. L’Estate Romana fu una risposta coraggiosa e dirompente che propose una tregua e lanciò un segnale di cambiamento. 

E farà scuola in tutta Europa.

La Basilica di Massenzio, luogo deputato a fare del cinema un esperimento di libera condivisione pubblica, svestì il sacro rigore archeologico per assumere abiti informali, capaci di raccogliere attorno a sé classi sociali e generazioni diverse. 

Con la prima Estate Romana, furono rotti gli schemi tra cultura alta e cultura popolare, mescolati i diversi pubblici, portato al centro le periferie.

Il dibattito tra effimero e meraviglioso urbano divise per anni la cittadinanza, ma non frenò la propagazione dell’idea rivoluzionaria. Per molti anni a seguire la politica culturale capitolina continuò ad alimentare il concetto di architettura effimera come strumento di trasformazione urbana.

A partire da quell’esperienza, sperimentazione artistica e comunicazione di massa trovarono le loro strade, e proprio da lì avanzò l’ipotesi del decentramento delle iniziative di Arte pubblica oltre le mura Aureliane: la città del rock al Mattatoio, la televisione a Villa Torlonia, il teatro al quartiere Delle Vittorie, il ballo all’Appia Antica…

Dopo aver portato le periferie a respirare l’aura culturale del centro, ora s’invertono e s’incrociano i flussi.

Negli anni “Massenzio” conserva il suo nome originario e la sua matrice da cineclub, ma si fa itinerante: raggiunge il Circo Massimo, Testaccio, l’EUR, Cinecittà… 

La vitalità della rassegna cinematografica fa da contraltare al crescente malessere delle sale cinematografiche e la malinconia di un’arte agonizzante, a ben vedere, si percepisce in alcune scelte di programmazione (monografie retrospettive e maratone sui diversi generi del cinema italiano e hollywoodiano), ma il suo originale approccio alla divulgazione è vincente e la sua eco si fa ancora sentire.

A quarantuno anni dal primo Massenzio, la presenza del Cinema nelle programmazioni estive capitoline è ancora molto significativa. 

L’Estate Romana 2018, entrata nel vivo da un paio di settimane e destinata a durare fino al 30 settembre, con un susseguirsi di film, concerti e spettacoli, percorsi urbani, mostre e laboratori, dissemina le sue rassegne cinematografiche in diverse aree cittadine: spazi aperti e chiusi, alcuni dei quali gratuiti (www.estateromana.comune.roma.it): 

Notti di Cinema e… a piazza Vittorio, dal 28 giugno al 2 settembre: 2 maxischermi, 2 film a serata – I Municipio.

L’Isola del Cinema presenta l’isola di Roma: cinema, musica, teatro, mostre fotografiche all’Isola Tiberina fino al 2 settembre – I Municipio.

– Caleidoscopio, dal 26 giugno al 9 settembre, alla Casa del Cinema, in Largo Marcello Mastroianni: 6 rassegne, 4 festival e 3 eventi speciali (ingresso gratuito) – II Municipio.

– Parco del Cinema, a Villa Lazzaroni (via Tommaso Fortifiocca): proiezioni in arena alla presenza del cast. Alcuni titoli prossimi: Io c’è, La ragazza nella nebbia, Come un gatto in tangenziale, Manuel – VII Municipio.

– Molo Film Festival, banchina del Tevere in località Ponte Milvio (via Capoprati), arena cinematografica di 200 posti, dal 5 al 31 agosto (ingresso gratuito) – XV Municipio. 

– E infine, l’Ape rossa. Un cine-mobile su un’Ape a tre ruote, che propone sei eventi in un quartiere che ha vissuto una profonda trasformazione delle sue strutture di archeologia industriale: tra il complesso della ex Miralanza, la Centrale Montemartini e il Gasometro, fino ad includere gli Ex Mercati Generali e la Garbatella. 

Alle iniziative ufficiali del Comune se ne aggiungono altre, ideate e organizzate da associazioni diverse ma patrocinate e sostenute da singoli Municipi, dal Comune, dal MIBACT.

