Guerre invisibili su corpi di donne che non aiutiamo né qui né a casa loro

Terre des hommes: 

Le bambine rapite da Boko Haram, quelle costrette a diventare le spose dei guerriglieri del Califfato per una notte e poi ripudiate, le spose bambine di tante altre parti del mondo, quelle coscritte alla leva obbligatoria a un’età ancora infantile, simboleggiano con le loro testimonianze e con i numeri drammatici che esprimono, tutta la barbarie di un sistema mondo ancora molto indietro rispetto alla difesa dei loro diritti fondamentali. 

Quando parliamo dei drammi delle migrazioni ci riferiamo quasi sempre alle morti in mare, o alle torture e agli stupri perpetrati quotidianamente nei campi di detenzione. Altre tragedie umane sono meno visibili ai nostri occhi indifferenti, sono meno raccontate dai media: questo non significa che non esistano.

La pratica dei matrimoni precoci è incentivata dai conflitti che insanguinano l’Africa e il Medio Oriente. Mentre in Europa continua a mancare la volontà di porre fine alle sofferenze dei rifugiati, allo scenario si aggiungono ogni giorno nuovi drammatici dettagli.

Nei campi profughi si può diventare mogli a undici anni. I dati relativi agli Stati dove sono stati allestiti questi lager mostrano che il numero di spose-bambine cresce di anno in anno. Sono una merce ricercata!

Dicono gli operatori delle Ong: Ho visto molti uomini anziani alla ricerca di giovani mogli, ho saputo di un libanese sposato con sette figli che voleva sposare una ragazza. Mi ha anche cercato una madre siriana che voleva maritare le sue due figlie adolescenti.

Giordania e Libano sono i Paesi più colpiti da queste pratiche. Il 75% dei rifugiati siriani sono donne. Gli uomini vanno in avanscoperta in Europa, per portare poi la famiglia, ma ciò significa che nei campi profughi restano i soggetti più vulnerabili, e per loro perfino i matrimoni forzati sembrano una soluzione (prima della guerra i matrimoni precoci erano relativamente pochi in Siria).

Save the Children sottolinea che per molte famiglie siriane dare in sposa una figlia piccola è l’unico modo per proteggerla dalle violenze e dagli abusi che rischia di subire nei campi profughi  e anche dall’insicurezza economica. Il matrimonio, per quanto con un uomo più anziano anche di trent’anni, è pur sempre un matrimonio. In qualche modo preserva l’onore. 

Fattore non trascurabile è il prezzo della sposa versato dai futuri mariti alle famiglie delle giovani, una piccola somma in denaro che può servire ad affrontare l’estrema povertà dei campi profughi. In questi matrimoni imposti, dove la minore non ha alcuna voce in capitolo, ella diviene merce di scambio per un possibile futuro all’estero. In Giordania, ad esempio, un matrimonio costa in media 21mila dollari alla famiglia dello sposo, ma le ragazze siriane “costano poco”, per loro la dote si aggira tra i 400 e i 700 dollari. 

Questa situazione – insieme alla pratica sempre più diffusa dei “matrimoni temporanei”, della durata di pochi mesi – alimenta lo sfruttamento sessuale e la tratta di giovani siriane. Dopo che sono state abbandonate dal marito “a tempo”, combinare un matrimonio “onorevole” è praticamente impossibile. Vengono così condannate a una vita di esclusione e marginalità sociale e possono aspirare solo ad altri matrimoni temporanei. Di fatto, una prostituzione camuffata.

Poi ci sono questioni che riguardano la salvezza dell’intero nucleo familiare. Il matrimonio con uomini giordani o libanesi conferisce a queste ragazze il diritto di rivendicare la cittadinanza, consentendo loro di fatto di lasciare gli insediamenti dei rifugiati. È ormai pratica comune utilizzare il matrimonio per ottenere visti d’ingresso per quasi tutti i Paesi del Medio Oriente.

