Patrie, popoli, corpi: ripensare genere, sessualità e famiglia nell’era dei nuovi nazionalismi

di Eleonora de Longis

Di stringente attualità il seminario omonimo che la SIS (Società italiana delle storiche) e la rivista della SIS «Genesis» organizzano a Roma presso la Casa internazionale delle donne, venerdì 15 giugno 2018.

Al centro dell’attenzione le politiche identitarie che sembrano dominare la scena in Europa e anche nell’America di Trump e vedono manifestarsi, insieme con l’opposizione al progetto sovranazionale europeo, il ricorso ai valori religiosi come base del vivere civile, come collante dei nuovi nazionalismi e dell’attacco alla concezione liberale dei rapporti di genere, della sessualità e della riproduzione. Dove la svolta nazionalista è già avvenuta, i diritti delle donne e delle minoranze sessuali si sono trovati rapidamente sotto assedio, mentre la vecchia equazione famiglia-nazione si è ripresentata in tutta la sua forza. Anche l’Italia è coinvolta, dopo le elezioni del 4 marzo, da questo clima e gli appelli al ritorno alla famiglia e ai ruoli sessuali tradizionali e “naturali” hanno conquistato nuova visibilità. 

Nella giornata di studi un gruppo di storiche e storici provenienti da varie università europee discuterà delle trasformazioni in atto collocandole in una prospettiva storica lunga e mettendo a fuoco le specificità dei diversi contesti nazionali.

Stefania Bernini, docente di Storia contemporanea nell’Università di Venezia Ca’ Foscari, introdurrà l’incontro. A seguire, il panel Famiglia, religione, nazione: alle origini della questione, presieduto da Giulia Calvi, direttrice di «Genesis», nel quale interverranno Nadia Filippini (Il corpo fecondo dello stato. Nazionalismi e politiche della riproduzione nel lungo periodo), Liviana Gazzetta (Nazione, patria, famiglia: ripensare la dottrina sociale della Chiesa nel lungo ‘900), Carlotta Ferrara degli Uberti (Nazione, stirpe o razza? Rappresentazioni e reazioni ebraiche nell’Italia liberale), Marius Turda (The Protection of Mothers, Family, and Race during the Interwar Period in East-Central Europe); il commento sarà affidato a Emmanuel Betta, docente di Storia contemporanea all’Università di Roma Sapienza. 

All’inizio della sessione pomeridiana, Andrea Peto, del Department of Gender Studies della Central European University di Budapest, terrà una conferenza sul tema Memory politics of illiberal states. Seguirà il panel Contestare e resistere coordinato da Stefania Bernini, nel quale si succederanno gli interventi di Agata Ignaciuk, dell’Università di Varsavia, sulla situazione polacca – Abortion stigma and abortion practice in Poland -, di Massimo Prearo, dell’Università di Verona, che analizzerà le manifestazioni anti gender in Italia (Contestare per credere: strategie di mobilitazione e registri argomentativi dei movimenti “anti-gender”in Italia), di Elisabetta Vezzosi, docente di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Trieste, (Un  gender gap per Donald Trump. Nuovi femminismi negli Stati Uniti). Commenterà le relazioni del panel Alessandra Gissi, dell’Università di Napoli L’Orientale.

In fine la tavola rotonda coordinata da Ida Fazio, docente di Storia moderna all’Università di Palermo.




Ponza, tra passato e futuro. Percorsi al femminile

Di Silveria Aroma

Lontana dai tempi in cui le donne dell’isola si mettevano in fila aspettando il proprio turno per farsi arricciare la chioma con la “permanente” da un avventuroso parrucchiere di Napoli che bolliva i bigodini in un pentolone, tra una cliente e l’altra. Io me ne sto comodamente seduta in un luminoso, elegante salone; Ersilia prepara il rosso dorato per i miei capelli: lei mescola e io scrivo; due streghe provette dei tempi moderni.

La porta del negozio affaccia sul quel tratto della strada panoramica dove in passato avevano trovato alloggio diversi confinati politici nel periodo fascista.

Quelli appartenenti a famiglie benestanti e non quelli destinati al “camerone comune”. Vale a dire quella parte di confinati che ebbe modo di comunicare e scambiare con i ponzesi. Qualcuno di loro trovò anche l’amore e più di un’isolana divenne combattente della resistenza; mentre Zaniboni barattava le mele del Trentino per il vino di Frontone.

Frontone, all’epoca lavorata a vigne e orti ad occupare terra giù giù fino alla battigia, oggi considerato luogo simbolo del turismo isolano per la balneazione e per la movida. La spiaggia che ora si colora di lettini e ombrelloni nei mesi dell’estate, per secoli aveva conosciuto come unico passo umano quello dei coloni.

Foto 1. La spiaggia d’inverno

Un’unica casa in alto, al centro della spiaggia, e un gruppetto di case sparse sulla destra, guardando dal mare. A completamento del quadro, sul promontorio roccioso, il forte borbonico del XVIII secolo. Poche case ornate di alberi di fico e gelso moro e terrazzamenti di vite e legumi. Nei viottoli che guidavano sino alle porte delle case fiorivano i giaggioli bianchi a filari ordinati ma fitti.

Foto 2. L’interno

Le donne nei giorni di bucato strappavano qualche bulbo alla terra e lo grattugiavano; questa sorta di cipolla tritata veniva adoperata nell’ultimo passaggio della cosiddetta “colatura”, ossia nel fare il bucato e lasciava profumati i tessuti per settimane. Una sorta di ammorbidente a impatto ambientale zero. Per sbiancare lenzuola e altro, invece, utilizzavano la cenere di “zamperervìte” (sempre estivo) il cui fiore è chiamato sull’isola “canna Feola”, conosciuto ai più – e nella lingua italiana – come agave.

Negli anni delle due guerre mondiali, nelle notti stellate e senza vento, le donne si recavano in spiaggia. Solo un lume a petrolio a guidarle. Gli uomini; mariti, figli, fratelli, erano stati chiamati alle armi e a loro toccava il compito di badare a vecchi e bambini, alla casa, alla terra e agli animali. Le più scaltre sapevano remare e pescare usando una piccola rete; la sciabica. Il mare dell’isola è da sempre rinomato per la sua pescosità e in quegli anni era talmente ricco che si poteva prendere una mormora (pesce tipico dei suoi fondali sabbiosi) usando semplicemente un amo arrugginito e un pezzo di pane secco. Una volta in spiaggia le donne si sedevano in cerchio e nel buio cominciavano a pregare: nove Padrenostro, nove Ave Maria, e nove Gloria al Padre; questa la sequenza di una ”orazione”; la preveggenza delle nostre antenate.

Una forma divinatoria popolana atta a chiedere un segno o un sogno premonitore, un responso. Madri, mogli, sorelle bramavano conoscere la sorte dei loro cari in guerra. La più esperta, Donna Matilde, interpretava il segno colto. Un movimento di gabbiano, un bagliore improvviso, una sonorità nella notte e lei, da saggia sibilla, divinava.

Foto 3. La spiaggia di Donna Matilde

Nei giorni seguenti le mareggiate, invece, le donne raggiungevano la spiaggia per raccogliere ciò che il mare aveva spinto a riva e che poteva essere di supporto all’economia della famiglia. Con l’ausilio degli uomini rimasti a casa spogliavano anche i cadaveri dei soldati, recuperavano i paracadute, e con la stoffa cucivano sottovesti per i corredi. Erano tempi duri e senza pietà: bisognava sopravvivere.

C’erano giorni di festa, senza predizioni o saccheggi, allora Matilde suonava il mandolino per gli abitanti di tutta la contrada e oggi, risalendo un poco dalla spiaggia verso la macchia mediterranea, nei pressi di quella che fu la sua casa, c’è Cala Frontone, un’associazione culturale adagiata su di un terrazzamento, dove è possibile riscoprire gli antichi sapori dell’isola.

Foto 4. In primavera

Vincenzina prepara le zuppe di lenticchie e cicerchie con mano esperta e paziente perché si sa, le cose buone non spuntano sulle tavole aprendo semplicemente una busta. I legumi cuociono sin dal mattino presto e le marmellate per le crostate vengono rigorosamente preparate in casa. Melagrane e mele cotogne allietano il palato senza lasciare in bocca il gusto edulcorato della modernità. Non provate a chiedere alcuna ricetta, neanche la più semplice. Nessun segreto in merito alle dosi degli ingredienti o ai tempi di cottura vi verrà svelato. Beatevi piuttosto del fresco sotto le fronde, del legno grezzo dei tavoli, dell’aria familiare e dei sapori arricchiti dal senso della tradizione. Nella stessa area troverete anche un minuscolo museo etnografico che conserva ancora, tra i cimeli di famiglia, il mandolino di nonna Matilde.