Si è appena chiusa la VII edizione del Karawan Fest: quattro serate di cinema itinerante nei cortili del V municipio, fra Tor Pignattara e il Pigneto.,

Il Piccolo Cinema America, dopo tre anni di proiezioni trasteverine, porta “Il Cinema in Piazza” anche nelle periferie e sceglie il Parco Casale della Cervelletta, a Tor Sapienza, e il Porto turistico di Roma, a Ostia (oltre al cortile del Liceo Kennedy, alle falde del Gianicolo), per le maratone notturne, i dibattiti con artiste e artisti, le retrospettive, i grandi classici e i film per l’infanzia. 

La descrizione del progetto, sul sito https://ilcinemainpiazza.it,  riassume in poche righe tutto il disagio del vivere nel vuoto delle periferie e l’ostinata volontà di migliorarle:

“Dalla periferia siamo partiti e in periferia torniamo. Chi ci è nato e cresciuto, come quasi tutti noi, lo sa. Sa cosa significa macinare chilometri sui mezzi pubblici per raggiungere una libreria, un cinema, un teatro, un museo, o, più banalmente, un posto dove incontrarsi la sera con gli amici. E sa cosa significa sentirsi stretti in un quartiere tanto grande e popolato, eppure così povero di socialità e di cultura. Così anche noi abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e sostituire al vuoto e al silenzio la partecipazione. L’esperienza degli scorsi anni ha dimostrato come l’attività culturale e sociale non si ferma alla sola programmazione cinematografica di un’arena, o di una sala, ma è in grado di rappresentare e promuovere una crescita, anche economica, di tutte le attività di un quartiere.

Vogliamo che questo progetto dia vita a luoghi in cui trovino cittadinanza diverse idee di città e nuove espressioni culturali, dove ci si possa porre delle domande attraverso le quali costruire nuove prospettive, dove si possa discutere e riflettere sul futuro delle città, del ruolo delle sale e dell’esercizio cinematografico, delle politiche sociali, culturali e giovanili, dell’integrazione e dell’inclusione, della lotta alla criminalità, delle periferie urbane dentro e ai margini delle città. Questa è la nostra idea di attività culturale e sociale, capace di stimolare la riflessione sul ruolo stesso della cultura nel processo di crescita educativa, formativa e lavorativa dei giovani, che venga fondata su una progettualità partecipata, attenta alle esigenze di tutti, su un “conoscere facendo” i cui frutti crescano nel tempo”.




Gli Oscar e i nostri tempi

È veramente sorprendente come le ultime rappresentazioni cinematografiche abbiano significativamente puntato l’attenzione sulla questione delle relazioni in ottica di genere, e in particolare sul tema della violenza contro le donne nelle varie espressioni.

Un numero significativo di film che proprio in questi giorni si contenderanno l’ Oscar può essere letto come una sorta di prontuario di peccati capitali contro le donne; il fenomeno ha particolare valore se si pensa che le pellicole sono state girate un momento prima dell’emersione dello scossone – massiccio e globale – del #MeToo. Sembra quasi che il cinema abbia avvertito un cambiamento di atmosfera con la lungimiranza e la sensibilità propria di un dispositivo culturale in ottima salute. Certamente la storia del cinema è costellata di esemplari dedicati alla denuncia o alla riflessione sul tema (per citare i più recenti: Suffragette, Il diritto di contare, La battaglia dei sessi e anche il discusso e mediocre Madre!), ciò che sorprende è la concentrazione proprio in questo momento storico.

La peculiarità, inoltre, risiede nella particolare configurazione della messa in scena: la vicinanza all(a) questione(i) da un punto di vista specifico nel genere si specifica ulteriormente attraverso un approccio intersezionale. Il respiro che domina è quello sì  passibile di letture femministe, ma ampliato da una caleidoscopica visione sulla diversità: nella carrellata che segue, emerge ciò che si pone dall’altra parte rispetto al modello (finora) dominante del bianco, maschio, ricco. E per rendere questa rottura si sceglie soprattutto di guardare indietro, verso un passato neanche troppo lontano ma che si riconosce come distante dall’assenza, per esempio, non della tecnologia ma del suo abuso, mentre si veicola una nostalgia verso le radici autentiche di ciò che ha fatto nascere la stampa, o il cinema stesso.

