Intrighi internazionali: cosa nostra e loro

Una inchie­sta del New York Times (24 marzo 2013) ha con­fer­mato l’esistenza di una rete inter­na­zio­nale della Cia, che con aerei qata­riani, gior­dani e sau­diti for­ni­sce ai «ribelli» in Siria, attra­verso la Tur­chia, armi pro­ve­nienti anche dalla Croa­zia, che resti­tui­sce così alla Cia il «favore» rice­vuto negli anni Novanta.

Quando il 29 mag­gio scorso il quo­ti­diano turco Cum­hu­riyet ha pub­bli­cato un video che mostra il tran­sito di  armi attra­verso la Tur­chia, il pre­si­dente Erdo­gan ha dichia­rato che il diret­tore del gior­nale pagherà «un prezzo pesante».

Ven­tun anni fa Ila­ria Alpi pagò con la vita il ten­ta­tivo di dimo­strare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta appa­rire ai nostri occhi.

Da allora la guerra è dive­nuta sem­pre più «coperta». Lo con­ferma un ser­vi­zio del New York Times (7 giu­gno) sulla «Team 6», unità super­se­greta del Comando Usa per le ope­ra­zioni spe­ciali, inca­ri­cata delle «ucci­sioni silen­ziose». I suoi spe­cia­li­sti «hanno tra­mato azioni mor­tali da basi segrete sui calan­chi della Soma­lia, in Afgha­ni­stan si sono impe­gnati in com­bat­ti­menti così rav­vi­ci­nati da ritor­nare imbe­vuti di san­gue non loro», ucci­dendo anche con «pri­mi­tivi tomahawk».

Usando «sta­zioni di spio­nag­gio in tutto il mondo», camuf­fan­dosi da «impie­gati civili di com­pa­gnie o fun­zio­nari di amba­sciate», seguono coloro che «gli Stati Uniti vogliono ucci­dere o catturare».

Il «Team 6» è dive­nuta «una mac­china glo­bale di cac­cia all’uomo». I kil­ler di Ila­ria Alpi sono oggi ancora più potenti.