Da nonna Matilde a nonna Rafaela il passo è breve; pochi metri, infatti, separavano le loro rispettive case. Rafaela, la mia bisnonna, le lenticchie le metteva a cuocere in fretta, prima di andare in campagna. Essendo nata in una famiglia con solo (o ben) otto figlie femmine, aveva imparato a fare tutto al pari di un uomo e di una donna insieme. Terra e mare, casa, figli e investimenti in terreni e case fatti coi proventi del lavoro del marito. Aveva troppo da brigare per separare lenticchie, pula e sassolini. Nel ripartire la zuppa nei piatti dava le prime mestolate, cariche di acqua e pagliuzze, al marito, quelle centrali ai figli e il fondo con le pietruzze lo mangiava lei.

Mia nonna, da nuora giovane e ubbidiente, con lei imparò a pescare e a vendere il pesce. Partiva dalla spiaggia di Frontone con una cesta piena di pesce su una spalla e la bilancia di ottone sull’altra. Risaliva la collina lungo il sentiero e raggiunta la strada principale ancora sterrata, camminava per altri sei chilometri fino all’estremità nord dell’isola, Le Forna, dove vendeva il pescato.

Si fermava in vari punti e, a richiesta, pesava e faceva il prezzo, avendo cura di nascondere sotto un telo i pesci più polposi che sarebbero rimasti invenduti. Li avrebbe poi portati alla madre, facendo una sosta lungo la strada del ritorno, all’insaputa di sua suocera Rafaela. E se uno dei suoi fratelli non le andava incontro per recuperare la cena avrebbe assaggiato il suo zoccolo di legno.

Qualche volta suocera e nuora arrivavano insieme a Santa Maria con la barca a remi. La vecchia usava una delle stanze della casa del figlio maggiore come deposito dei viveri per l’inverno: fichi secchi, fichi d’india essiccati, fave, lenticchie, cicerchie, mostarde.

Le nostre mostarde non hanno nulla in comune con le più note mostarde. Trattasi, infatti, di semola cotta con il succo dei fichi d’india, e profumata con i semi del finocchio selvatico. Spianata, tagliata a losanghe, essiccata e infornata all’ultimo. Le mostarde si preparavano (come ancora oggi) nel periodo della vendemmia, si cominciava a mangiarle per i morti, e dovevano essere centellinate per durare fino all’Epifania.

Subito dopo la guerra, dopo la morte della suocera, mia nonna Silvia lasciò Frontone e si trasferì a Santa Maria in quella stessa casa in cui aveva aiutato la suocera più e più volte a sistemare le provviste. Viveri che un certo giorno erano spariti, rubati forse dai pescatori che lavoravano sui pescherecci tirati in secco davanti alla casa.

Foto 5. La vecchia Santa Maria

 

Quell’inverno fu più duro degli altri.

La casa in questione è un palazzetto giallo a pochi metri dal mare, lo stesso edificio che ospitò Mussolini nella sua settimana di confino ponzese. Otto giorni nell’estate del 1943 ospite, seppur coatto, nella nostra casa.

Nella cucina al primo piano la cuoca gli preparava i pasti, mentre la lavandaia abitava in una casa vicina; a quest’ultima rimasero gli abiti del Duce, portato via in tutta fretta e di notte, così com’era arrivato. Abiti che la donna riadattò per il figlio ancora bambino.

Silvia dapprima prese in affitto uno degli appartamenti della casa gialla a tre piani sulla spiaggia, abitandoci con il marito e le due figlie (mia madre e mia zia). Da donna forte e capace centellinò lo stipendio da insegnante del marito per le spese della famiglia, e proprio lei, Silvia, fu fra le prime ad avere l’intuizione che si sarebbe rivelata in futuro la svolta economica dell’isola: il turismo. Cucinare per i primi visitatori che ebbero la fortuna di conoscere Ponza in tutto il suo incontaminato splendore.

Lavorando sodo e facendo sacrifici, senza rinunciare alla soddisfazione di mandare le figlie a studiare a Roma, nel giro di qualche anno comprò l’intero edificio, creando così la piccola azienda che porta ancora il suo nome: Silvia.

Dieci camere semplici e linde, senza televisore. C’è una piccola libreria tra un piano e l’altro: un invito a bearsi della bellezza circostante riscoprendo il piacere del dialogo, piuttosto che smarrirsi ancora una volta nella scatola magica.

Il ristorante è a pochi metri dall’acqua: atmosfera raccolta e una gestione familiare orgogliosa di mantenere viva una tradizione antica, che privilegia la scelta delle materie prime piuttosto che promuovere piatti sofisticati ed elaborati.

Foto 6. Donna Silvia 

Da Santa Maria, come dal Porto, è possibile raggiungere la spiaggia di Frontone in pochi minuti. Partendo dal porto borbonico potreste imbattervi nella mitica Concetta, frizzante sotto il suo ombrellone, altra pioniera del turismo ponzese.

Vi chiederà: “Andiamo a Frontone?”. Giusto! Era proprio lei che un giorno mi raccontava della fila che faceva per farsi i capelli… ed eravamo appunto sedute dalla parrucchiera.

Con una bella passeggiata oppure in barca, andate a Frontone: guardate dal mare verso le colline e liberate la fantasia immaginando le nostre ave con le loro laboriose mani: donne tenaci e coraggiose che hanno saputo consacrare la magica unione dell’uomo col mare.

E non trascurate il piccolo borgo di Santa Maria, eletto da Ottaviano Augusto come sede di una delle sue residenze. Cenate in questo luogo senza tempo, mentre il mare con il suo sciabordio vi canta la più antica delle melodie. Una straordinaria sinergia di ospitalità e bellezza, tra suggestioni lontane e attrattive attuali.

Perdetevi quindi nella bellezza del porto borbonico voluto da Carlo V: guardatelo da lontano prima, per poi camminare su di un lastricato vecchio di tre secoli.

 

Ponza non è semplicemente bella, è anche crocevia di storia e culture, epoche e genti; per millenni punto cruciale nel Mediterraneo, oggi conserva ancora lo splendore e la magia di una terra ove il passato è ancora presente, nella vita di tutti i giorni.

 

Tratto da: Strade maestre. Un cammino di parità.Universitalia, 2015




Le ricamatrici di Santa Caterina, di Ester Rizzo

di Grazia Mazzè

Sarà presentato il 9 giugno il libro di Ester Rizzo “Le ricamatrici” a “Una Marina di Libri” – il Festival del libro, all’Orto Botanico di Palermo.

Avevo letto sul web la storia delle ricamatrici di Santa Caterina di Villermosa, un paesino del Nisseno, un paio di anni fa, curiosa di approfondire fatti in cui sono state coinvolte donne siciliane e le rivendicazioni dei loro diritti.

La lettura del romanzo però è arrivata alla mia memoria più intima, a un nostalgico nucleo di ricordi con mia nonna, una ricamatrice, vissuta nella realtà meno circoscritta della città di Palermo.

Sono certa, se fosse arrivata a lei l’eco del movimento della Lega della Rosa Rossa sarebbe stata una delle “Mille ragazze in lotta”.

La mattina al risveglio la trovavo già sulla sua seggiolina davanti all’imposta del balcone, sempre alla ricerca della luce “buona”, con il suo telaio, a tirare fili con affilatissime forbicine, a realizzare quadratini perfetti per poi ricomporli con un gioco di ago e filo, come un’artista, per creare quella preziosità fatta a mano chiamata “Cinquecento”.

Stesso anno di nascita di Filippa, anche lei aveva frequentato la sesta elementare, stessa tempra, risoluta, istruita per quei tempi, rinchiusa in un Collegio aveva studiato. Lì aveva imparato l’arte del ricamo, della maglia, le tessiture del filet e del Quattrocento, ma nel Cinquecento aveva trovato la possibilità di concretizzare un lavoro.

Un lavoro che la teneva china sul telaio dall’alba al tramonto, a volte più del dovuto. Lei si raccontava mentre sfilava ed io l’ascoltavo, meraviglitata per la capacità di creare dalle mani tale bellezza, arte che ho imparato, senza mai eguagliarla, spezzandone il filo dopo la morte di lei.

Indossando gli immancabili guanti e cappellino mi conduceva per mano a consegnare quei lavori, scrollandosi così la fatica e il dolore agli occhi. Sentivo trattava sul prezzo dei manufatti con i negozianti che glieli avevano commissionati per dei privati, non era mai soddisfatta quando mi riprendeva la mano per uscire dal negozio.

Filippa mi riporta alla memoria di quei miei primi otto anni, collocandoli nel contesto storico-politico di quel tempo. Forte e tenace, una figura capace di ricacciare dentro le sue emozioni, per permettere alle altre che il da farsi arrivasse chiaro e pulito. Accogliente ma autorevole, con addosso l’esperienza di emigrata che le aveva permesso di aprire la mente e convincersi che la cultura avrebbe liberato la nuova generazione delle donne dalle trappole del patriarcato.

