Cos’è Ariel: quattro chiacchiere con Simona Binni

Tunué, tredici anni di attività alle spalle, è una casa editrice specializzata in graphic novel, con uno sguardo particolare verso i lettori junior. Investe, oltre che nel fumetto, nel cinema, nell’animazione, nei videogiochi, insomma in qualunque motore che possa stimolare la curiosità e l’immaginazione. La parola stessa Tunué non ha un significato, è un suono, senza uno specifico rimando metaforico, simboleggia ciò che la casa editrice vuole apparire dall’esterno: una realtà senza identificazioni di genere, che possa trasportare il lettore in un mondo senza confini.

Attraverso un’accurata selezione degli autori, Tunué è diventata un punto di riferimento nel marcato italiano del fumetto.

Tra gli autori internazionali pubblicati dalla casa editrice troviamo Paco Roca e l’autore premio Oscar Shaun Tan.

È stata da poco annunciata l’uscita di una nuova collana in arrivo per il 2019, Ariel, con una chiara linea guida: quella di essere un luogo di incontro nel quale le autrici e gli autori possano raccontare i temi cari alle donne, nel tentativo di creare uno spazio dove mettere in comune un sentire

declinato al femminile.

La collana è stata ideata dal direttore editoriale Massimiliano Clemente, che ne ha affidato lo sviluppo tematico e il coordinamento artistico a Simona Binni, autrice Tunuè sin dal debutto.

Il nome scelto ci parla in qualche modo della collana: nella commedia shakespeariana, Ariel è lo spirito dell’aria, un personaggio privo di caratterizzazione sessuale. È proprio questa ambiguità a favorire l’immaginazione di un luogo metaforico di incontro tra il maschile e il femminile.

Ho intervistato la curatrice, Simona Binni, per scoprire qualcosa di più su questa collana in arrivo.

Hai iniziato a lavorare per Tenué come fumettista e ora sei editor di una collana di graphic novel: si parla sempre di raccontare storie, ma questa volta con il ruolo opposto. Tre buoni propositi per la collana?

Sicuramente in cima alla lista metterei il desiderio di arrivare a un pubblico più ampio possibile.

Sarebbe bello che le autrici e gli autori coinvolti si mettessero in discussione sul tema del femminile e fossero in grado, attraverso la loro creatività, di regalare a lettrici e lettori il frutto di queste riflessioni e del proprio sentire.

Io per prima vorrei leggere storie capaci di aprire nuovi orizzonti rispetto a quello che già penso o credo di sapere.

Si potrebbe definire una collana femminista?

No! Non credo si possa definire così. Non sarà una collana di genere, di donne, per le donne.

Ariel nasce come esigenza di riflessione sul tema del femminile, nel modo più aperto e onesto possibile e sono felice che il mio editore abbia sentito questa necessità. Da qui l’idea di creare un luogo di discussione aperto a tutti, autori e autrici, nel tentativo di ragionare in modo corale su ciò che sappiamo, pensiamo e sentiamo di questo argomento, veicolandolo attraverso le storie.

Saranno raccontate storie tratte da figure di donne reali o anche fiction?

Autrici e autori saranno liberi di proporci i loro progetti e avranno modo di spaziare, purché al centro rimanga una riflessione seria e personale sul tema portante della collana. Non è detto che per parlare di femminile si debba per forza raccontare solo storie di donne. È una tematica talmente vasta e complessa, che la si può trattare da infiniti punti di vista, con altrettante sfumature, così come bisogna fare attenzione alla banalità in cui si rischia di cadere, se non si comprende a pieno quest’ultima cosa.

Credo che sia davvero una bella sfida e lo dico da autrice!

Una domanda che sicuramente interessa coloro che lavorano o sognano di lavorare nel mondo del fumetto.

Sceglierai tu scrittori/scrittrici e disegnatori/disegnatrici per la collana o accoglierai anche proposte dall’esterno?

Entrambe le cose!




Le architetture fantastiche nelle illustrazioni di Giovanni Colaneri

Tanti piccoli elementi che interagiscono tra loro per formare una grande composizione e dare vita a una struttura più grande, come un mosaico. Le illustrazioni di Giovanni Colaneri sono come un grande collage di elementi: figure di uomini e donne dialogano con oggetti e strutture geometriche e architettoniche, per dare vita a dei veri e propri macrocosmi dove ogni cosa trova silenziosamente il suo posto.

Giovanni Colaneri è un giovane illustratore napoletano, laureato all’Accademia di Belle Arti di Firenze in Grafica d’arte, per poi proseguire i suoi studi all’ISIA di Urbino nel biennio in Illustrazione.

Fig. 1

Nel 2016 è tra gli illustratori selezionati al Bologna Children’s Book Fair. Nello stesso anno è tra i 29 selezionati al concorso That’s a mole!.