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Il 21 dicembre  –  racconta Panorama –  l’organizzazione WikiLeaks ha diffuso due documenti della CIA, l’intelligence del governo degli Stati Uniti, che forniscono una serie di consigli per aggirare i sistemi di controllo negli aeroporti e alle frontiere. I documenti sono classificati come segreti – “NOFORN”, non possono cioè essere condivisi con i servizi di intelligence dei paesi alleati – e sono rivolti agli agenti che lavorano sotto copertura. Le guide si intitolano «Surviving Secondary» e «Schengen Overview», risalgono al 2011 e al 2012 e sono stati creati da un ufficio della CIA chiamato “CHECKPOINT” che si occupa della protezione dell’identità e dei documenti degli agenti sotto copertura.
In generale questi documenti mostrano le crescenti preoccupazioni della CIA riguardo l’esistenza di banche dati biometriche (per il riconoscimento attraverso le impronte digitali o l’iride, per esempio) che possono mettere a repentaglio le loro operazioni segrete. Affermano che il mandato generale per gli agenti è mantenere la copertura ad ogni costo e consigliano di aver preparato in anticipo dei profili Linkedin o Twitter con la falsa identità, di non avere un computer con dati che non corrispondano alla storia che devono raccontare e di prepararsi psicologicamente al controllo. Alcune indicazioni sono ovvie, altre di buon senso. Nel complesso, se uno non si è mai posto il problema, lette una dopo l’altra sono anche piuttosto interessanti.
1. Non acquistare il biglietto in contanti e imbarcare i bagagli
I principali problemi agli aeroporti, cioè i controlli maggiori e più approfonditi, vengono fatti quando il biglietto viene acquistato in contanti; quando viene acquistato direttamente all’aeroporto o il giorno prima della partenza; quando è di sola andata; quando il bagaglio non viene imbarcato.
2. Coerenza
Evitare di essere bloccati per controlli più approfonditi dimostrandosi impreparati e mostrando contraddizioni tra quello che si dice di voler fare o tra chi si dice di essere e i dati sui propri documenti. Il contenuto dei propri bagagli deve essere coerente anche con il paese in cui si va. Bisogna sapere la lingua del paese che ha emesso il passaporto.
3.- Essere informati
Una parte dei documenti è riservata alle informazioni sui paesi in cui si intende entrare per essere preparati alle varie procedure ed evenienze. Per esempio è importante sapere quali paesi effettuano controlli biometrici o quali sono in grado di farli. Secondo gli ultimi dati, che risalgono al maggio del 2014, una trentina di paesi – tra cui l’Italia, la Polonia, la Finlandia, l’Estonia, l’Algeria, il Senegal, il Ghana, la Cambogia, Singapore, l’Indonesia e il Cile – non partecipano al programma di autenticazione del passaporto biometrico.
Va anche tenuto conto che i controlli possono essere effettuati su chiunque e che in alcuni paesi ci sono abitudini e pratiche che è bene conoscere: è stato calcolato per esempio, che un viaggiatore statunitense su dodici sarebbe soggetto a tali controlli in modo casuale. A Chittagong, in Bangladesh, i turisti vengono regolarmente sottoposti a una specie di interrogatorio di un’ora prima di essere “rilasciati” e dopo aver pagato 50 dollari. A Mogadiscio, in Somalia, c’è l’abitudine di selezionare almeno un passeggero per volo e accusarlo di attività illegali, per costringerlo a pagare una tangente. In alcuni paesi i controlli degli aeroporti hanno il diritto di trattenere il viaggiatore per ore e questo può essere fonte di stress (in Turchia i passeggeri possono essere fermati anche per 24 ore).
4. Non avere uno sguardo sfuggente
I controlli più approfonditi possono essere decisi in base a criteri soggettivi. Molti aeroporti utilizzano anche tecniche basate sul comportamento per individuare le persone sospette. Bisogna evitare dunque di avere le mani che tremano, di sudare, di avere un battito cardiaco troppo alto, di arrossire, di evitare il contatto con gli occhi (o, al contrario, di cercare il contatto con altri passeggeri a distanza). Di avere, in generale, un atteggiamento reticente e poco disponibile a fornire informazioni.
5. Non andare più di cinque volte in un mese in Venezuela
Ci sono una serie di tragitti o transiti considerati con maggior sospetto rispetto ad altri. Se andate in Cile passando da diversi paesi del sud-est asiatico, potreste attirare l’attenzione della polizia; se andate in Gambia potrebbe essere considerato degno di approfondimento il fatto che vi siate regolarmente recati in Nigeria e in Guinea-Bissau; se andate più di cinque volte al mese in Venezuela potreste essere sottoposti ad un colloquio più approfondito; se avete soggiornato per breve tempo tra Zambia, Pakistan e Sud Africa potreste essere sospettati di essere dei trafficanti droga, per i servizi di sicurezza dello Zambia. Infine evitate di andare in Israele con un passaporto pieno di timbri che mostrano che avete viaggiato in molti paesi musulmani (e viceversa).
6. Meglio viaggiare accompagnati
E preferibilmente con una valigia, e non una borsa o uno zaino. Gli uomini di etnia cinese tra i 16 e i 28 anni potrebbero essere sospettati di essere migranti illegali da parte dei servizi di sicurezza cileni, per esempio: il sospetto diminuisce se con voi c’è qualcuno.
7. Evitare dispositivi elettronici e, comunque, controllare i social network
I controlli possono anche passare attraverso una verifica delle cose scritte su Facebook o su qualunque altro profilo online. Il fatto di non avere un profilo Facebook o Linkedin (nel caso di uomini e donne d’affari) potrebbe essere considerato sospetto. Un altro rischio per chi viaggia sotto copertura è rimanere collegato con il proprio vero account ai vari social network. In ogni caso meglio evitare di portare con sé dispositivi elettronici.
8. Non avere troppa paura dei file e delle banche dati
Ci sono una serie di sistemi di controllo nei paesi dell’area Schengen per evitare soprattutto l’immigrazione clandestina (il sistema d’informazione Schengen, SIS, la banca dati europea delle impronte digitali, EURODAC). Questi sistemi rappresentano un rischio piuttosto basso per la scoperta della vera identità di un cittadino americano sotto copertura, c’è scritto nei documenti della CIA diffusi da WikiLeaks.
9. Dare risposte semplici e immediate
«Perché sei qui?», «Dove vivi?». La CIA ricorda di rispondere in modo pacato, veloce e semplice, senza però fornire troppi dettagli. Vanno evitate le pause troppo lunghe tra la domanda e la risposta, gli intercalari che trasmettano incertezza (non dire «Mmh…», «Ehm…»), vanno evitati i tipici “segni psicosomatici” da stress (mordersi le labbra, ingoiare la saliva, sudare, aggiustarsi i vestiti) e non bisogna cercare di dare credibilità a tutti i costi a quello che si sta dicendo pronunciando parole o espressioni come “normalmente”, “spesso”, “forse”, “ad essere onesti”.
10. Ricordatevi la cravatta
La CIA conclude la sua guida spiegando come un agente in un aeroporto europeo sia stato selezionato dai servizi di sicurezza per un controllo più approfondito solo perché era vestito in modo troppo casual per essere il titolare di un passaporto diplomatico. Nel bagaglio dell’uomo sono state trovate tracce di materiale esplosivo, ma l’agente è riuscito comunque a evitare di essere fermato raccontando di aver partecipato a un corso di formazione anti-terrorismo a Washington. WikiLeaks si chiede come sia stato possibile per le autorità del paese europeo coinvolto non fermare un uomo che abbia semplicemente fornito questa giustificazione.