Come scritto nella bellissima prefazione di Gaetano Savatteri, “Ester ha costruito con la dedizione di una ricamatrice una stagione in cui sembrava facile schierarsi dalla parte giusta, contro la prevaricazione, contro lo sfruttamento.”

La rivoluzione femminile si era già avviata, molte le donne nel mercato del lavoro, spinte dalla necessità economica e stimolate dai diritti conquistati, dalla crescente cultura femminile e il controllo della procreazione. Siamo nella fase aperta dal movimento del ’68, l’identità femminile punta alla liberazione, al riconoscimento e al valore delle differenze tra uomini e donne.

Eppure, scrive Savatteri, “le ricamatrici le pensiamo mansuete, chine sui loro tomboli, aduse a riprodurre un sapere antico tramandato di madre in figlia, competenti nell’impiego ritualmente femminile”.

Ester Rizzo ha una forte anima femminista e la troviamo intessuta nei fili del suo racconto, pieno di personaggi e temi che ancora oggi impegnano le donne in rivendicazioni e lotte.

Come allora l’emigrazione rientra tra le scelte quasi obbligate per avere un lavoro e una retribuzione adeguata. Il divario salariale tra uomini e donne è un peso che grava sull’economia del Paese e non c’è dubbio che le conseguenze ricadono maggiormente sulle donne.

C’è dentro l’attenzione alle vittime di uomini narcisi e violenti, come la povera Saretta, propensa a subire, incapace a denunciare, con l’amaro risvolto di una scelta obbligata o di una tragica fine.

Ci mostra la resa di coloro che si sentono forti e dalla parte della ragione e, nonostante ciò, provare l’impotenza cui costringe il potere mafioso e prevaricatore. L’onestà e il diritto non sono sempre carte vincenti.

L’amore in conflitto con le regole del patriarcato, nella storia di Pietro e la bella contadina. Il disagio di chi ha movimenti e pensieri da “straniera”, come Livia, testimone di quella evoluzione culturale che rende libere le donne dalle usanze di una realtà paesana.

E poi c’è Adele, la Marchesa, nella cui testa Ester fa muovere la libertà di non riconoscersi come donna nella maternità.  Un diritto di scelta ancora oggi intriso da pregiudizi e dall’incapacità sociale di dare lo stesso valore a coloro che scelgono di bastare a se stesse.

È anche una storia di sorellanza, di amicizia, di solidarietà, di un sentire comune tra donne che abbattono barriere, annullano ceti, si alleano nel bisogno.

Una storia d’amore, quella di Filippa e il marito, mai dissolto e garantito nel tempo, superbo esempio per chi ha paura dell’evoluzione delle donne nella libertà.

Queste sono le donne apparse mansuete, hanno riempito le strade del paese, queste schiave del racket degli intermediari e dei padroni ombra, bersaglio di attacchi che si scatenarono in tutta la Sicilia per il riconoscimento e la tutela del lavoro a domicilio. Qui c’è anche la formazione di un percorso sindacale, di una piattaforma, di un minimo salariale, del riconoscimento del lavoro nella sua dignità più vera, del valore di un prezzo da pagare e di un conto da saldare.

Ester Rizzo continua a insegnarci qualcosa, con le sue donne tirate fuori dall’oblio. Ci regala la testimonianza di una storia passata con ago e filo tra le mani. Siamo arrivate dove siamo perché queste donne, come tante altre, sono esistite, hanno marcato un tassello nel grande mosaico degli anni che ci sono appartenuti, cui dobbiamo dare ancora visibilità di margini e di consistenza.

Grazie alla Lega delle ricamatrici della Rosa Rossa, grazie a Ester Rizzo per la sua dedizione, per il dono che molte, dopo di noi, troveranno indispensabile per la marcia verso le conquiste future.

 

Ester Rizzo

Le ricamatrici di Santa Caterina

Navarra, Palermo, 2018

  1. 104

€ 10




Laura Bianchini Dalla mostra di Toponomastica femminile: Le madri della Repubblica

Di Rossana Laterza

Nata a Castenedolo (BS) nel 1903 e spentasi a Roma all’età di ottant’anni, Laura Bianchini ha vissuto da “cristiana militante” ogni momento privato e pubblico della sua vita. Si distingue come protagonista e animatrice dell’Azione cattolica e diventa Presidente del Circolo femminile bresciano della FUCI (Federazione universitaria cattolica) da cui nascerà il Movimento
Laureati, fondato da Igino Righetti e Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI). Il Movimento, proponendosi di elaborare linee guida etico-professionali per i cattolici neolaureati in procinto di affrontare il mondo del lavoro, diventa un vero e proprio laboratorio di idee che nel luglio del 1943, alla caduta del fascismo, arriverà a produrre (con Giorgio La Pira) il “Codice di Camaldoli”, documento fondamentale nell’apporto dei cattolici all’elaborazione della Costituzione. Dunque un cristianesimo sociale che affonda le sue radici nella Rerum Novarum e nel PPI di Don Sturzo e che sarebbe poi giunto alle formulazioni di Dossetti per il quale la solidarietà, lungi dal restare relegata all’ambito caritativo, avrebbe dovuto tradursi in concrete azioni di governo a favore di un’equità distributiva.

A questo cristianesimo sociale Laura Bianchini si forma e si ispira coerentemente, dagli studi universitari all’attività professionale d’insegnante, pedagogista e pubblicista fino all’impegno politico di antifascista nella lotta partigiana, di membro prima della Consulta Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente e infine di Deputata della Camera durante la Prima Legislatura.

A Brescia vive le prime esperienze professionali come maestra elementare, docente di Storia e Filosofia presso il Liceo classico “Arnaldo” e preside dell’Istituto magistrale. Collabora inoltre, come segretaria di redazione con la casa editrice “La Scuola” per la quale pubblica Il Focolare (antologia di scuola media per le ragazze) e il saggio L’educazione al senso sociale.

«Era piuttosto scorbutica e scostante, burbera, ma sprizzava vita e intelligenza, passione politica, civile e cristiana da ogni poro». Questa la professoressa Bianchini in un ricordo di Paolo Giuntella, il più illustre dei suoi ex allievi, che talvolta invitato con altri compagni a
via della Chiesa Nuova per essere sottoposto a interrogazioni supplementari, veniva invece coinvolto in nuove lezioni più interessanti. In queste animate lezioni la professoressa Bianchini, da “cristiana integerrima”, amava ripetere che «un cristiano non può non essere anticlericale»” perché «il libro più anticlericale della storia» non era certo il Candide di Voltaire, ma piuttosto «il Vangelo di Gesù Cristo».

Dopo l’8 settembre, entra nella lotta partigiana mettendo a disposizione la sua casa per le prime riunioni del CLN di Brescia e per allestire una piccola tipografia in cui si stampano alcuni numeri di “Brescia Libera”, il foglio clandestino dal motto: “esce come può e quando può”, che verrà presto soppresso.

Sospettata e sorvegliata dalla polizia repubblichina, ripara a Milano dove, ospite delle Suore poverelle, intensifica la sua attività con le formazioni partigiane cattoliche (Fiamme verdi): presta assistenza ai detenuti di San Vittore, aiuta ebrei e ricercati dai nazifascisti e coordina la stampa clandestina. Usa pseudonimi come Don Chisciotte, Battista e Penelope per firmare gli articoli de “Il Ribelle”, da cui esorta gli italiani a lottare per conquistare la propria libertà usando “la forza in difesa del diritto” per contrapporsi a chi ripone “il loro diritto nella forza”. Tra il ‘44 e il ’46 il periodico pubblicherà 25 numeri e 11 Quaderni di analisi e proposte politiche.

Designata membro della Consulta Nazionale dalla Democrazia Cristiana, è fra le donne (13 in tutto) che per la prima volta in Italia entrano a far parte di un’assemblea parlamentare. Avrà l’incarico di segretaria della Commissione Istruzione e Belle Arti.

A Roma Laura Bianchini vive in via della Chiesa Nuova 14, dalle sorelle Portoghesi che aprono la loro grande casa a costituenti democristiani fra cui Gotelli, La Pira, Fanfani, Lazzati, Dossetti e a politici dello schieramento dossettiano. Nel gruppo, denominato Comunità del Porcellino per il fatto che la “burbera” Laura Bianchini – nelle accese discussioni politiche – finiva spesso per dare del porco all’interlocutore malcapitato, si viveva in un clima amichevole e talvolta goliardico, si confrontavano ed elaboravano idee nuove e diverse fra loro, ma tutte finalizzate alla rifondazione di una vera democrazia dopo il fascismo. Finita la prima legislatura Laura Bianchini si fa da parte e torna all’insegnamento, questa volta al Liceo “Virgilio” di Roma.

