Quando i sudditi scelgono, scappano come conigli

Una scelta vile: la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione invece di dare il proprio apporto al superamento dell’impasse che ha bloccato il mercato. Il referendum sulla Brexit si chiude con il “Leave” che vince 51,9% a 48,1% , ribaltando il primo sondaggio che dava il fronte del “sì” (Remain) al 52% e quello del “no” (Leave) al 48%. Per la Brexit hanno votato 17.410.742 elettori mentre per restare nell’Ue i voti sono stati 16.141.241. L’affluenza al referendum viene fissata al 72,2%. Il primo ministro David Cameron, paladino del fronte dei “Remain”, ha annunciato che si dimetterà, anche se non nell’immediato.

Scozia, Irlanda del Nord e anche Londra hanno votato largamente per restare, il Galles e il resto d’Inghilterra per l’uscita. In particolare nell’Irlanda del Nord il “Remain” ha vinto con il 55,8% a fronte di un 44,2% attribuito al “Leave”. In Galles il “Leave” ha ottenuto il 52,5% battendo il “Remain”, fermatosi al 47.5%. In Scozia il no alla Brexit ha prevalso col 62,0% mentre per l’uscita dall’Ue ha votato il 38,0% degli elettori. Un secondo dato interessante è quello che riguarda i giovani. Ben Riley-Smith – firme di punta del Telegraph- analizza il sondaggio che arriva da YouGov e che testimonia la frattura generazionale che si è creata nelle urne. Il 75% degli under 24 ha votato contro la Brexit. Il 56% degli under 49 ha fatto lo stesso. Sono gli ultracinquantenni — e in particolare gli ultrasessantacinquenni — ad aver votato in maggioranza per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

Una decisione interessata dettata da un’egoistica prudenza che cercando di evitare un dispiacere ne causerà di più grossi.

A cominciare dalla notte drammatica del venerdì nero: in una sola giornata l’Europa ha bruciato 411 miliardi di euro. In mattinata a Milano riesce a far prezzo solo il titolo Recordati che perde subito il 9%. E’ il preludio della peggior seduta di Piazza Affari che chiude a -12,48%, brucia 61 miliardi tornando ai minimi dal 2013: si tratta della maggiore perdita da quando è possibile ricostruirne a ritroso l’andamento, dal 1994. Dopo il crac di Lehman il Ftse Mib segnò un crollo dell’8,24% il 6 ottobre 2008, mentre l’11 settembre 2001 aveva perso il 7,57%.

A pagare lo scotto maggiore sono le banche che solo a fatica riescono a fare prezzo: quando Bpm apre il rosso teorico è del 35%, poi ritraccia, ma le vendite sono pesanti e oltre il 20% come per Unicredit e Intesa Sanpaolo. A essere in ginocchio è l’intero comparto creditizio europeo. Francoforte perde il 6,82% peggio di Londra (-3,15%), ma meglio di Parigi (-8,04%). Effetto Brexit anche su Wall
Street: quando chiudono i mercati europei il Dow Jones che perde il 2,6% e il Nasdaq il 2,7%. In profondo rosso anche l’indice S&P500 che cede il 3,1% dopo aver registrato la peggior apertura dal 1986.

In mattinata Tokyo ha perso il 7,92% archiviando la peggior seduta dall’incidente nucleare di Fukishima. Per evitare danni maggiorni, il Giappone ha deciso l’applicazione del ‘circuit breaker’, il dispositivo che inibisce le funzioni di immissione e modifica degli ordini, limitando i ribassi troppo elevati. Un meccanismo che potrebbe essere utilizzato anche da Borsa italiana che sarebbe pronta a restringere la forchetta di oscillazione dei titoli, per contenere il flusso di vendite.

A terrorizzare gli analisti è anche il percorso travagliato che sancirà il divorzio tra Londra e Bruxelles perché serviranno almeno due anni di negoziati che alimenteranno solo le incertezze. “Brexit può essere la nuova Lehman” dice Vincenzo Longo, analista di Ig Markets. Gli addetti ai lavori si augurano un divorzio che minimizzi il danno economico a tutto quelli che subiranno l’impatto del Brexit. “La Gran Bretagna soffrirà ma sono sicuro che si focalizzerà ancora di più ora sulla competitività della sua economia nei confronti dell’Ue e del mondo in generale” dice Tom Enders, l’amministratore delegato del gruppo aeronautico europeo Airbus Group.