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The post (Spielberg) è in sé anche un elogio alla stampa ai tempi della macchina da scrivere, della modalità e dei ritmi diversi della ricezione e trasmissione delle notizie. Emerge, anche, un’accuratezza e un’attenzione circa le fonti sulla cui importanza, in piena post verità, è necessario riflettere in merito alle questioni di potere e della costruzione del senso civico (‘la stampa serve chi è governato, non chi governa’). E, in questo senso, appare più ardua la lotta condotta dalla direttrice dello storico giornale di Washington contro la cessione di poltrone, di potere o orientamento, in seno alla gestione del giornale, per la sua sopravvivenza. È una storia vera: Katharine Graham (Maryl Streep) viene colta nel 1971 nei suoi sforzi di mandare avanti The Post mentre esplode il caso dei Pentagon Papers, una mole di documenti governativi che attestano la precoce consapevolezza, quasi scientifica ma comunque sempre dissimulata alla cittadinanza, del fallimento dell’intervento degli Stati Uniti in Vietnam. Il racconto si concentra quindi sulla figura di una donna che, posta a capo del giornale quasi per caso, deve difendere la sua credibilità contro la sfiducia di un entourage – tutto maschile, l’enorme macchia nera degli eleganti abiti degli uomini tra cui svetta sempre l’attrice vestita di colori chiari – che sta sempre a ricordarle, più o meno tra le righe, quanto non sia all’altezza, facendo anche mansplaining. La rappresentazione della sfiducia passa per la bravura di Streep che rende in suo personaggio spesso incapace di parlare, ma che poi – supportata da altre donne, personaggi minori, adeguata rappresentazione della forza spesso sotterranea di chi storicamente è rigettata nelle retrovie – trova in sé la forza della rivoluzione, che non bisogna temere e nel cui effetto domino bisogna sperare.

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‘Se non facciamo niente, neanche noi siamo umani’, dice Elisa Esposito (S. Hawkins), protagonista della Forma dell’acqua (Del Toro), una favola moderna ambientata nel 1962, che pecca qua e là in semplificazioni ma che recupera il senso dell’amore, capace di assumere la forma di chi lo dà o lo riceve, come recita la poesia che chiude il film spiegando il senso del titolo. Elisa è muta (ritorna anche qui il tema della non dicibilità), è caratterizzata da una straordinaria capacità creativa (vive in una casa iperpersonalizzata proprio sopra un cinema, elemento che ne traduce l’omaggio) e ha una bella rete di amicizie, con ‘diversi’ come lei: una donna di colore (O. Spencer) e un artista omosessuale, con cui condivide l’ostracismo sociale. Lavora in un laboratorio governativo come addetta alle pulizie, dove un giorno arriva una strana creatura dai poteri straordinari – il ‘monstrum’ – che, come Frankestein (riferimenti letterari, cinematografici e biblici ricorrono numerosi nel film), si rivelerà capace di apprendimento intellettivo e sentimentale-relazionale e di cui Elisa si innamorerà, ricambiata. Segue il caso della strana creatura un colonnello violento (M. Shannon), il suprematista che fonda la sua formazione sul pensiero positivo, legittimando il suo potere in quanto ‘immagine e somiglianza di Dio, io più di voi’, e che molesterà Elisa sul posto di lavoro. Il film si apre con una scena di autoerotismo della protagonista (come in American Beauty…) che coglie il cuore del film: il desiderio (forse l’assunto che anche  i/le ‘divers*’ concepiscono il desiderio andrebbe cambiato in: tutt* concepiamo il desiderio).