Nel 1946 viene eletta nella Costituente e, coerentemente con la sua impostazione “personalista
e comunitaria”, nel gruppo democristiano aderisce allo schieramento cristiano sociale di
Giuseppe Dossetti. In Assemblea interviene nella discussione generale sui temi dell’educazione, dell’istruzione e della scuola pubblica dichiarandosi, in nome del pluralismo, favorevole all’azione educatrice degli istituti privati, ma senza oneri per lo Stato e richiamando l’attenzione sulla necessità di potenziare l’istruzione tecnica e professionale in armonia con le esigenze del modo del lavoro.

Deputata della Camera nella I Legislatura, fa parte della Commissione Istruzione e Belle Arti e della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla.




Un coro di voci per salvare la Casa

di Barbara Belotti, Livia Capasso, Maria Pia Ercolini

In un tweet di lunedì 21 maggio Michela Marzano ha posto una domanda serissima: “Com’è possibile che a rompere il patto con la Casa Internazionale delle Donne sia una giunta guidata da una donna?”. E ancora: “La sindaca Raggi – prima donna eletta a Roma – non conosce, oppure dimentica, oppure sottovaluta, l’importanza che i luoghi di accoglienza e di rilancio culturale rivestono oggi per tutte quelle donne che, nonostante i progressi dell’uguaglianza, continuano a subire violenze e ad essere emarginate?”. 

Forse è proprio questo che appare più incredibile, doloroso, paradossale e la riflessione di Michela Marzano diventa la riflessione di tutte e di tutti.

Il contenzioso fra il Comune di Roma e la Casa Internazionale delle Donne ha radici lontane. Dalla valutazione del debito accumulato negli anni, era nato un dialogo-confronto già con le precedenti amministrazioni, persino con quella del sindaco Alemanno che rinnovò la convenzione, segno evidente che le azioni svolte dalla Casa Internazionale, il suo radicamento storico, il suo valore simbolico venivano considerate un bene comune per l’intera città anche da amministrazioni “meno amiche”. La giunta Marino andò oltre, istituendo un’apposita commissione per procedere alla valutazione e rimodulazione dei costi esorbitanti che il mantenimento, e non soltanto l’affitto dei locali, richiedeva.
Laboratorio politico e culturale unico nel suo genere” è stata definita l’esperienza del Buon Pastore in un comunicato stampa della Regione Lazio dello scorso dicembre, in cui si annunciava un contributo straordinario di 90 mila euro per il sostegno ai servizi di consulenza di tipo legale, psicologico e per la genitorialità messi in atto dalla Casa Internazionale delle Donne, riconoscendole di “rappresentare per le donne di Roma, in Italia e per le visitatrici straniere un punto di riferimento certo”. La giunta Zingaretti, intervenendo economicamente, entrava di fatto a far parte di un tavolo di discussione che sembrava disponibile al dialogo: poche settimane prima, infatti, il Comune di Roma, in un comunicato stampa, dichiarava che grazie a “un confronto aperto e costruttivo” era possibile “arrivare a una soluzione condivisa”. Il comunicato stampa del Campidoglio chiudeva l’incontro del 13 novembre 2017 fra le rappresentanti della Casa Internazionale delle Donne e l’assessora al Patrimonio, Rosalba Castiglione, l’assessora alle P.O. Flavia Marzano e la dirigente dell’assessorato al patrimonio Stefania Grassia. 

Poi il cambiamento di strategia e di prospettiva da parte del Comune che ha trasformato la Casa Internazionale da laboratorio politico e bene comune in bene immobiliare. 

È di questi giorni la mobilitazione di moltissime donne e moltissimi uomini contro la decisione della sindaca Raggi di riallineare il progetto alle moderne esigenze dell’Amministrazione – ovvero quelle di risanamento del bilancio comunale – e contro la minaccia di sfratto. 

Irene Giacobbe, ‎Vicedirettora della rivista e presidente della Associazione e Testata on line POWER & GENDER, ricapitola i punti salienti della questione: 

La Casa Internazionale non costa niente al Comune, versa mensilmente all’amministrazione capitolina l’affitto che può: abbiamo versato dal 2003 circa 600.000 euro. La Casa mantiene e cura, con interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, che forse non le compete, un complesso immobiliare del 1600 che era abbandonato e condannato al degrado e per il quale sono stati versati affitti anche nel periodo di “occupazione” dello stabile.
Non ci sono debiti né con fornitori, né per le utenze o tasse comunali. La Casa dà lavoro, versa i contributi INPS, accantona correttamente il denaro per le lavoratrici che sono impiegate stabilmente. Per il ruolo che svolge, che ha svolto e che continuerà a svolgere può essere inserita tra gli enti che possono fruire dell’utilizzo dei locali in comodato d’uso, in base ad una legge nazionale sul volontariato votata nel 2015.

Dopo la riunione del 21 maggio tra le rappresentanti della Casa Internazionale delle Donne e il Comune, il confronto si è fatto più teso e, come afferma Irene Giacobbe, intorno al Campidoglio si è alzata un’aria tossicaquella della misoginia e del potere patriarcale, che inquina da millenni menti e cuori. La Casa immette nel respiro di Roma la consapevolezza di sé e della propria storia, delle lotte che hanno portato a migliorare la vita di tutte le donne; non è un polline miracoloso che viaggia nell’aria e che respiriamo tutte, ma è la speranza per tutte di un respiro vitale.

La Regione Lazio si schiera nuovamente a fianco del Buon Pastore, come dichiara Marta Bonafoni: 

In questa battaglia a difesa della casa Internazionale delle Donne c’è innanzitutto il riconoscimento di quel luogo come uno spazio di autonomia politica delle donne di straordinaria importanza. Un valore non computabile con metodi ragionieristici. Poi arriva la questione del rientro dal debito, sulla quale la Casa ha già proposto un piano puntuale di fattibilità, che tiene ovviamente conto del valore sociale ed economico dei servizi sociali e culturali attivi nel Buon Pastore. Su entrambi questi aspetti la Regione è a fianco della Casa Internazionale delle Donne e farà la sua parte”.

Dalla stessa parte stanno le migliaia di persone che hanno partecipato alle assemblee pubbliche e alla manifestazione di lunedì scorso in piazza del Campidoglio, durante la riunione fra la sindaca Raggi e le rappresentanti della Casa Internazionale. 

Molta la determinazione a non fare passi indietro, a non arrendersi, a difendere i progetti femminili e femministi messi in atto in questi anni dalle tante realtà associativi all’interno della Casa. Determinazione accompagnata dalla grande ironia con la quale le donne e gli uomini, ai piedi del Palazzo Senatorio, apostrofavano Virginia Raggi:

 A te le pecore, a noi il Buon Pastore”.




Itinerario religioso attraverso un dannato

Giusi Sammartino

Freud dice che in Dostoevskij coesistono lo scrittore, il nevrotico e il moralista e il peccatore. Dunque chi pensa che Dostoevskij sia un uomo e soprattutto un artista religioso, intendendo questo termine nella sua accezione più “chiusa” di voce fedele della chiesa ortodossa, ha certamente dimenticato di leggere “tutto” Dostoevskij, in tutti i suoi risvolti e contraddizioni che ne fanno, infine, la sua grandezza.

Dostoevskij è il più anarchico dei credenti, la sua è soprattutto una religione del Cristo la cui apologia è scritta per mano di uno dei suoi più riusciti personaggi “doppi” e dannati” all’interno de I fratelli Karamazov, un autentico piccolo capolavoro nel capolavoro, intitolato da Ivan Fedorovic Karamazov, vero ideatore del crimine contro il padre, La leggenda del Grande Inquisitore. Un Cristo come portatore del “pane celeste” che rischia una nuova condanna a morte per non aver dato al popolo quello che si aspettava: il pane terreno che lo fa vivere biologicamente.

A Dostoevskij interessa una religione basata su un concetto tutto rinascimentale dell’universo. Una religione dell’uomo che direttamente porta a quella del Dio-uomo con tutte le sue implicite possibilità di “tentazioni” nel deserto e delle conseguenziali scelte verso l’uomo-Dio.  “Cristo è contraddizione”, questa è la definizione che più affascina lo scrittore russo perché più consona al suo modo di concepire l’uomo. Infatti, la complessità dell’autore di Delitto e castigo è proprio nel concetto di ambiguità. Per questo scrittore si è parlato di “polifonia” e questa complessità di voci, che poi vengono a comporre i suoi romanzi, non esiste al di fuori di lui, uomo, ma in lui stesso. Facilmente, attraverso i suoi personaggi, si potrebbe arrivare di nuovo a quelle quattro definizioni (che sono poi a loro volta moltiplicabili) date da Freud, il padre della psicanalisi.

