L’Alchimia e l’oro di Roma. Storia della Porta magica di piazza Vittorio Emanuele II e dei suoi personaggi

Di Giusy Sammartino

Ancora oggi suscitano interesse le vicende di esperienze alchemiche e le storie di coloro che tra fornelli e lambicchi si dedicarono, in tempi non poi così lontani, all’ermetica arte. Ci si domanda ancora chi di loro fu davvero impostore poiché spesso le loro figure sfumano nella leggenda.

Anche i regnanti, e non pochi di loro, vennero attratti o stimolarono questa misteriosa ricerca. Esempi illustri si hanno in Rodolfo II, vero terrore degli alchimisti che non riuscivano, nei loro laboratori praghesi (nella famosa viuzza d’oro), a strappare al miscuglio delle sostanze l’ambita ricetta e venivano mortalmente puniti racchiusi in gabbie sospese nel vuoto. Poi Cristina di Svezia che, dopo l’abiura, probabilmente tradita dal suo stesso seguito, si trasferì a Roma, dove abitò a Palazzo Farnese e Corsini. La regina grazie alla sua conversione al cristianesimo fu tanto ben accetta dal Papa da non essere minimamente disturbata, nonostante la condotta della sua vita non fosse del tutto tranquilla, per le sue ricerche alchemiche.

Ma l’Alchimia non fu certo “scienza” solo del millennio passato e dell’Europa: infatti essa pone le basi già nell’antico Egitto, dove si diceva venisse insegnata agli uomini da Ermete Trismegisto.

Della presenza di monumenti alchemici in Europa ci informa Pietro Bornia in un articolo del 1915 nel quale cita la loro esistenza in Francia, in Svizzera e, quindi, in Italia, a Roma, in quella che oggi è la piazza del quartiere più multietnico della capitale, spesso pieno di tensioni e forti contrasti: piazza Vittorio Emanuele II.

Un monumento marmoreo della ricerca del lapis philosoforumper la trasmutazione delle sostanze in oro svetta dalla parte a nord della piazza -una volta adibita a colorito mercato e oggi trasformata in giardino, con il suo contorno di portici testimoni del discutibile passaggio architettonico dei piemontesi – tra basilica di Santa Maria Maggiore, sullo sfondo, e la chiesa di Sant’Eusebio da un lato.

Misterioso, o almeno ancora da svelare come fosse anche questo un segreto inaccessibile ai non iniziati, il nome dell’autore. Come per tutti gli scritti ermetici rimbalza dal nome del Pellegrino,alchimista che girava le corti europee del Seicento, sempre in fuga a causa dei perenni debiti, al nome del marchese Massimiliano Palombara (1614-1685), che abitava la grande villa all’Esquilino, tra l’odierna piazza Vittorio e viale Manzoni.

Sì, perché caratteristica del filosofo ermetico, dello scrittore dei segreti alchemici, era dire la verità nella menzogna: sussurrare all’orecchio del saggio ciò che aveva intuito e provato e burlarsi invece del profano, incapace d’ascolto.

Un testo in tal senso è La bugia, del Palombara, proprio il presunto e probabilissimo autore delle iscrizioni sulla Porta Magica,che era anche uno degli ingressi laterali alla villa romana dell’eccentrico marchese.

Per gli appassionati, lo scritto, tutto composto da inediti, è frutto di una ricerca (fatta una ventina di anni fa) presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e negli archivi dei Prìncipi Massimo, famiglia in cui confluirono i Palombara grazie al matrimonio di Barbara Savelli Palombara e don Francesco Massimo, ambasciatore di papa Clemente XIII.

“Ho voluto ancora sotto la figura dello strumento che tiene il lume, detto volgarmente Bugia, intitolare quei miei discorsi e poesie perché vertendo essi intorno a scienza così alta, non potevo più proportionalmente che sotto tale simbolo propalarli; come fece l’em.mo Cusano ch’intitolò i suoi libri della più fine filosofia e teologia: Dotta ignoranza. E  ciò sia per le raggioni addotte di sopra, sia anche perché tal stromento per lo più si adopera sopra gli altari a’ i Sacrificij Sacri”.

Così il Palombara spiega, questa volta il meno ermeticamente possibile, la scelta del titolo al suo libro e, con il riferimento al Cusano della Dotta ignoranza, ne sottolinea la provocatoria ambiguità del doppio senso insito nel termine: bugia intesa proprio nell’accezione corrente più moderna di menzogna, di cosa non vera, e bugia, come oggetto che metaforicamente sostiene la candela portatrice di luce dell’intelletto.

È importante questo per la comprensione degli alchimisti e della “scienza” alchemica perché la serie di parabole, sonetti, rime e scherzi ermetici, Ludus Hermeticus, il tutto scritto in versi latini che riguardano soprattutto l’effetto fonico, sono esempio di quella “beffa” caratteristica di ogni testo alchemico.

Altro elemento importante, in questo testo fondamentale, è la scelta della lingua di volta in volta latina e toscana. Ce lo spiega lo stesso Palombara:

“Ho voluto con vari metrij tanto di lingua Toscana come Latina soddisfare il curioso Lettore acciò l’ingegno di ogni natione possa havere parte nel Filosofico studio; onde, non paia strano a chi intende l’una o l’altra lingua, se nel leggere trova il medesimo discorso tanto nell’uno quanto nell’altro Idioma. Poiché ciò che si narra nel Latino l’istesso si narra nel Toscano, trattandosi di una sola materia et operatione la quale si potrebbe descrivere in poche righe, onde conforme al proprio genio ciascuno potrà eleggersi quel che più gli aggraderà”.

Il fatto è che il testo non è solo importante per il passaggio da una lingua a un’altra (questo poi accade poche volte) ma è principalmente il voluto dilungamento di ciò che “si potrebbe scrivere in poche righe” che con l’uso essenzialmente sonoro della parola diventa così cerimoniale di un rito introduttivo ai misteri della Grande Opera.

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Foto. Particolare superiore della Porta

Le iscrizioni sulle pareti e sulla Porta della villa del Palombara sono il perfetto esempio di questa lingua scritta che deve essere essenzialmente letta. E poco importa che l’autore sia il Palombara stesso o il Pellegrino, che lasciò gocce del preziosissimo liquido cercato dagli alchimisti, o che invece, svolgendosi al femminile, possa esserne autrice la regina Cristina di Svezia, diventata a Roma grande collaboratrice del Palombara nella ricerca del particolare metallo. Tutto ciò, nulla toglie, anzi aumenta la “segretezza” insita.

Il laboratorio alchemico del Palombara sorgeva al pian terreno del casino della villa dove il marchese conduceva vita austera e, come lui stesso indica, con abbigliamento praticamente monacale: ”All’usanza di Norcia porto i zoccoli”.   Dunque vita monacale e ciò è confermato dalla chiusura alle Rime ermetiche:“Ora et labora, et sic habebis” di chiara impronta benedettina.

Non sappiamo se il Palombara abbia trovato veramente il segreto che sembra invece si sia rivelato al Pellegrino, suo ospite forse per solo una notte. Dilettiamo a pensare di sì, e che in onore del prezioso e mai poco misterioso metallo, la Porta Magica di piazza Vittorio Emanuele II, insieme al vicino Ninfeo di Alessandro Severo, comunemente conosciuto come i Trofei diMario(III secolo) siano curate e tolte dal degrado in cui periodicamente versano e molti possano andare ad ammirarle per sapere di più su ciò che rappresentano e su i loro presunti e misteriosi autori.