 Tre manifesti a Ebbing, Missouri (M. McDonagh) è un film fuori dall’ordinario. L’azione si svolge interamente in un piccolo paesino dove tutti si conoscono, un’ambientazione e un’atmosfera alla Twin Peaks, per capirci. Nulla è spettacolare, e anche lo scabroso omicidio da cui la storia prende le mosse (il caso Angela Hayes, la figlia della protagonista – F. McDomarnd – ‘raped while dying’) è ridotto al minimo nella sua rappresentazione. Tutto è molto sintetico ed essenziale. Il punto è che rispetto a Twin Peaks, il pubblico non deve arrivare alla conclusione sconcertante che il male è tra noi, in noi, nei nostr* immediat* prossim*: siamo ormai tutt* smaliziat*, lo sappiamo, nessuna cittadina da scandalizzare, e con essa il mondo intero. Allora cosa resta? Il film parla della violenza nelle sue declinazioni razziste, sessiste, omofobe, classiste e riguardo le disabilità. Con pennellate veloci, con durezza e grazia allo stesso tempo. Quello che resta è che la massima ‘la violenza porta altra violenza’, verificata negli eventi della prima parte del film, si stempera nel suo contrario: ‘l’amore porta amore’. E questo lo rende un film quasi rivoluzionario. I personaggi sono l’anima di questo lavoro, caratterizzati straordinariamente anche quando solo abbozzati. È attraverso di loro che si intravede questo miracolo, nel cambio delle relazioni umane che da essere terribilmente compromesse riscoprono la speranza di un’alternativa possibile di relazionarsi attraverso il dialogo (e molto spesso attraverso un dialogo comico). La fine è sorprendente, lascia di stucco, e qualsiasi altro finale sarebbe stato inopportuno.

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Io, Tonya (C. Gillespie), è un film sulla(e) verità, sull’ambiguità tra odio e amore, sulle condizioni materiali (povertà, status) attraverso la vita della pattinatrice Harding (interpretata da M. Robbie), dello scotto da lei pagato per essere stata un’atleta non conforme nel suo essere e per non aver mai corrisposto all’immagine di figlia (e poi di moglie) di famiglia felice. Le relazioni sono al centro: il rapporto violentissimo col marito viene visto attraverso gli occhi di lei, della sua fame di amore e accettazione e della continua ricerca di questo nutrimento nel seme della violenza, precedentemente conosciuta nella famiglia d’origine funestata da una figura materna rigida, anaffettiva e a sua volta violenta. La rabbia è fulcro delle relazioni personali ma anche della sua motivazione sportiva; tuttavia, l’incredibile potenza atletica non viene spiegata con la rabbia, ma al contrario, il film sembra suggerire che il destino mutilato di Harding, come donna e come atleta (l’ombra della brutale aggressione a Kerrigan la condannò definitivamente), avrebbe potuto essere diverso se la sua vita fosse stata più libera da questa emozione.

E se neanche vale la pena di soffermarsi sulla bravura di protagoniste e protagonisti degli altri film (a parte sottolineare come Maryl Streep abbia costruito uno stile recitativo tutto suo che la differenzia da qualsiasi altra perfomance sul grande schermo), bisogna riconoscere la grande maestrìa espressiva di Margot Robbie, che riesce a modulare straordinariamente tutte le emozioni sul suo volto, e in particolare rabbia, costernazione, disperazione: la scena in cui si costringe in un sorriso prima di una gara, le vale un Oscar per riuscire a scatenare nel pubblico,  con quel sorriso stentato, un picco di empatia di incomparabile altezza.

In sala, nessuna delle persone presenti ha abbandonato la poltrona prima della fine dei titoli di coda in cui si proiettano immagini di repertorio della pattinatrice, quasi ad avere conferma alle domande: ma davvero ha realizzato quel triplo axel? Ma davvero ha avuto una vita così terribile?




ITALIA – “Beacon waves”: la radio si fa a scuola, tra lavoro e passione. Gli studenti intervistano la giornalista-docente Angela Milella

MODENA – “La radio e la musica fanno parte della mia storia sin dalla nascita”, così la giornalista-docente dell’Ites Jacopo Barozzi, Angela Alessandra Milella,  racconta di “Beacon waves”, nuovo progetto radiofonico da lei ideato, che servirà a potenziare le competenze degli studenti nella cultura musicale, nel cinema e nei media. Questa è l’intervista rilasciata agli studenti della 3AAFM.

D – Il progetto approvato che finalità ha? Ha mai fatto una radio sul web?