È in un periodo immediatamente precedente a Freud che Dostoevskij intuisce la complessità dell’animo dell’uomo e della sua coscienza, che sfoga sempre nell’ambiguità. “L’uomo è troppo complesso, io l’avrei fatto un pochettino più semplice”, dice Dmitrij Fedorovic Karamazov ad Alesa, contestando, con un po’ di ironia, davanti al religiosissimo fratello, la pretesa perfezione della creazione divina.

Nei personaggi dostoevkiani c’è sempre questo tormento causato da una lacerazione. Dal vero e proprio “sosia” dell’omonimo romanzo, egli crea L’uomo del sottosuolo: qui la lacerazione non è concretizzata in uno stacco, ma rimane nell’uomo stesso che si rifugia nel suo “cantuccio, un tema che ricorrerà in uno degli ultimi romanzi, L’Adolescente, che dialoga con il suo “sottosuolo”.

La serie dei “sosia” non si esaurisce presto. Nei grandi romanzi questa figura si fa addirittura “altro” nel senso più concreto che possa avere questo termine. Proprio con Ivan Karamazov ci mostrerà la vera definizione di questo “doppio” dell’uomo. Ivan Fedorovic avrà addirittura due “sosia”: il servo-fratellastro Smerdiakov e il diavolo! Nelle sue allucinazioni, nella notte antecedente il processo, Ivan rinfaccia al Demonio di essere la sua parte peggiore. Definisce così il “sottosuolo” e la parte svolta dal “sosia”. “L’uomo del sottosuolo” tenta di ribellarsi al suo “cantuccio”. Ma c’è una forza centripeta, quella che poi sarà descritta come la “forza dei Karamazov”, che lo respinge di nuovo nella stessa direzione. 

Dostoevskij, innamorato di Raffaello fino a farne un ideale, ama anche Shakespeare e vede in Tiziano la pienezza del messaggio pittorico. Così è chiaro che quella dicotomia, quella sofferta lacerazione presente nei suoi personaggi è soprattutto in lui. Forse, o molto probabilmente, tra le cause gioca un ruolo importante l’epilessia determinata dal parricidio o dalla grazia ricevuta dopo la condanna a morte, quando lo scrittore era già stato legato e incappucciato.  Per dirla con Freud, in proposito si parla di “isteroepilessia” e non di una epilessia vera e propria originata da una ferita nel cervello. André Gide parla dei grandi epilettici e dei grandi “malati” della Storia e osserva che “alla base di ogni grande riforma morale c’è sempre un piccolo mistero fisiologico, un’insoddisfazione della carne, un’inquietudine, un’anomalia”.  Gide ricorda che Maometto era epilettico e che lo erano i profeti d’Israele. Che Socrate aveva un demone e San Paolo la famosa “scheggia nella carne”, Pascal la sua voragine e Nietzsche e Rousseau la loro follia. Per Gide è come se il genio fosse determinato da una profonda sofferenza, dal fatto di aver acconsentito a essa. Un amico, parlando allo scrittore francese dall’America scrive: “ È per questo che l’America non ha ancora un’anima” e – spiega – noi sappiamo che la letteratura tedesca, tutt’altro che priva di anima, conosce le profondità abissali di Faust, o che quella greca ha saputo darci con le sue tragedie, un “terribile inno” alla sofferenza e al dolore. 

Il peccato e la sofferenza necessaria a espiarlo sono anche per Dostoevskij necessari perché l’uomo senta il potere e lo spazio della propria libertà. “Più di ogni altra cosa ti fu cara la loro libertà”, dice il Grande Inquisitore a Cristo additandolo come causa della sofferenza dell’uomo. Questi, secondo lo scrittore russo, si è trovato a scegliere tra il Cristo, Dio-uomo, e la proclamazione di se stesso come uomo-Dio, tema che nell’opera di Dostoevskij si specificherà nella figura di Kirillov ne I Demoni.  Il tema del “superuomo” si preannuncia in tutta la sua forza dirompente, in tutto il suo conflitto, nell’intera opera dostoevskiana e si può ben dire che Dostoevskij ne sia il precursore. Si è parlato di cristianità dei due autori, il russo e il tedesco, proprio in quanto religione del Cristo, perché Cristo entra pienamente sia nell’opera di Dostoevskij che in quella nietzschiana: “Nietzsche – scrive Gide – è geloso di Cristo”. Per questo crea un suo anticristo, per distruggere il Dio-uomo crea un uomo-dio, un altro dannato appassionatamente credente!

Affascina ricordare, riferendoci a una tradizione culturale, a Lucifero, l’angelo ribelle che si prostra a Dio, soprattutto quello delle prime pagine del Faust.

Dostoevskij, che aveva aderito al circolo di Petrasevskij e che per questa sua partecipazione ebbe la famosa condanna, non dimentica la sua esperienza giovanile di aderenza al socialismo utopistico di Fourier. È vero che egli combatte aspramente il socialismo e lo mette sullo stesso piano della Chiesa di Roma perché, come questa, toglie all’uomo la libertà e lo fa umile servo dei suoi bisogni più immediati, ma parla anche di un “socialismo russo” come di un “Cristo russo”. Dopo la terribile esperienza della “casa morta”, cioè della prigione siberiana, Dostoevskij traspone in Cristo la sua “utopia”, perché lo sente completo, con più possibilità di libertà. È questo che interessa, più di ogni altra cosa, Dostoevskij, anche quando parla ripetutamente della Madonna Sistina di Raffaello ne I Demoni, quando dice che “la bellezza salverà il mondo” e che bisogna preferire Shakespeare a un paio di stivali, Raffaello al petrolio. E soprattutto in molte pagine dei suoi Taccuini ci parla sempre dell’uomo e lo pone al centro dell’universo perché possa scegliere “il pane celeste” a quello meramente “terreno”. 

 




Parole O_Stili – 7 maggio: chiusura iscrizioni al secondo convegno nazionale

Di Sara Marsico 

7 maggio 2018 – Save the date! Da questa data sarà possibile iscriversi al Secondo Convegno nazionale di Parole O_ Stili, che si terrà a Trieste il 7 giugno.  L’associazione che ha dato origine al Manifesto della comunicazione non ostile e che si propone di diffondere le buone prassi nella comunicazione, soprattutto tra gli utenti di Facebook, Twitter, Instagram e affini, ha scelto un titolo che va controcorrente rispetto all’aggressività verbale dei nostri media, non solo quella dei social. Le parole non devono servire per dividere, ma per unire. Sono portatrici di un potere squisitamente femminile, il potere di unire, come ci ricorda in un suo bel saggio la filosofa Elena Pulcini. Una bella sfida, in questo mondo di haters!

“Parole O_Stili è un’associazione no-profit, nata a Trieste nel luglio del 2017; vuole sensibilizzare, responsabilizzare ed educare le/gli utenti della Rete a praticare forme di comunicazione non ostile, e vuole promuovere la condivisione dei valori espressi nel “Manifesto della comunicazione non ostile”(dal sito web di Parole O_Stili), decalogo che ha avuto il patrocinio del Miur ed è stato distribuito in tutte le scuole italiane. Recentemente il Miur ha anche firmato un Protocollo con l’ATS Parole O_Stili per “promuovere una cultura della rete non ostile che sia propedeutica a una maggiore consapevolezza dell’utilizzo degli strumenti digitali, funzionali alla costruzione di un vero e proprio diritto alla cittadinanza digitale.”

Come al solito, se alla distribuzione di un testo tanto importante non si accompagna una formazione docente, si corre il rischio che il suo messaggio passi quasi inosservato. E la giornata destinata alla scuola (“Parole a scuola”) c’è stata: il 9 febbraio di quest’anno, all’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano, è stato presentato alle/agli insegnanti questo Manifesto, accompagnato da un numero notevole di incontri di approfondimento, a cui ci si poteva iscrivere. 

Sono intervenuti sociologi, docenti, psicologi, giornalisti, scrittori. Ecco, già mentre sto elencando i relatori di questo Convegno mi accorgo che c’è qualcosa che non va. Uso l’universale maschile ma chi mi legge capirà che c’erano molte relatrici donne? Sto rappresentando fedelmente chi era presente e quello che ho visto e ascoltato?

Foto 1. Un’astronauta

Nell’incontro di apertura del Convegno, a una platea composta prevalentemente da donne, ma in cui gli uomini erano una nutrita rappresentanza, la ministra Valeria Fedeli si è rivolta alla platea declinando ogni termine al femminile. I commenti tra il pubblico maschile non si sono fatti desiderare: si è percepita una sorta di disorientamento, di spaesamento, un mormorìo neanche tanto soffuso, sintomo di uno stupore generale, anche tra molte delle donne presenti. Si è trattato naturalmente di una provocazione, tesa a stimolare in modo diretto alcune riflessioni sull’uso della lingua e in particolare del linguaggio di genere. 