A soffrire sono soprattutto le valute con la sterlina che dopo un avvio iniziale trionfante sulla scia dei sondaggi (volata ai massimi dal 2015, sfiorando gli 1,50 dollari), è crollata nella notte man mano che arrivavano i dati del vantaggio del “leave” dalla Ue, segnando un calo del 8% sul dollaro e chiudendo a 1,36 dopo essere arrivata a quota 1,32: un crollo che ha superato quello del 1985. Le fluttuazioni della sterlina andranno negli archivi come le più forti di sempre. La perdita nel giorno del referendum aveva già superato quella del “mercoledì nero” del 1992, quando la crisi valutaria spinse la Gran Bretagna fuori dal Sistema monetario europeo. L’euro chiude in calo a 1,1124 dollari e 113,28: gli acquisti si concentrano quindi sulla moneta giapponese, bene rifugio che passa di mano a quota 102,01 sul biglietto verde dopo aver toccato un massimo dal novembre 2013 a 99 yen.

Tempesta anche sui titoli di Stato: lo spread, la differenza di rendimento, tra Btp e Bund tedeschi si è ampliato fino a 185 punti base dalla chiusura a quota 130 punti per poi ritracciare a quota 159 con il decennale italiano che rende l’1,55%, mentre il tasso del bund è piombato al minimo record di -0,17% per poi risalire a -0,046%. A sostenere le quotazioni è soprattutto l’intervento della Bce.
La Brexit affonda la sterlina. Sotto pressione anche l’euro
Immediato l’effetto sulle materie prime: mentre il petrolio è in calo e cede oltre il 6% a 47 dollari per il barile Wti e il Brent perde poco meno (il 5,95%) a 47,88 dollari, corre l’oro, considerato il bene rifugio per eccellenza. Le quotazioni del metallo giallo, forti da giorni, salgono del 7,8% ai massimi dal 2008.

A questo punto l’attenzione è tutta rivolta verso le banche centrali. Haruhiko Kuroda, numero uno della Boj, la banca giapponese, ha assicurato che lavorerà a stretto contatto con gli altri governatori centrali per stabilizzare i mercati. In particolare, i banchieri stanno pensando di utilizzare – come già accaduto durante la crisi del 2008 – un accordo di “currency swap” che permetterebbe alla banche centrali di rifornirsi di dollari presso la Federal Reserve mantenendo poi invariato il tasso di cambio al momento della chiusura dell’operazione: in questo modo l’oscilazzione delle valute sarebbe limitata. Anche la Banca d’Inghilterra è intervenuta spiegando che farà “tutto il necessario per assicurare la stabilità dei mercati”.

Sterlina a picco, borse in caduta libera, la Gran Bretagna non ha saputo nemmeno fare la parte del leone. Squilla già la tromba del dietrofont: una nuova petizione online chiede a gran voce di ripetere la consultazione. Una legge prevede che quando almeno 100mila persone firmano una petizione il Parlamento debba prendere in considerazione la proposta. La soglia è stata ampiamente superata nel giro di poche ore. Il traffico online è talmente intenso, che spesso è impossibile accedere al sito web dedicato.

Nello specifico, i firmatari chiedono la promulgazione di una nuova legge che prescriva la ripetizione del referendum in caso di un risultato con un margine di vantaggio del “Leave” inferiore al 60% e che abbia come condizione minima l’affluenza alle urne di almeno il 75%.

Secondo David Alan Green, blogger e opinionista del Financial Times e del New Statesman, l’unica possibilità per fermare le procedure di attivazione della clausola dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona (che prevede l’uscita dall’Unione Europea) è la possibilità di fare un nuovo referendum. Una prospettiva che potrebbe diventare realtà entro il 2018, anno in cui la Brexit avrà i suoi effetti. Ma secondo l’Indipendent, il Parlamento e il governo rifiuteranno la proposta. «Ripetere un referendum non è il genere di cose che vengono prese in considerazione», scrivono in un articolo online.

Sul sito web è disponibile anche una mappa dei firmatari della petizione. Le zone attorno a Londra sono quelle con la maggior concentrazione di firmatari.