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Era un programma segreto della Cia – scrive il Corriere della Sera –  usare una finta campagna di vaccinazione per spiare i terroristi in Pakistan. Un piano concepito per arrivare a Osama Bin Laden ma che poi è andato oltre. Con conseguenze drammatiche. Decine di persone innocenti sono state eliminate dai talebani perché sospettate di essere complici dell’operazione americana. Ora la Casa Bianca ha annunciato che questa tattica non sarà più usata e lo ha fatto con una lettera pubblica. Una mossa a lungo attesa dopo polemiche dure anche negli Stati Uniti, con l’agenzia accusata di aver messo in pericolo le vite di molti, la cui colpa era quella di portare un camice.

Torniamo indietro nel tempo. Di almeno tre anni. Soffiate, dati satellitari, indagini e ricognizioni concentrano l’attenzione dell’intelligence americana su una palazzina di Abbottabad, in Pakistan. C’è il sospetto che all’interno del complesso recintato si nasconda un capo di al Qaeda, probabilmente lo stesso Bin Laden. Non c’è la conferma, però, e prima di lanciare un eventuale blitz servono delle verifiche. Ma certo non si può andare a bussare al pesante portone verde. Ed ecco che la Cia, mentre un team sorveglia l’edificio del target da distante, si inventa un trucco.
Gli agenti ingaggiano il medico pachistano Shakil Afridi che dovrà fingere di condurre un programma di vaccinazione contro l’epatite ad Abbottabad. In questo modo potrà mandare delle infermiere nella palazzina per prelevare campioni di Dna dagli ospiti, in particolare i molti bambini presenti, e quindi stabilire se combaciano con quelli del leader qaedista. Afridi porta avanti il progetto, anche se non è mai stato chiarito se la sua missione sia stata decisiva nell’identificare Bin Laden. Secondo molte versioni avrebbe fallito. Di certo c’è che Osama è stato ucciso e che il medico è finito, in seguito, in una prigione pachistana. Ma, purtroppo, non sono mancati altri effetti. Tragici.

I talebani hanno scatenato una guerra contro le vaccinazioni considerate il paravento della Cia. In realtà i militanti le osteggiavano già da prima, sostenendo che si trattava di una manovra per sterilizzare i piccoli musulmani. Visioni da dementi che però si sono sommate ai sospetti dopo l’assalto di Abbottabad e al piano Usa. Così i terroristi si sono scatenati prendendo di mira vaccinatori, medici e uomini di scorta all’equipe di infermieri. I numeri dicono tutto: dal dicembre 2012 al maggio di quest’anno almeno 56 persone sono state trucidate. Tutte erano legate, in qualche modo, all’azione anti-polio. Un massacro. Che si è portato dietro un altro fenomeno. Molte famiglie pachistane si sono opposte alla vaccinazione. E su 77 casi di polio accertati nel 2014 ben 61 si sono verificati nell’area tribale pachistana, il tradizionale rifugio di esponenti talebani ed elementi di al Qaeda.