Sarebbe importante, per questo secondo incontro, che un gran numero di partecipanti raccogliesse l’invito utilizzando con grande attenzione, visibilità e persistenza il linguaggio corretto, come indicato dall’Accademia della Crusca, e rispettoso del genere.

Foto 2.  L’Accademia della Crusca scrive…




Viaggiatrici. Le tournée di Clara Schumann Wieck

Di Federica Chmielewski

 

In un contesto culturale e sociale come quello del XIX secolo dove l’ambito della musica era prevalentemente riservato agli uomini, sono riuscite a distinguersi grandi esecutrici e compositrici, tra le quali emerge la figura di Clara Wieck.

Clara è una donna determinata: pianista, compositrice, manager di se stessa e del marito Robert, insegnante, madre di otto figli e artista completa che riesce a calcare con successo i più grandi palcoscenici d’Europa per sessant’anni.

Figlia di un musicista, comincia molto presto la sua carriera di pianista, tanto da essere considerata “Wunderkind”, una bambina prodigio, e, successivamente, la più grande pianista dell’Ottocento.

I segni di modernità e di indipendenza sono da ricondurre ai suoi genitori: sua madre non rinunciò mai alla sua carriera di insegnante di musica, sebbene dovesse conciliare il suo lavoro con il ruolo di madre e governante di casa; suo padre, Friedrich Wieck, insegnante di musica ambizioso e molto severo, accetta il divorzio dalla moglie ma non vuole rinunciare alla figlia Clara, che nei piani del padre, avrebbe dovuto essere la rappresentazione vivente degli esiti positivi del suo metodo didattico.

Friedrich introduce la sua figlia prediletta allo studio della musica; la sua mente aperta e orientata al successo induce Clara a intraprendere il primo viaggio musicale già nel 1831-32 a Parigi, all’età di 12 anni; pur essendo ancora una bambina, il papà è cosciente che la figlia non deve essere considerata un genio solo perché ancora molto giovane ma ha intenzione di formare una pianista solida, virtuosa e improvvisatrice. A partire dalla sua prima tournée (durata 4 mesi e mezzo) la vita di Clara è scandita da continui viaggi in Germania e all’estero; ciò le permette di visitare città, di esibirsi e di incontrare personalità di spicco come Johann Wolfgang von Goethe, il quale, in occasione di un suo concerto a Weimar, rimane talmente colpito dalla giovane Clara da inviarle un biglietto di ringraziamento e una medaglia di bronzo che lo ritraeva.

Durante il viaggio che l’avrebbe condotta a Parigi, Clara si esibisce non solo a Weimar ma anche a Erfurt, Gotha, Arnstadt, Kassel, Francoforte sul Meno e Darmstadt; malgrado il grande lavoro da impresario e la precisa organizzazione del padre nella prima tournée non sembra aver dato alla famiglia la soddisfazione attesa da un progetto così grande per una musicista così giovane. Ciò non scoraggia Wieck, che tra il 1834 e il 1835 progetta una seconda tournée; nell’inverno del 1835 Clara si esibisce con grande successo ad Hannover con 5 concerti, a Magdeburgo, Schönebeck; Halberstadt, Brunswick, Brema, Amburgo.

Clara Wieck at the age of 16, in Hannover, Germany. On the piano is the solo part of the third movement of her Concerto op. 7. Lithograph by J. Giere, 1835.

FOTO 1. Clara Wieck all’età di 15 anni. Litografia di Julius Giere, 1835 conservata presso la “Robert-Schumann-Haus”, Zwickau

A poco a poco Clara Wieck da promessa della scena musicale europea diventa concertista acclamata e prosegue i suoi viaggi negli anni successivi: nel febbraio del 1837 la sua tournée parte da Berlino, prosegue poi a Praga, dove, alla fine del primo dei 3 concerti in programma, viene chiamata sul palcoscenico ben 13 volte ad accogliere il plauso del pubblico. La sua tournée approda a Vienna, dove rimane 6 mesi.

Il soggiorno viennese la consacra tra i più grandi virtuosi del tempo, Clara regge il confronto con musicisti quali Thalberg, Henselt e Liszt; l’autore Franz Grillparzer, che aveva tenuto l’elogio funebre ai funerali di Beethoven, le dedica un componimento nella Wiener Zeitschrift; a Vienna scoppia una “Clara-Wieck-Fieber” tanto che alcune pasticcerie della città partecipano a un concorso per la creazione della migliore “torte à la Wieck”. In tutto questo l’apoteosi della sua grandezza è data dalla nomina a “Kammervirtuosin” (pianista di corte imperiale) da parte dell’imperatore Ferdinando I.

La scelta da parte dell’imperatore non è scontata poiché Clara è donna, straniera in territorio viennese e protestante in un impero cattolico.

Nel 1839 Clara Wieck affronta uno scontro molto accesso con il padre a causa del suo fidanzamento con Robert Schumann, ex allievo di Friedrich Wieck, e parte per la prima volta da sola per un secondo viaggio a Parigi.

Terminata questa prima fase della sua carriera, il secondo grande periodo di viaggi e tournée coincide con l’inizio della vita matrimoniale con Robert Schumann e con i concerti con lui intrapresi.

Testimonianze dirette sono riscontrabili in un diario che i due coniugi cominciano a scrivere il giorno del loro matrimonio e dove sono annotati momenti quotidiani della loro vita familiare e considerazioni sui luoghi, i concerti, e le personalità conosciute in occasione di alcune tournée.

Sono particolarmente interessanti i racconti dei viaggi che Clara descrive minuziosamente, caratterizzati talvolta da un tono critico e pungente a causa di contrattempi e disagi; la sua narrazione della Svizzera Sassone, ad esempio, con i suoi paesaggi rocciosi e i suoi castelli caratteristici è solo la prima di una lunga serie.

La sua vita quotidiana la pone di fronte alla ricerca continua di un equilibrio tra i suo ruoli di pianista, madre e moglie:

“Vorrei davvero viaggiare, quest’inverno e anche il prossimo, e poi lasciare il pubblico, tornarmene alla mia vita di casa e dare delle lezioni. Potremmo vivere senza problemi – pensaci ancora una volta davvero seriamente, mio caro marito” (Schumann R., Wieck C.; Casa Schumann, Diari 1841-1844, EDT, Torino, 1998, p. 25.).

Non sempre riesce nell’intento, tanto da scrivere con evidente rammarico che si trova costretta a non poter studiare la mattina per non disturbare l’attività lavorativa del marito.

Schumann, dal canto suo, si rende conto della difficoltà della moglie di conciliare vita privata e carriera musicale, si chiede cosa pensi il mondo di una coppia così anticonformista per il periodo e non vuole che Clara rinunci al proprio talento tanto da pensare a una soluzione estrema:

“E tu dovresti […] lasciare inutilizzato il tuo talento perché io sono incatenato alla mia rivista o al mio pianoforte. Proprio ora che sei giovane, fresca e piena di energia? Abbiamo trovato una soluzione. Tu hai un’accompagnatrice e io sono tornato a casa dalla bambina e al mio lavoro. Ma cosa dirà il mondo? Questi pensieri mi tormentano. Bisogna che troviamo il modo di utilizzare e sviluppare parallelamente i nostri talenti. Sto pensando all’America” (Ivi, p. 94).

In realtà due non andranno mai oltreoceano ma, nonostante le difficoltà, la carriera di Clara prosegue e, oltre alle numerose esibizioni in Germania, la pianista intraprende diversi viaggi all’estero: a Copenaghen, ad esempio, città che entrambi i coniugi descrivono da due punti di vista differenti nel loro diario.

Le narrazioni di Clara dei viaggi sono sentite, particolarmente dettagliate e suggestive, come nel viaggio di ritorno in Germania dalla Danimarca:

“Il viaggio è stato meraviglioso, la nave procedeva quasi immobile. Per dieci ore rimanemmo all’ancora a causa della nebbia, ma la mattina vedemmo l’aurora più incantevole che mai, proprio mentre giungevamo davanti all’isola di Möhen” (Ivi, p. 111).

Nel 1844 Clara si esibisce in una tournée in Estonia, in particolare a Riga, durante la quale non sembra essere particolarmente felice del gusto musicale degli estoni; da Riga la coppia si dirige in Russia.

Nel diario Clara descrive le peripezie del viaggio, i numerosi incontri, i successi dei concerti, i paesaggi innevati e le temperature gelide; lo fa sempre in modo preciso senza risparmiare critiche taglienti nei confronti di alcuni personaggi o episodi piacevoli:

“In Russia, la gente ricca e potente possiede certo una pazienza infinita, se dopo un intero concerto si adatta ad aspettare ancora per ore la propria vettura – a queste condizioni, nessuno mi trascinerebbe ad un concerto”.