Una bambina siriana può andare in sposa a un commerciante giordano che, in cambio, diventa lo sponsor che consente a tutti i parenti della moglie di uscire dal campo profughi e cominciare a condurre una vita normale. Normale per loro, non per lei.

Ho sposato Reem, quando aveva 15 anni, per proteggerla dagli altri uomini del campo. Sono felice del mio matrimonio, lei è una brava ragazza e fa ogni cosa che le chiedo.

Un altro esempio eclatante è quello della Somalia: da più di vent’anni il Paese è devastato da una cruenta guerra civile dove è emersa la presenza del gruppo terroristico al-Shabaab, legato ad al-Qaeda. Donne e bambini sono le principali vittime di questo conflitto. 

Una donna di Mogadiscio ha raccontato che un giorno quattro miliziani di al-Shabaab si sono avvicinati al chiosco che gestiva assieme alla figlia di 17 anni, e uno di loro ha chiesto di sposarla. Alla richiesta di matrimonio, la donna si oppone: Ho protestato, è troppo giovane. Ma loro mi hanno minacciato di tagliarmi la gola di fronte a lei.

La comunità internazionale si era impegnata a mettere fine alla pratica dei matrimoni precoci entro il 2030. Invece, scrive Save the Children, se il numero di spose bambine nel mondo crescerà ai ritmi attuali nel 2030 avremo 950 milioni di donne sposate giovanissime e 1,2 miliardi nel 2050. Sotto lo sguardo indifferente della società civile, troppo impegnata nell’opera di respingimento.




“Atom for peace”. Sarà vero?

«Meglio non avere un accordo che un cattivo accordo», ha proclamato  la Guida Suprema Ali Khamenei, riecheggiando le parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ostinato avversario dell’intesa di Losanna.

In sincronia con il presidente iraniano Hassan Rohani, Khamenei si è detto molto irritato perché l’Iran vorrebbe la revoca immediata delle sanzioni e non graduale, agganciata alle ispezioni dell’Aiea come nelle intenzioni dichiarate dal Cinque più Uno. Le sanzioni, secondo Teheran, devono essere cancellate il giorno stesso dell’accordo definitivo previsto entro il 30 giugno. La leadership iraniana sembra pretenziosa e intrattabile.

Il leader, in un intervento trasmesso dalla tv di Stato in occasione della Giornata nazionale della tecnologia nucleare, ha spiegato: “Vogliamo un accordo vantaggioso per tutte le parti coinvolte nei colloqui sul nucleare” e ha aggiunto: “Il presidente Usa, Barack Obama, ha riconosciuto che il popolo iraniano non si arrenderà a sopraffazioni, sanzioni e minacce, e questo fatto è una conquista” da parte della Repubblica islamica in sede di negoziati sul nucleare con le potenze mondiali.

Avere reattori civili in Iran non è come mettere il cartello “Zona denuclearizzata” all’ingresso delle nostre città di provincia, testimonianza di un grande impegno pacifista per un mondo libero da armi atomiche durato sino agli anni Ottanta.

Per Barack Obama la situazione si complica, il presidente degli USA dovrebbe pensare a un piano B, lo scenario è  mutato da  quando,  nel 1954,  Eisenhower approvò ufficialmente il progetto “Atom for Peace” al fine di agevolare l’introduzione dell’energia nucleare in applicazioni civili e per la produzione di energia elettrica, e trovare un punto di equilibrio diventa più difficile.

In Medio Oriente le trattative sono complesse e anche le parole hanno un significato diverso: l’Iran dei persiani è in guerra, le milizie sciite combattono in Iraq e in Siria contro il Califfato sunnita e i suoi alleati, da Al Qaeda alle monarchie arabe del Golfo, alla Turchia. Nello Yemen, Teheran è ai ferri corti con l’Arabia Saudita, in un conflitto dai connotati sempre più settari e inconciliabili, in cui si è arrivati a schierare navi da guerra nello Stretto di Bab el Mandeb, “la Porta delle lacrime”.