La storia ha avuto poi contraccolpi negli Usa, dove sedici rettori di scuole legate alla Sanità hanno protestato con la Casa Bianca chiedendo l’immediato stop di un modus operandi che trasformava il personale medico in un bersaglio. La risposta è arrivata con una lettera firmata dal consigliere antiterrorismo di Obama, Lisa Monaco, che ha precisato: 1) Il direttore della Cia, John Brennan, ha bloccato la tecnica nell’agosto 2013. 2) L’agenzia non cercherà di sfruttare o ottenere materiale genetico attraverso questo tipo di iniziative. L’ordine vale su scala globale.
L’intelligence dovrà inventarsi nuove tattiche per infiltrarsi in zone altrimenti precluse. Con il prossimo ritiro, gli Stati Uniti avranno la necessità di mantenere occhi e orecchie sul posto, ossia quegli uomini dietro le linee che non possono essere sostituiti dai droni.

Il teatro afghano-pachistano si è rivelato piuttosto complesso. Senza, però, dimenticare che la Cia non è stata la sola agenzia a ricorrere all’aiuto di qualche medico amico. In Afghanistan, in passato, ha operato un network di informatori che aveva i suoi punti di forza in alcuni ospedali. Si trattava di afghani che collaboravano nella raccolta di informazioni sui terroristi, dati che poi erano passati ai militari. Un apparato, però, che non aveva la «copertura» del Pentagono e neppure della Cia ma agiva in modo autonomo.

Quando si entra nel labirintico gioco di specchi della politica e dello spionaggio c’è il rischio di trovarsi di fronte a una porta che non si apre. La strada giusta era quella accanto, o quella alle spalle. Ma, le ombre e le luci, le immagini riflesse ci hanno depistato. Muovendoci, prima o poi la scopriremo. Comunque, usciremo. Magari dopo che ci avranno indicato un’altro cancello, non quello che stavamo cercando. Il Senato degli Stati Uniti, la Cia e la Casa Bianca sono alle prese con questo gioco. Tocca a noi capire dove stia portando.

Scontro tra il Senato e la Cia

Una grave crisi costituzionale s’avvicina a Washington. Dianne Feinstein, democratica, ha accusato la Cia di aver spiato i lavori della Commissione del Senato sull’Intelligence che presiede, di aver tentato di sottrarre documenti e di aver fatto indebite pressioni sul suo staff. Questo è il culmine di un lungo braccio di ferro, durato quasi un anno, tra Langley e l’organismo parlamentare che indaga sulle attività dell’agenzia dopo l’11 settembre. Ma è solo un altro episodio della partita. Non il finale.

L’oggetto del contendere è il rapporto di 6.300 pagine che la commissione ha stilato in tre anni di lavoro, dal 2009 al 2012. L’inchiesta venne completata nel dicembre del 2012 e approvata con un voto a maggioranza: 9 voti a favore, 6 i contrari. Dopo questa votazione, la Cia ha inviato un memorandum di 120 pagine per confutare la tesi pilastro del rapporto: anni di metodi coercitivi nella lotta al terrorismo non hanno prodotto una sola informazione utile per l’intelligence. Sequestri, torture, imprigionamenti: tutto inutile. Per sconfiggere il nemico c’è (stato) bisogno di altro.

Il rapporto sulle prigioni della Cia

La commissione si è sempre rifiutata di modificare questa impostazione. E lo ha fatto sulla base di migliaia di documenti della stessa Cia contenuti in un database riservatissimo. Nomi, date, circostanze, metodi usati per gli interrogatori. Tutte carte che avrebbero dovuto essere in mano solo i vertici della Central Intelligence Agency e che invece erano finiti nei pc dei senatori. Le pressioni sono iniziate allora. Langley ha cercato di avere indietro quei documenti, dicendo ai membri dello staff della commissione che avevano compiuto un reato nel momento in cui erano entrati in possesso di quelle carte. Lo scontro è andato avanti sotterraneo fino a quando Dianne Feinstein ha deciso di renderlo pubblico.

Questo è avvenuto perché siamo vicini alla diffusione del rapporto (finora) segreto della commissione del Senato sulla Cia. L’annuncio che sarebbe stato reso pubblico è di diversi mesi fa. Barack Obama si è detto d’accordo. Per Langley, un’altra complicazione. Se il Grande Capo ha dato il segnale verde, niente può più fermare la macchina che, alla fine, permetterà all’opinione pubblica americana di sapere cosa ha realmente fatto la Cia negli anni della War on Terror.