R – Il progetto serve a potenziare le competenze degli studenti nella pratica e nella cultura musicale, nel cinema, nelle tecniche e nei media di produzione e diffusione delle immagini e dei suoni anche mediante il coinvolgimento degli altri istituti pubblici e privati operanti in tali settori. Ho collaborato con alcune radio in passato, web e non.

D – Come è nata questa idea? In cosa consiste e qual è l’obiettivo? E’ stata aiutata da qualcuno in questo progetto? Durante la realizzazione si è avvalsa di qualche collaboratore? Da dove ha tratto ispirazione? Chi ha aderito e partecipato con lei a questo progetto?

R – E’ nata in Veneto nella primavera del 2016, quando, gironzolando tra Mestre, Padova, Venezia e Verona, sperimentavo la didattica dei media con un altro progetto e studiavo per mettere a punto altri strumenti. Nella ideazione, nella predisposizione dei metodi, delle strategie e degli obiettivi non mi ha aiutato nessuno. Per la realizzazione mi servirà l’aiuto di molte persone. Il titolo e il brand sono modenesi, per idearli mi sono ispirata alla città, alla Ghirlandina, ero in Piazza Grande quando ho sentito tornare nella mente la parola waves, radio waves, che ho voluto legare al termine beacon: “Onde dal radiofaro”. Amo molto la musica non solo il giornalismo e la letteratura. Ho subito lanciato l’idea. E’ piaciuta alla preside Roberta Pinelli del Liceo musicale Sigonio e alla professoressa Antonella Battilani del Liceo artistico Venturi. Il progetto si rivolgerà a tutte le scuole modenesi.

D – Cosa potrebbero imparare i ragazzi da questo progetto?

R – Sono previsti obiettivi specifici di apprendimento da raggiungere, ma impareranno anche a far parte di una redazione radiofonica, a utilizzare programmi e supporti informatici ed elettronici, a conoscere un’impresa radiofonica.

D – Oltre a essere un’ insegnante ha altre professioni?

R – Sono giornalista, scrittrice e regista.

D – Riesce sempre a gestire due lavori contemporaneamente?

R – Sì, anche più di due, sono sempre stata una donna molto impegnata.

D – Quando si è laureata e quando è iniziata la sua passione per la letteratura? Quale argomento della letteratura le piace di più?

R – Mi sono laureata con anticipo e brillantemente nel 2004. Ho sempre letto molto e scritto bene. Mio nonno mi ha trasmesso la passione per la lettura, per i libri, i giornali e il telegiornale. Le mie zie mi hanno insegnato a leggere e a scrivere, tra i tre e i quattro anni. Mi piace molto il Verismo.

D – Le piace di più la letteratura o la storia?

R – La storia.

D – Che scuola superiore ha frequentato?

R – Il liceo scientifico

D – Perché ha deciso di fare per professione la professoressa?

Lavoro solo per chi mi paga. Nonostante la crisi mi hanno dato da subito 1.200 euro netti.

D – A che età ha iniziato a lavorare? Dove ha lavorato? Ha mai viaggiato all’estero per lavoro?

R – Per me lo studio è stato un grande lavoro, non ho perso tempo e ho conseguito il massimo dei voti a ogni livello. Avevo 25 anni quando ho iniziato a insegnare e a scrivere per i giornali. Ho lavorato sempre nella scuola statale. Ho partecipato al progetto Erasmus in Belgio e sono stata in Grecia per uno stage in un’impresa turistica.

D – Perché si è appassionata al giornalismo? Ha mai scritto per giornali o magazine?

R – La mia maestra elementare è stata la moglie di un noto giornalista barese. A sette anni leggevo i quotidiani che mio nonno acquistava, seguivo il dibattito in Tv, fumavo e bevevo il caffè. Mi sono iscritta all’Ordine dei giornalisti, non ho più tempo per stare con i miei nonni, non fumo e raramente compro caffè.

D – Ha vinto premi per il suo lavoro?

R – Sì, qualche borsa di studio, una medaglia dal Presidente della Repubblica per l’organizzazione di un premio letterario, il premio internazionale “Tra le parole e l’infinito” per ”Precarious”, il primo premio nazionale in comunicazione per un progetto didattico finanziato da “Bando alle ciance” del Comune di Sommacampagna (Vr).