E la parola nucleare è legata più alla parola guerra che al termine energia, come vogliono invece  far credere.

Neanche la CIA sa esattamente quante testate nucleari abbia Israele (che si rifiuta categoricamente di dare spiegazioni in merito) ma la stima migliore ne accredita 80 a Tel Aviv, con plutonio sufficiente per arrivare fino a 200. Solo nel 1998 l’odierno presidente Shimon Peres rivelò che gli esperimenti israeliani sul nucleare erano cominciati già negli anni Cinquanta. Israele disporrebbe di unità terrestri, aeree e sottomarine, per il lancio dei missili.

Mentre l’Iran, per quanto accusato da Israele di essere a un passo dall’ottenere un ordigno nucleare, non ha ancora  un armamento.

L’Iran di oggi come quello dello Shah Mohammed Reza Palhevi, allora alleato di Washington, ambisce a essere una potenza nel Golfo. I suoi avversari arabi fanno di tutto per impedirlo e non esitano ad allearsi con Al Qaeda e il Califfato per raggiungere lo scopo. In questo conflitto, interno all’Islam, ma con implicazioni globali, gli Stati Uniti e l’Europa sono in posizione contraddittoria: combattono lo Stato Islamico, ormai penetrato a Damasco, e allo stesso tempo dichiarano di sostenere i sauditi nello Yemen e fanno affari con le petromonarchie che appoggiano i movimenti più radicali e terroristi.

In un colloquio a Teheran di qualche tempo fa, Shariatmadari, che perse un braccio nelle prigioni dello Shah e a sua volta torturava i prigionieri politici nel carcere di Evin, fu esplicito: «Sono gli americani che devono fare la pace con noi, non noi con loro».

Khamenei parla all’Iran  e alla comunità internazionale occidentale e araba. Deve accontentare l’ala estremista della rivoluzione islamica contraria all’accordo di Losanna.

In cima alla lista dei Paesi che possiedono armi nucleari ci sono gli Stati Uniti,che hanno condotto più test, dispongono di 7.650 testate, di cui 2.150 attive e così distribuite: 500 testate terrestri, 1.150 assegnate ai sottomarini nucleari e 300 pronte per essere montate sugli aerei. Inoltre, nell’alveo del programma di condivisione nucleare della NATO, la CIA riferisce di altre 200 bombe termonucleari (B61 a gravità) schierate in cinque Paesi NATO: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia.

La Russia dispone di 8.420 testate nucleari, di cui 1.720 attive. Gli effetti delle sperimentazioni atomiche sovietiche sono ancora oggi evidenti in molte aree dove furono condotti i test. Nell’odierno Kazakhstan, ad esempio, tra il 1949 e il 1989 il sito di Semipalatinsk fu teatro di ben 456 esplosioni termonucleari. Inutile dire che quell’area è estremamente radioattiva, per un raggio di almeno 80 km, tale che intere comunità e villaggi, ancorché distanti, portano addosso i segni indelebili di quegli esperimenti, che si sostanziano in deformazioni, leucemie e malattie ereditarie.

La Cina si ha iniziato a produrre  armi nucleari  dal 1950, dopo che gli Stati Uniti intrapresero esperimenti nucleari nel Pacifico (proprio durante la guerra tra le due Coree). Il primo test di successo con un ordigno nucleare è targato 1964, cui seguì la prima prova termonucleare due anni e mezzo più tardi (il più breve tempo tra fissione e fusione le prove di tutte le potenze nucleari). Oggi si suppone che la Cina abbia circa 140 testate terrestri e 40 assegnate per gli aerei. La CIA, che ne ha stimate 240 in totale, ritiene che le restanti testate siano conservate per un futuro impiego in un sottomarino nucleare, che oggi non possiede.

La Francia, dopo USA e Russia, è la terza potenza nucleare al mondo, anche se dispone di “sole” 300 testate, 250 delle quali assegnate a sottomarini nucleari e le restanti 50 pensate per attacchi aerei. Nel 1996, sotto la presidenza Chirac, ha smantellato tutte le testate terrestri.