Nessuno ne conosce i dettagli – a parte la Cia e i redattori -, ma tutto fa pensare che il rapporto riveli fatti che l’agenzia avrebbe voluto volentieri tenere nascosti. I rapimenti di presunti terroristi, gli interrogatori e le torture, quello che avveniva nelle prigioni segrete della Cia. Da quello che si è compreso, quelle quasi 4.000 pagine, indicano responsabilità ben più gravi, atti ben più brutali rispetto a quello che si è sempre pensato (o si è saputo) finora.

E’vero che, appena insediato e dopo aver firmato l’ordine esecutivo che metteva fine alle torture negli interrogatori, Barack Obama aveva promesso che nessun funzionario dell’intelligence sarebbe stato mai perseguito per le operazioni compiute sotto le direttive della precedente amministrazione, quella di George W. Bush. Ma, è anche vero che la diffusione completa del rapporto e le sue conclusioni sarebbero dei duri colpi per Langley. Molto duri. Tali di minarne la credibilità.

La Casa Bianca e i segreti dell’attuale guerra al terrorismo

La Casa Bianca vuole rimanere a tutti i costi fuori dallo scontro tra il Senato e la Cia. Ma, in realtà, si trova proprio in mezzo. John Brennan, l’uomo che Obama ha voluto alla guida dell’agenzia, dopo la denuncia di Dianne Feinstein avrebbe detto: “Se ho fatto qualche cosa di sbagliato, vado dal presidente e gli spiego cosa ho fatto. Sarà lui a dirmi se devo restare o se devo andarmene”.

Le parole di Brennan, l’architetto della guerra con i droni, il detentore dei segreti delle cyberwars americane, non suonano rassicuranti per la Casa Bianca. E’un modo per chiedere a Obama di schierarsi nello scontro con il Senato. Contro o a favore della Cia.

In ogni caso, per lui sarebbe un problema. Se Obama appoggia l’Agenzia, rischia di essere accusato di voler legittimare i suoi metodi durante gli anni della Guerra al Terrore. Se, invece, toglie la sponda a Langley, sconfessa l’uomo che lui ha chiamato a guidare la Cia (e quindi sconfessa la sua stessa politica di sicurezza) e apre il fianco a qualche velenosa vendetta da parte di settori dell’intelligence.

Non sarebbe la prima volta. Non è un caso che molti analisti abbiano tirato fuori un’analogia storica: la fuga di notizie sull’Iraq del 2004 che tanto misero in imbarazzo George W. Bush. Erano opera della Cia, che voleva mettere in imbarazzo l’uomo che aveva riversato su Langley la responsabilità delle false informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

Perché, in realtà, la posta in gioco, l’oggetto dello scambio tra la Casa Bianca e la Cia, non sono le attività dell’Agenzia durante gli anni di Bush, ma quelle portate avanti sotto l’amministrazione Obama. Non ci sono presidenti esenti da ombre quando si parla di intelligence. Neppure nel caso dell’attuale.

Sono molti i segreti della guerra dei droni in possesso di Langley. Gli omicidi mirati, i civili colpiti, le operazioni lanciate per sbaglio, le decisioni del presidente. Se si devono rivelare le circostanze del passato , perché allora non farlo anche con quelle del presente? Il gioco di specchi ci spinge verso Capitol Hill, ma per risolvere il caso Senato-Brennan la via giusta da seguire sembra essere quella che conduce in Pennsylvania Avenue.

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E allora tutto si spiega, mi riferisco in particolare agli ostacoli giudiziari all’accertamento della verità, come il caso Gelle o i molti depistaggi a cui in questi anni abbiamo assistito e che hanno dimostrato una intensità, una continuità e un livello mai visti se non per casi come Ustica, la strage di Bologna, il Moby Prince. Sin dal primo giorno dopo il delitto (chi conosce “le carte” lo sa) si è depistato per accreditare la tesi della rapina e escludere il delitto su commissione, che invece prevede dei moventi: e chi compie questo gioco di prestigio? Unosom, la cellulla dei Servizi di informazione di Unosom. E chi è Unosom? Unosom è “cosa loro”, la finta uniforme degli USA per le cosiddette operazioni di ingerenza umanitaria a suon di carri armati e di missili. Un coinvolgimento mosso da “necessità nazionali” o maturate in ambito Nato?

Se la Somalia, nel 1983, era “Cosa Nostra”, nel senso dell’Italia, i nostri servizi (o una fazione all’interno di questi) sono da sempre “cosa loro”, nel senso dell’intelligence USA.