Nel 2017 vince il concorso Art stop monti, che ha come obiettivo la promozione di interventi artistici all’interno delle stazioni metropolitane di Roma. Giovanni realizza due illustrazioni destinate agli ingressi della stazione Cavour della Metro B di Roma, nelle quali combina persone con elementi architettonici di Roma, che accostate creano delle lettere, minuscole e maiuscole.

Tra le collaborazioni di Giovanni, troviamo quella con Pelo Magazine, la rivista made in ISIA.

Fig. 2

I colori che Giovanni utilizza sono sempre tenui, la cui delicatezza deriva anche dagli strumenti utilizzati, ovvero colori ad acqua. La bellezza delle sue illustrazioni sta nella grande complessità di elementi al loro interno, dove ogni cosa deve avere il giusto colore per tirare fuori una composizione bilanciata.

Le illustrazioni di Giovanni Colaneri sono inclusive, a ricordarci che una società è tale perché formata da tanti elementi diversi che, senza attirare troppo l’attenzione, trovano il loro posto e si inseriscono in qualcosa di più grande: un messaggio molto importante in questo momento storico. Le sue illustrazioni sono come un grido silenzioso che si diffonde per trovare il suo posto, senza fare troppo rumore o troppo scalpore.

Fig. 3

Ho fatto qualche domanda a Giovanni per scoprire qualcosa di più su di lui e sul suo lavoro.

Le tue illustrazioni si caratterizzano per essere delle composizioni formate da tanti elementi.

Come costruisci le tue illustrazioni?

Comincio con un piccolo outing come premessa: di base ho il terrore del vuoto, il famosissimo horror vacui. Credo di essere peggiorato col tempo, man mano che disegnavo. A volte non ce la faccio proprio a vedere quel piccolo spazio bianco vuoto tra due omini, quindi qualcosa ce la devo mettere per forza, che sia una sfera, un cubo o altro. Stava diventando un problema quando iniziavo a riempire proprio tutto, però la buona notizia è che ultimamente ci sto lavorando su e a volte quello spazietto riesco a lasciarlo così com’è. Questo per spiegare i tanti elementi. Come le costruisco invece è difficile da spiegare, proverò a farlo in senso ampio. Quando mi siedo alla scrivania, metto le cuffie e mi alieno che manco io so come faccio e ci posso stare per tutto il tempo che voglio. Uso principalmente matite e pennarelli, soprattutto pantoni ma anche acquerelli, brushpen, acrilici, a seconda di quello che serve. Disegno oggetti, luoghi, piante e soprattutto persone, tante e tutte diverse, giganti o minuscole, reali o fantastiche, che fanno cose tra di loro o in solitudine, a seconda delle parole, di come mi sento, di cosa devo raccontare e a chi. In ognuno di queste c’è una parte di me che viene fuori, del mio mondo. È tutto.

Una domanda di rito: progetti nel cassetto che vorresti tirare fuori?

Ho un cassetto gigante e ogni volta che lo apro mi ci perdo. Ci metto dentro tutto quello che sento mio. Saper aspettare è importante. Se ho qualcosa che non sono molto sicuro di voler tirare fuori, la lascio lì fino a quando non mi sento pronto. Un progetto così l’ho realizzato quest’anno ed è Che cos’è una sindrome?, la mia tesi di laurea. Dal titolo si capisce di cosa parla, è un argomento che mi sta molto a cuore, quello della disabilità. Vorrei tirarne fuori altri sul tema, spaziando sempre di più nella diversità. Ho molta voglia di farlo perché sento che nella società in cui viviamo manca un’educazione al rispetto della diversità. Non è vero che siamo tutti uguali, anzi, siamo tutti diversi e tutti dovremmo avere gli stessi diritti, nessuno escluso. Almeno, io l’ho vissuta e la vedo così. Mi piacerebbe fare molto per questo, perché il mio lavoro possa dare un contributo, anche minimo, per riuscire a stare meglio in questo mondo. Stavo pensando da un po’ che ho quasi sempre usato figure umane per i miei lavori, mi manca disegnare una storia con protagonista un amico a quattro zampe. Qualche settimana fa ho disegnato un cammello e gli ho dato un nome, Dario. Non sapeva come sentirsi e così ha iniziato la sua corsa alla ricerca di sé, della sua identità perché non si sentiva cammello. Chissà dove andrà o cosa scoprirà, di sé e del mondo che lo circonda. Il bello di creare storie per me è anche questo.

Fig. 4

Nel 2016 sei stato selezionato in un concorso internazionale e da lì non ti sei più fermato: quali sono i tuoi programmi?