Nel Diario si può evincere che Clara entra in contatto con diverse tradizioni, costumi e contraddizioni, scopre così che alcune maniere che considera inizialmente atteggiamenti bruschi sono, in realtà, solo usi a lei sconosciuti:

“Molto sconcertante fu per me il fatto di non ricevere mai, a Mosca, visite di signore della noblesse. […]. Questo mi colpì e mi offese non poco, poiché non ero abituata a un simile comportamento. […] Più tardi, Rheinardt mi spiegò che a Mosca non si usa far visita a donne che esercitino un’arte: non lo si fa mai” (Ivi, p. 208).

Malgrado le difficoltà della vita di tutti giorni con una famiglia numerosa e un marito fragile fisicamente e mentalmente, Clara Wieck Schumann prosegue la sua carriera da concertista; ciò le offre la possibilità di sostenere il bilancio famigliare anche quando la malattia di Robert comincia ad aggravarsi: esegue concerti in tutta la Germania (Francoforte, Amburgo, Altona, Lubecca, Brema, Berlino, Breslavia, Lipsia…) per poi spostarsi in Olanda.

Nel 1856 Clara Schumann, subito dopo la morte di Robert, supera i confini continentali e si esibisce in ventisei concerti in diverse città tra cui Londra, terza capitale musicale europea del XIX secolo, dopo Parigi e Vienna, Manchester, Liverpool, e Dublino. Cominciano gli anni che Berthold Litzmann, biografo della Schumann, definisce “Wanderjahre”, “gli anni di vagabondaggio”, in cui la pianista calca instancabilmente i più importanti palcoscenici d’Europa mantenendo e confermando il suo talento. Seguono poi diversi viaggi in Inghilterra tra il 1857-1859 e il 1866-1888, soprattutto con l’intento di assicurare una vita dignitosa ai suoi figli rimasti in Germania.

In conclusione, la carriera di Clara si è sviluppata in particolare in territorio tedesco, mitteleuropeo, olandese, belga e inglese con alcuni rilevanti episodi in Russia e Danimarca. Benché non ci siano testimonianze dirette della grandezza delle esecuzioni di Clara Schumann Wieck in incisioni sui rulli di cera, la sua figura è rilevante ancora oggi poiché ha contribuito profondamente a scardinare le vecchie tecniche pianistiche, le idee e i preconcetti sulla figura femminile in ambito artistico, realizzando ciò a cui ha sempre aspirato con costante impegno, ostinazione e determinazione.

FOTO 2. In omaggio alla grandezza di Clara Wieck Schumann, la sua immagine fu impressa sulla banconota da 100 marchi tedeschi

FOTO 3. Roma. Un viale a lei dedicato all’interno della Villa Pamphili

 




La lezione di Ripellino. Un poeta in cattedra

Di Giusy Sammartino

(Palermo 4 dicembre 1923 -Roma 21 aprile 1978)

A quaranta anni dalla morte

I poeti, non quelli che scrivono in versi, ma quelli che vivono la vita da poeti, credi di incontrarli solo dentro una fiaba, vestiti di uno scuro mantello colore del cielo notturno. Oppure, chissà, forse anche girovaghi, al seguito di qualche compagnia di teatranti. E invece un giorno ti capita di incontrarne uno sul serio, di essere stata alunna di Angelo Maria Ripellino, di averne ascoltato le lezioni, di essere interrogata da lui agli esami. Allora capisci che i sogni si possono avverare e che quel poeta è lo stesso incrociato proprio in un suo libro, il protagonista di uno dei più malinconici racconti di Storie del bosco boemo.

Ala fortuna della conoscenza accademica si è aggiunta poi per me quella di aver incontrato anche una parte della vita privata, quando, per scrivere un articolo, in occasione dei cinque anni dalla sua morte, sono stata nella sua casa di via Angela Merici, a un passo da piazza Bologna, dietro la sopraelevata, non lontano dalla “Sapienza” dove lui ha insegnato succedendo a un altro insigne slavista, Ettore Lo Gatto, del quale Ripellino teneva sul tavolo rispettosamente la fotografia incorniciata.

Incontrando la moglie Ela Hlochova (morta anche lei, circa otto anni fa, grande compagna di traduzioni, oltre che di vita, da tanti poeti boemi), durante un piacevolissimo pomeriggio a parlare di ricordi ho visto la sua enorme leggendaria libreria, i quadri dei suoi grandissimi amici pittori e, infine, ho avuto il regalo più bello, sognato da sempre, di vedere il manoscritto di Praga magica, uno dei suoi libri più noti e più amati, una sorta di guida turistico-intellettuale per una città piena di mistero e di storie. Un manoscritto voluminoso, rigorosamente vergato a pennarello verde, scritto con quella sua caratteristica grafia chiarissima e grande che eravamo abituati a vedere a lezione.

Dai racconti di Ela Ripellino ho trovato quello che già immaginavo. Ho rivissuto le volte che da studentessa ho visitato Praga attraverso le pagine della sua magia. Tutte le volte che ho conosciuto poeti e pittori grazie alle sue storie letterarie o ho incontrato registi e attori (la Kommisarzevskaja) nei teatri di Mosca e di Praga che allora potevo solo immaginare!

Come tutti i poeti Ripellino aveva un dono, quello di trascinare, di coinvolgere con la passione del vivere “forte”, in prima persona. I suoi corsi monografici (che nostalgia dell’università di allora!) erano una corsa giullaresca e vivace tra le righe dei poeti, siano essi Puskin, Pasternak, Mal’destam o Majakovskij. Tutti li sapeva straordinariamente a memoria. Me li ha fatti amare attraverso i mille richiami all’arte, alla vita reale (indimenticabile la proposta di una tesi sulla presenza delle insegne di negozi nella letteratura russa) e persino alla scienza, sempre a tutto tondo, sempre con rigore. Ricordo la sua ultima venuta in facoltà, all’istituto di slavistica, al primo piano di Lettere e Filosofia. Era sempre ad aprile, pochi giorni prima della sua morte, quasi a richiamare ancora i versi di Majakovskij: “Io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta fino a maggio/ e della mia vita passata c’è solo il centesimo aprile” (La nuvola in calzoni).

Ci ha riuniti (dovrei dire riunite per la squisita femminilizzazione della partecipazione ai suoi corsi e agli studi di slavistica) e ci ha “letto” a memoria alcuni versi del suo amico Boris Leonidovic Pasternak che chiamava, commosso, con nome e patronimico. Aveva portato i versi del poeta russo in Italia, era andato, in compagnia del poeta Evtusenko, a trovarlo nella sua dacia di Peredelkino ridendo allo scherzo del suo accompagnatore che lo aveva presentato come un “poeta georgiano” giocando sui suoi tratti apparentemente asiatici, ma realmente più attinenti al barocco della sua Palermo. Quel giorno recitando i versi sulla vecchiezza di B. L. Pasternak abbiamo sentito tutta la sua commozione e il suo rimpianto di stare per lasciare la vita, lui che anagraficamente era ancora giovane (appena cinquantaquattro anni) e con un animo di grande poeta.

Il dubbio di non essere riconosciuto poeta lo tormentava, ossessione di essere puntato a dito e costretto a difendersi: “Slavista!  mi gridano donne con frappe sul capo/ e con fettucce e fleurettes e crauti e baubau/ Slavista! Mi assalgono omini violacei/ con scrofole e nasi da Ostenda”. E in una completa rivolta di luoghi e oggetti che gli vanno contro aggiunge: “Slavista! Mi gridano i fiumi di piazza Navona. Slavista! Mi gridano da un carro funebre/ gonfio come una torta dai riccioli d’oro” (Notizie dal diluvio).

E invece Angelo Maria Ripellino è stato soprattutto un poeta e da poeta ha affrontato la cultura slava che ha amato profondamente in tutte le sue diramazioni nazionali, dalla Russia alla Boemia (ma qui gli fu fatale la sua presa di posizione della Primavera, nonché la sua ingenuità), la Polonia, la Bulgaria. La sua critica, i suoi testi non sono mai distaccati e tediosi e si leggono sempre con la fantasia con la quale si legge un romanzo intrigante. Altrimenti, senza questo intrigo, che coinvolge a capofitto il lettore, decisamente la sua scrittura non si capisce.

Come Baudelaire, Ripellino ha amato più l’inferno che il paradiso. Ha preferito essere “della stirpe dei demoni e dei giocolieri” che “angelo dalla faccia cotta”. In Sinfonietta scriverà: “Io viluppo di fiamme d’inferno, piromane e miccia”. E chi lo ha conosciuto e ha ceduto al suo fascino sa la veridicità di queste affermazioni. La mente va inevitabilmente a V.V. Majakovskij. Anche nel poeta russo c’è questa smania d’incendio, questo desiderio di violentare l’animo per vivificarlo, accendendolo. Molto in comune aveva Ripellino come Majakovsij e con tutta la cultura slava, una sorta di filiazione, di coinvolgimento culturale culminante in un vertice che per lui era il triangolo barocco Palermo- Roma-Praga.