Alpi e Hrovatin furono assas­si­nati, in un agguato orga­niz­zato dalla Cia con l’aiuto di Gla­dio e ser­vizi segreti ita­liani, per­ché ave­vano sco­perto un traf­fico di armi gestito dalla Cia attra­verso la flotta della società Schi­fco, donata dalla Coo­pe­ra­zione ita­liana alla Soma­lia uffi­cial­mente per la pesca.

In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shi­fco erano usate, insieme a navi della Let­to­nia, per tra­spor­tare armi Usa e rifiuti tos­sici anche radioat­tivi in Soma­lia e per rifor­nire di armi la Croa­zia in guerra con­tro la Jugoslavia.

La 21 Oktoo­bar II (poi sotto ban­diera pana­mense col nome di Urgull), si tro­vava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una ope­ra­zione segreta di tra­sbordo di armi sta­tu­ni­tensi rien­trate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si con­sumò la tra­ge­dia della Moby Prince in cui mori­rono 140 persone.

Sul caso Alpi, dopo otto pro­cessi (con la con­danna di un somalo rite­nuto inno­cente dagli stessi geni­tori di Ila­ria) e quat­tro com­mis­sioni par­la­men­tari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ila­ria aveva sco­perto e appun­tato sui tac­cuini, fatti spa­rire dai ser­vizi segreti. Una verità di scot­tante, dram­ma­tica attualità.

La docu­fic­tion «Ila­ria Alpi – L’ultimo viag­gio» (visi­bile sul sito di Rai Tre) getta luce, soprat­tutto gra­zie a prove sco­perte dal gior­na­li­sta Luigi Gri­maldi, sull’omicidio della gior­na­li­sta e del suo ope­ra­tore Miran Hro­va­tin il 20 marzo 1994 a Moga­di­scio.

Ci sono indizi sufficienti e documentabili oltre ogni incertezza per affermare che il duplice delitto di Mogadiscio sia stato, per dirla con le parole di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, concordato. Concordato in più sedi e a più livelli, all’interno di uno scacchiere internazionale ben definito e circostanziato che appare abbastanza evidente analizzando il contesto storico in cui è maturato: la guerra nella ex Yugoslavia, il lavoro per  l’ingresso di paesi dell’ex blocco comunista nella Nato (come Polonia e Lettonia), i rapporti ambigui tra blocco occidentale e paesi musulmani (Afganistan e Yemen). La verità sul caso Alpi fa ancora paura dopo 21 anni e quanto si è messo in campo per impedire che venisse alla luce,  comprese le inutili conclusioni della commissione presieduta da Carlo Taormina, la dice lunga sul livello delle responsabilità che ancora devono essere scoperte.

Basterebbe che ognuno gettasse la maschera.




“Atom for peace”. Sarà vero?

«Meglio non avere un accordo che un cattivo accordo», ha proclamato  la Guida Suprema Ali Khamenei, riecheggiando le parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ostinato avversario dell’intesa di Losanna.

In sincronia con il presidente iraniano Hassan Rohani, Khamenei si è detto molto irritato perché l’Iran vorrebbe la revoca immediata delle sanzioni e non graduale, agganciata alle ispezioni dell’Aiea come nelle intenzioni dichiarate dal Cinque più Uno. Le sanzioni, secondo Teheran, devono essere cancellate il giorno stesso dell’accordo definitivo previsto entro il 30 giugno. La leadership iraniana sembra pretenziosa e intrattabile.

Il leader, in un intervento trasmesso dalla tv di Stato in occasione della Giornata nazionale della tecnologia nucleare, ha spiegato: “Vogliamo un accordo vantaggioso per tutte le parti coinvolte nei colloqui sul nucleare” e ha aggiunto: “Il presidente Usa, Barack Obama, ha riconosciuto che il popolo iraniano non si arrenderà a sopraffazioni, sanzioni e minacce, e questo fatto è una conquista” da parte della Repubblica islamica in sede di negoziati sul nucleare con le potenze mondiali.

Avere reattori civili in Iran non è come mettere il cartello “Zona denuclearizzata” all’ingresso delle nostre città di provincia, testimonianza di un grande impegno pacifista per un mondo libero da armi atomiche durato sino agli anni Ottanta.