Il Regno Unito ha condiviso con gli americani il “Progetto Manhattan”, padre di tutte le sperimentazioni nucleari, sviluppando poi un proprio personale programma (pur condividendo oltre la metà dei test con gli USA). Oggi dispone di 160 ordigni operativi, esclusivamente per uso sottomarino.

Pakistan e India dispongono entrambe di circa 100 testate (90/110). Islamabad decise di avviare un proprio programma nucleare nel 1972, in seguito alla guerra con l’India, sperimentando test sotterranei (nel distretto di Chagai, vicino al confine con l’Iran) e oggi dispone di missili nucleari terrestri e aerei. L’India, di converso, ha prodotto armi nucleari proprie dopo i test nucleari della Cina a metà degli anni Sessanta, testando i propri ordigni dal 1974 al 1998. Dispone di missili nucleari aerei e terrestri e da anni cerca di allargare il programma nucleare alle forze marine.

La Corea del Nord, secondo le stime della CIA, avrebbe meno di 10 testate nucleari che ha sperimentato in tre occasioni (2006, 2009 e 2013), fatto che ha comportato per Pyongyang dure reazioni della comunità internazionale e nuove sanzioni economiche. Tuttavia, la minaccia nucleare nordcoreana, particolarmente contro Corea del Sud e Stati Uniti, è poco più che un bluff. Infatti, anche se la Corea ha condotto tre test nucleari sotterranei ed effettuato test missilistici balistici, e nonostante la certezza che gli scienziati nordcoreani abbiano separato abbastanza plutonio per le 10 testate di cui sopra, non è confermato che Pyongyang sia davvero in grado di armare i missili e lanciarli, non disponendo né di sottomarini né di aerei in grado di condurre un efficace attacco dal cielo.

Mutatis mutandis, anche la politica energetica internazionale è stata modificata.

Nonostante i dati favorevoli al nucleare (soprattutto in Francia), secondo l’IAEA (International Atomic Energy Agency) il peso dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti di energia era destinato a ridursi entro il 2020. Questa previsione è datata 2004 ed è  stata smentita dagli ultimi eventi della politica energetica internazionale. L’affermazione e l’ascesa di nuovi paesi sullo scacchiere mondiale (es. Cina e India) e la conseguente crescita della domanda di energia mondiale ha spinto alla cantierizzazione di nuovi reattori nucleari. In Asia sono attualmente in cantiere almeno 15 nuove centrali nucleari (Cina, Corea del Sud, India e Taiwan). La situazione in Europa  merita invece un livello di approfondimento maggiore. L’assenza di investimenti nella costruzione di nuove centrali nucleari in Europa negli anni ’90 è un dato di fatto. La Finlandia è stato l’unico paese europeo ad avere messo in cantiere nell’ultimo decennio del ‘900 la costruzione di una nuova centrale nucleare (centrale di Olkiluoto, attiva entro il 2010).

L’approccio nei confronti del nucleare da parte dei paesi europei è radicalmente mutato nel corso del primo decennio degli anni duemila. L’effetto serra e il caro petrolio hanno fatto riavvicinare all’energia nucleare anche i paesi occidentali più scettici. Agli inizi degli anni duemila molti paesi europei nuclearizzati (Svezia, Germania, Olanda e Belgio) avevano deciso di non sostituire le attuali centrali nucleari al termine del loro ciclo produttivo.

L’acuirsi del problema ambientale e le cicliche crisi del petrolio e del gas hanno però rimesso in discussione il destino del nucleare in Europa. La politica prevalente in questi ultimi anni tende a prolungare la vita delle centrali nucleari europea, in attesa di una possibile risposta ai problemi del nucleare da parte della ricerca scientifica. Prevale pertanto una politica di attesa.

Sono circa 440 i reattori nucleari attivi nel mondo. I paesi con maggiore presenza di reattori nucleari sono i seguenti: USA (1049), Francia (59) e Giappone (53).