Praga è da Ripellino città amata e sofferta cui rimane visceralmente legato. Come dimenticare le ultime pagine, sempre di Praga Magica!Sono un urlo di disperazione, ma anche un atto d’amore incommensurabile: “Dovrei dirle mi sono stuccato di te capitale Boema. E invece le dico: voglio essere ancora tuissimo, mio Schicksal, mia follia. Voglio che mi si proverbi come matto di Praga. Ripeterò le parole di Nezval: <Il tempo fugge e io vorrei dire ancora molto. Il tempo fugge e di te ho detto poco sinora –. Il tempo fugge come una rondine e accende le vecchie stelle su Praga. Come nel racconto di Kafka Primo dolorel’acrobata non vuole scendere più dal trapezio>. Questo amore per la capitale Boema non gli fa perdere la speranza, una speranza intrisa di angoscia in tempi bui cui l’autore fa cenno con il richiamo alla malinconica figura di Charlot proprio dell’ultima riga del libro.

Ricordo che lo salutai, in una limpida giornata di aprile bisbigliando tra me e me i versi di Pasternak, quelli che ci aveva recitato nella sua stanza d’istituto: “La vecchiezza è una Roma/ che invece di ciarle e di ciance/ non prove esige dall’attore/ ma una completa autentica rovina”

Mi piacerebbe che davanti a un suo ritratto, a lui che ci ha fatto viaggiare nel meraviglioso, che ci ha fatto conoscere la cultura, e non solo quella slava, dall’ottica antiaccademica della felicità, chi lo ha amato e conosciuto dicesse, come quel padre che ha issato sulle spalle il figlio indicando il corpo di Majakovskij, un padre dicesse al proprio figlio, “Lo vedi, quello è Ripellino!”.

Io vorrei che mia figlia, dopo tutto quello che le ho raccontato di lui e quello che ormai ha anche letto e amato, citando i versi dedicati da Maria Luisa Spaziani possa dire: “Mia madre mi ha lasciato un carillon magico, una boite à surprise, una chicca, un codice angelico, il verde/ unico stradivari superstite firmato Scardanelli”.

In copertina: Anna Dall’Agata, Angelo Maria Ripellino, Pineto, 1983




Le parole per dirlo. Toponomastica femminile Noto/Avola e il silenzio delle donne

Vera Parisi

Riflettendo su un tema che unifichi e metta insieme le tante attività di Toponomastica femminile del gruppo Noto/Avola, penso che il leitmotiv sia il silenzio delle donne e la nostra mission dare loro le parole per narrarsi. Cosa hanno fatto, qual è stato il loro vissuto, raccontare le storie e cercare di cogliere ed esprimere la forza emotiva che rende incisive e pregnanti quelle parole, è un arduo compito che si rivela sempre di più legame sororale di un circolo virtuoso di amiche e compagne.

Questa esperienza comune è diventata quest’anno formazione per docenti. Il gruppo ha partecipato al corso di formazione, piattaforma Sofia, “Educare al rispetto e alla consapevolezza di genere: strategie di intervento e cambiamento”, organizzato dall’ASP – GAOP e dall’ASL USR Sicilia – A.T. Siracusa. 

FOTO 1. Laboratorio di Toponomastica femminile – Corso di formazione docenti “Educare al rispetto e alla consapevolezza di genere

FOTO 2. Raccontiamo di donne con il kamishibai – Corso di formazione docenti “Educare al rispetto e alla consapevolezza di genere”

FOTO 3.La prof.ssa Graziella Priulla incontra le/i docenti – Corso di formazione docenti “Educare al rispetto e alla consapevolezza di genere”

Attraverso interventi e guidando un laboratorio di Toponomastica femminile, l’esperienza si è rivelata coinvolgente e altamente formativa, soprattutto il lavoro sui pre-giudizi ha favorito consapevolezza personale e dinamiche di confronto e crescita per tutte noi. In questo progetto siamo state coinvolte anche come docenti corsiste e abbiamo prodotto, a conclusione dell’iter formativo, progetti in rete tra le scuole del territorio che verranno realizzati nel prossimo anno scolastico. Le toponomaste che operano nelle scuole di Noto lavoreranno al progetto “Senza chiedere il permesso”, quelle che operano ad Avola si occuperanno di “Donne e lavoro”, il tutto in perfetta continuità con i progetti di Toponomastica femminile presenti nelle nostre scuole.

FOTO 4. Sezione del progetto “Senza chiedere il permesso” del gruppo Noto – Corso di formazione docenti “Educare al rispetto e alla consapevolezza di genere”

Altra bella esperienza appena iniziata: Toponomastica femminile è entrata nella rete delle Associazioni che è presente nel comune di Avola. Prima attività della rete a cui abbiamo partecipato è stata la piantumazione di 21 alberi, olivi e carrubi, in uno spazio ampio al centro di un quartiere popolare della città. D’accordo con il Sindaco dott. Cannata e la Giunta comunale, saranno intitolati alle 21 madri costituenti, naturalmente coinvolgendo in questa attività scuole e cittadinanza.

  1. FOTO 5. I momenti dell’evento che ha coinvolto anche Toponomastica femminile – Piantumazione di alberi da intitolare alle Madri della Costituzione

Non dirò/diremo mai grazie abbastanza alla nostra Presidente Maria Pia Ercolini, che ci coinvolge insistentemente nelle attività di Toponomastica femminile, come la realizzazione della mostra “Viaggiatrici”. Il gruppo Noto/Avola ha progettato tre pannelli: Viaggi di nozze, Il caso: la fuitina (foto di copertina) e Il caso: le caminanti di Noto. Lavoro intenso e pesante che ci ha permesso di coinvolgere non solo tutte noi, ma le nostre famiglie, amiche e amici, gli ambienti di lavoro. È stato bello, emozionante, anche commovente, condividere racconti, foto, storie e scoprire particolari, vicende del vissuto delle nostre mamme, sorelle, amiche, tirare fuori dal silenzio donne e storie nascoste, mettere a nudo le nostre radici. Scoprire che è catartico, liberatorio, entusiasmante trovare “le parole per dirlo” e avere conferma di quanto le nostre donne siano resilienti, ha reso questa esperienza fonte di crescita personale e dell’intero gruppo.

E il lavoro nelle scuole. A 360° per il “Matteo Raeli” è stata l’operazione “Giardino delle Giuste e dei Giusti”, non solo perché permette di coinvolgere ragazze e ragazzi di indirizzi di studio molto diversi fra loro, ma anche perché vede crescere un luogo fisico della scuola che diventa topos della memoria, della cura, della bellezza, della ricchezza identitaria di una comunità realmente educante.

Ancora i lavori per il concorso “Sulle vie della parità”.

FOTO 6. “Il Giardino delle Giuste e dei Giusti” del “Matteo Raeli”

L’inizio della costruzione di itinerari femminili nella città di Noto: “Storie di donne e di luoghi”. La storia di Isabella Rau della Ferla, intrecciata a quella della basilica del SS. Salvatore, espressione del profondissimo intreccio tra luoghi, opere architettoniche, vissuto personale. I luoghi parlano e ci raccontano l’intreccio di relazioni umane, di storie. Queste storie sono registrate in documenti e monumenti, sono narrate con ogni genere di materiale, sono visibili in oggetti d’uso e opere d’arte. Le opere d’arte, poi, sono capaci di permanere nel mondo, di sfidare il tempo, di rendere immortali.

L’intitolazione di un’aula del Liceo Classico alle Donne che “hanno sfidato la mafia”: protagoniste in più ruoli, poliziotte, magistrate, testimoni di giustizia, madri, mogli, sorelle, il loro sacrificio viene quasi sempre oscurato dalle figure maschili. Eppure, queste donne ribelli (così le definisce Nando Dalla Chiesa), andando oltre gli stereotipi della Siciliana, emblema della sottomissione e del silenzio, o della matriarca custode e trasmettitrice dei “Codici” dell’onore e dell’omertà, hanno sfidato la mafia con quella forza che è propria dell’essere donna.

Altre ricerche sono in corso, progetti e nuovi itinerari che coinvolgono donne silenti. O perché oscurate dagli uomini della loro vita, o perché le sofferenze vissute le hanno isolate e il mondo le ha dimenticate, o perché la loro forza dirompente ha sconvolto equilibri familiari con cui ancora bisogna fare i conti, il loro silenzio ha bisogno di parole e noi proviamo a dare loro voce.