Per Barack Obama la situazione si complica, il presidente degli USA dovrebbe pensare a un piano B, lo scenario è  mutato da  quando,  nel 1954,  Eisenhower approvò ufficialmente il progetto “Atom for Peace” al fine di agevolare l’introduzione dell’energia nucleare in applicazioni civili e per la produzione di energia elettrica, e trovare un punto di equilibrio diventa più difficile.

In Medio Oriente le trattative sono complesse e anche le parole hanno un significato diverso: l’Iran dei persiani è in guerra, le milizie sciite combattono in Iraq e in Siria contro il Califfato sunnita e i suoi alleati, da Al Qaeda alle monarchie arabe del Golfo, alla Turchia. Nello Yemen, Teheran è ai ferri corti con l’Arabia Saudita, in un conflitto dai connotati sempre più settari e inconciliabili, in cui si è arrivati a schierare navi da guerra nello Stretto di Bab el Mandeb, “la Porta delle lacrime”.

E la parola nucleare è legata più alla parola guerra che al termine energia, come vogliono invece  far credere.

Neanche la CIA sa esattamente quante testate nucleari abbia Israele (che si rifiuta categoricamente di dare spiegazioni in merito) ma la stima migliore ne accredita 80 a Tel Aviv, con plutonio sufficiente per arrivare fino a 200. Solo nel 1998 l’odierno presidente Shimon Peres rivelò che gli esperimenti israeliani sul nucleare erano cominciati già negli anni Cinquanta. Israele disporrebbe di unità terrestri, aeree e sottomarine, per il lancio dei missili.

Mentre l’Iran, per quanto accusato da Israele di essere a un passo dall’ottenere un ordigno nucleare, non ha ancora  un armamento.

L’Iran di oggi come quello dello Shah Mohammed Reza Palhevi, allora alleato di Washington, ambisce a essere una potenza nel Golfo. I suoi avversari arabi fanno di tutto per impedirlo e non esitano ad allearsi con Al Qaeda e il Califfato per raggiungere lo scopo. In questo conflitto, interno all’Islam, ma con implicazioni globali, gli Stati Uniti e l’Europa sono in posizione contraddittoria: combattono lo Stato Islamico, ormai penetrato a Damasco, e allo stesso tempo dichiarano di sostenere i sauditi nello Yemen e fanno affari con le petromonarchie che appoggiano i movimenti più radicali e terroristi.

In un colloquio a Teheran di qualche tempo fa, Shariatmadari, che perse un braccio nelle prigioni dello Shah e a sua volta torturava i prigionieri politici nel carcere di Evin, fu esplicito: «Sono gli americani che devono fare la pace con noi, non noi con loro».

Khamenei parla all’Iran  e alla comunità internazionale occidentale e araba. Deve accontentare l’ala estremista della rivoluzione islamica contraria all’accordo di Losanna.

In cima alla lista dei Paesi che possiedono armi nucleari ci sono gli Stati Uniti,che hanno condotto più test, dispongono di 7.650 testate, di cui 2.150 attive e così distribuite: 500 testate terrestri, 1.150 assegnate ai sottomarini nucleari e 300 pronte per essere montate sugli aerei. Inoltre, nell’alveo del programma di condivisione nucleare della NATO, la CIA riferisce di altre 200 bombe termonucleari (B61 a gravità) schierate in cinque Paesi NATO: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia.

La Russia dispone di 8.420 testate nucleari, di cui 1.720 attive. Gli effetti delle sperimentazioni atomiche sovietiche sono ancora oggi evidenti in molte aree dove furono condotti i test. Nell’odierno Kazakhstan, ad esempio, tra il 1949 e il 1989 il sito di Semipalatinsk fu teatro di ben 456 esplosioni termonucleari. Inutile dire che quell’area è estremamente radioattiva, per un raggio di almeno 80 km, tale che intere comunità e villaggi, ancorché distanti, portano addosso i segni indelebili di quegli esperimenti, che si sostanziano in deformazioni, leucemie e malattie ereditarie.

La Cina si ha iniziato a produrre  armi nucleari  dal 1950, dopo che gli Stati Uniti intrapresero esperimenti nucleari nel Pacifico (proprio durante la guerra tra le due Coree). Il primo test di successo con un ordigno nucleare è targato 1964, cui seguì la prima prova termonucleare due anni e mezzo più tardi (il più breve tempo tra fissione e fusione le prove di tutte le potenze nucleari). Oggi si suppone che la Cina abbia circa 140 testate terrestri e 40 assegnate per gli aerei. La CIA, che ne ha stimate 240 in totale, ritiene che le restanti testate siano conservate per un futuro impiego in un sottomarino nucleare, che oggi non possiede.