D – Quando era una studentessa ha mai pensato di fare la professoressa e anche la giornalista?

R – Sì, l’ho dichiarato alla Gazzetta del Mezzogiorno. La mia foto è al centro, in alto, nella pagina che riporta i volti dei diplomati con il massimo dei voti.

Quando lo dissi di fronte alla Commissione degli Esami di Stato, tutti mi risposero che sarebbe stato molto difficile. Oggi posso dire di aver vinto una battaglia.

D – Quanto ha studiato per diventare professoressa?

R – Una vita intera. Più intensamente all’Università e per prepararmi al concorso dato che non avevo raccomandazioni.

D – Dopo la laurea, quanto è stato difficile entrare nel mondo del lavoro?

R – Tanto, non avrei scommesso. Otto anni di precariato con spese notevoli per la formazione continua.

D – Ha dovuto spostarsi dal suo paese di nascita per inseguire i suoi sogni da giornalista e da professoressa?

R – Sì, nella mia città ho lavorato solo per un anno scolastico. Ho lavorato 5 anni in provincia di Foggia, 2 in quella di Bari, 2 in quella di Verona e adesso a Modena, come racconto in “Precarious: quello che della scuola non si dice”.

D – Qual è stato il suo primo articolo di giornale? Su che giornale è stato pubblicato?

R – Ho iniziato stando in redazione, dai taccuini di cultura e spettacolo, e dalla cronaca amministrativa. Dopo ho iniziato a seguire eventi e personaggi da inviata e da corrispondente. Il primo articolo l’ho scritto su “Calici di stelle” un evento enogastronomico pugliese. Sono tornata in redazione con una bottiglia di buon vino! Ho iniziato a scrivere per il Quotidiano Puglia di Mario e Rossana Gismondi.

D – Sappiamo che ha scritto un libro, ce ne può parlare? Perché l’ha voluto scrivere? Che messaggio voleva trasmettere ai lettori? Da cosa ha preso spunto? Avremo occasione di leggere un altro suo libro?

R – Ho descritto la scuola e i docenti italiani. E’ un libro di denuncia. Volevo e tuttora desidero migliorarla. Ho raccontato la mia esperienza. Nella penna ho una nuova storia da raccontare. Spero di farlo al più presto.

D – Qual è la cosa più affascinante nel giornalismo?

R – La ricerca della notizia, l’indagine, l’inchiesta. Il giornalismo ti permette di cercare e ascoltare gli altri, di osservare e descrivere la realtà, di raccontarla, di orientare l’opinione degli altri e suscitare reazioni, di far conoscere i fatti che vorrebbero tenere nascosti. I giornalisti consegnano il presente alla storia.

D – Le piace insegnare ai ragazzi?

R – Soprattutto a quelli educati, sensibili e intelligenti, che hanno voglia di imparare, di ascoltare, di studiare con e per gli altri, che sono curiosi. Ho scelto di insegnare nella scuola secondaria di secondo grado perché la scelta dell’indirizzo di studi non è obbligatoria e per questo motivo c’è o meglio ci dovrebbe essere, se le attività di orientamento funzionassero, più consapevolezza e motivazione.

D – Cosa La motiva a introdurre i giovani nel mondo giornalistico? Cosa L’ha motivata nella realizzazione del progetto “Beacon waves”? Che soddisfazione Le dà?

R – Il desiderio di un mondo più vero e migliore. La radio e la musica fanno parte della mia storia sin dalla nascita, come la scuola. Il testimone di nozze dei miei genitori era un dirigente scolastico. Pertanto questo progetto mi dà una grande soddisfazione.

D – Da quanti anni insegna?

R – Insegno da 11 anni.

D – In quali scuole ha insegnato?

R – In scuole di frontiera, Istituti di istruzione superiore ai margini della provincia.

D – Se avesse scelto un’altra strada quale sarebbe stata?

R – La ricerca scientifica.

D – In futuro Le piacerebbe continuare a fare questo lavoro o le piacerebbe fare altro? Ha altri progetti?

R – Ho dei conti in sospeso…