La Francia, dopo USA e Russia, è la terza potenza nucleare al mondo, anche se dispone di “sole” 300 testate, 250 delle quali assegnate a sottomarini nucleari e le restanti 50 pensate per attacchi aerei. Nel 1996, sotto la presidenza Chirac, ha smantellato tutte le testate terrestri.

Il Regno Unito ha condiviso con gli americani il “Progetto Manhattan”, padre di tutte le sperimentazioni nucleari, sviluppando poi un proprio personale programma (pur condividendo oltre la metà dei test con gli USA). Oggi dispone di 160 ordigni operativi, esclusivamente per uso sottomarino.

Pakistan e India dispongono entrambe di circa 100 testate (90/110). Islamabad decise di avviare un proprio programma nucleare nel 1972, in seguito alla guerra con l’India, sperimentando test sotterranei (nel distretto di Chagai, vicino al confine con l’Iran) e oggi dispone di missili nucleari terrestri e aerei. L’India, di converso, ha prodotto armi nucleari proprie dopo i test nucleari della Cina a metà degli anni Sessanta, testando i propri ordigni dal 1974 al 1998. Dispone di missili nucleari aerei e terrestri e da anni cerca di allargare il programma nucleare alle forze marine.

La Corea del Nord, secondo le stime della CIA, avrebbe meno di 10 testate nucleari che ha sperimentato in tre occasioni (2006, 2009 e 2013), fatto che ha comportato per Pyongyang dure reazioni della comunità internazionale e nuove sanzioni economiche. Tuttavia, la minaccia nucleare nordcoreana, particolarmente contro Corea del Sud e Stati Uniti, è poco più che un bluff. Infatti, anche se la Corea ha condotto tre test nucleari sotterranei ed effettuato test missilistici balistici, e nonostante la certezza che gli scienziati nordcoreani abbiano separato abbastanza plutonio per le 10 testate di cui sopra, non è confermato che Pyongyang sia davvero in grado di armare i missili e lanciarli, non disponendo né di sottomarini né di aerei in grado di condurre un efficace attacco dal cielo.

Mutatis mutandis, anche la politica energetica internazionale è stata modificata.

Nonostante i dati favorevoli al nucleare (soprattutto in Francia), secondo l’IAEA (International Atomic Energy Agency) il peso dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti di energia era destinato a ridursi entro il 2020. Questa previsione è datata 2004 ed è  stata smentita dagli ultimi eventi della politica energetica internazionale. L’affermazione e l’ascesa di nuovi paesi sullo scacchiere mondiale (es. Cina e India) e la conseguente crescita della domanda di energia mondiale ha spinto alla cantierizzazione di nuovi reattori nucleari. In Asia sono attualmente in cantiere almeno 15 nuove centrali nucleari (Cina, Corea del Sud, India e Taiwan). La situazione in Europa  merita invece un livello di approfondimento maggiore. L’assenza di investimenti nella costruzione di nuove centrali nucleari in Europa negli anni ’90 è un dato di fatto. La Finlandia è stato l’unico paese europeo ad avere messo in cantiere nell’ultimo decennio del ‘900 la costruzione di una nuova centrale nucleare (centrale di Olkiluoto, attiva entro il 2010).

L’approccio nei confronti del nucleare da parte dei paesi europei è radicalmente mutato nel corso del primo decennio degli anni duemila. L’effetto serra e il caro petrolio hanno fatto riavvicinare all’energia nucleare anche i paesi occidentali più scettici. Agli inizi degli anni duemila molti paesi europei nuclearizzati (Svezia, Germania, Olanda e Belgio) avevano deciso di non sostituire le attuali centrali nucleari al termine del loro ciclo produttivo.

L’acuirsi del problema ambientale e le cicliche crisi del petrolio e del gas hanno però rimesso in discussione il destino del nucleare in Europa. La politica prevalente in questi ultimi anni tende a prolungare la vita delle centrali nucleari europea, in attesa di una possibile risposta ai problemi del nucleare da parte della ricerca scientifica. Prevale pertanto una politica di attesa.

Sono circa 440 i reattori nucleari attivi nel mondo. I paesi con maggiore presenza di reattori nucleari sono i seguenti: USA (1049), Francia (59) e Giappone (53).