Hashtag fatturare. Scherzi a parte, in realtà ogni tanto mi fermo o comunque mi sono fermato. Da quell’esperienza ne sono uscito leggermente meglio di prima. Parlo della mia autostima, che era sempre a zero, invece adesso ce n’è qualche briciolo in più. Sì, cerco di continuare sempre e comunque anche perché, come si dice, chi si ferma è perduto. Sinceramente non ho particolari programmi per il futuro, ma alcune cose che cercherò di fare ogni giorno ce ne sono, illustrazione a parte, intendo. Cercare di stare bene, ad esempio, che non è la cosa più facile. Fare quello che mi piace, sempre o almeno ogni volta che posso. Non smettere di crescere e restare curioso e meravigliato dalle cose, come fa un bambino. Non perdere le amicizie, quelle belle, sparse per l’Italia e per il mondo, che la distanza a volte è proprio brutta. Parlare un po’ di più, in generale, perché è una cosa che non fa parte di me e chi mi conosce lo sa bene. A pensarci bene, per adesso seguirò Dario, per un po’, vedo dove mi porterà. 

Fig. 5




Immaginazione e ironia: le storie di Oliver Jeffers

Cosa succede quando trovi un pinguino davanti alla porta di casa? E quando un alce diventa il tuo migliore amico? E se i tuoi pastelli decidono di scappare dalla loro scatola?

Oliver Jeffers prova a rispondere a queste domande creando storie dove i personaggi, che siano animali o pastelli colorati, escono dalla loro routine, per far immaginare al lettore storie incredibili, anticonvenzionali, da leggere tutte d’un fiato ma rimanendo rapiti di tanto in tanto dalle illustrazioni.

Oliver Jeffers, classe ’77, nato a Port Hedland e trasferito a Brooklyn dove attualmente vive e lavora, è un illustratore, artista e scrittore, o meglio creatore di storie.

Albi illustrati, dipinti, film, il mondo di Oliver Jeffers non ha limiti, l’unica condizione necessaria è che ci sia una matita colorata e un supporto di qualunque tipo dove scrivere e disegnare.

Carta, alberi, mappamondi, i supporti che l’illustratore australiano utilizza non sono mai convenzionali, quasi come se il suo bisogno di disegnare, scrivere, annotare invada tutto ciò che lo circonda.

Tra le collaborazioni di Oliver Jeffers c’è quella con la band Irlandese U2, per la quale ha realizzato il video del brano Ordinary love, risultato di una sperimentazione che unisce testo e immagini, di cui alcune scene sono girate con la tecnica dello stop motion.

I libri di Oliver Jeffers catturano, strappando un sorriso e sono contraddistinti spesso da una nota dolceamara. Pubblicati in America dalla casa editrice Penguin, in Italia sono tradotti da ZOOlibri. Tra i suoi titoli troviamo Chi trova un pinguino… (in inglese Lost and found), la storia di un bambino che trova davanti alla porta di casa niente meno che un pinguino, dall’aria triste e persa, e allora non può che riportarlo a casa navigando fino in Antartide con una barchetta.

In Quest’alce è mio! un bambino si imbatte in un alce simpatico ma indisciplinato, e da questo incontrò nasce un’amicizia molto particolare.

La grande abilità di Oliver Jeffers sta nella creazione di personaggi estremamente espressivi, con pochi tratti, e nella sua capacità di inserire elementi destabilizzanti capaci di generare un grande effetto comico.

Nel 2017 vince il prestigioso premio Bologna Ragazzi Award nella sezione Fiction con il libro La bambina dei libri (in inglese The child of book), frutto di una collaborazione con Sam Winston, un artista che lavora con la tipografia per creare composizioni di ogni genere.

Il libro parla di una bambina che inizia un viaggio attraverso il libro, e coinvolge nel suo viaggio anche un bambino: insieme attraverseranno mari e scaleranno montagne, il tutto fatto ovviamente di parole. Chiunque può accompagnarli nel loro viaggio, l’importante è avere la chiave: l’immaginazione.

 




Orsi dispettosi e cavalli ribelli: il mondo di Noemi Vola

Quest’anno un grande orso nero e goffo e una marea di verdetti giganti hanno invaso le città: prima è stato il turno di Bologna, presso il Mambo, poi c’è stata Macerata e pare siano stati avvistati anche a Torino. Sembra che gli animali siano innocui, anzi, l’orso è particolarmente appiccicoso e non ama essere lasciato solo.

Questo è il mondo di Noemi Vola, classe ’93 nata a Bra (CN) nel 1993, diplomata nel 2016 al corso di Fumetto e Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Attualmente frequenta il corso di Illustrazione per l’Editoria a Bologna. Nel 2014 fonda Blanca, rivista autoprodotta per bambini.

Nel 2017 inizia la sua collaborazione con la storica Corraini Edizioni. Al primo libro, Un orso sullo stomaco, è seguito Filastrocche di vetro, con i testi di Sabina Italiano.

Da pochissimo nelle librerie troviamo anche Un libro di cavalli, uscito il mese scorso ancora con Corraini. Sempre a maggio è uscito FIM? ISTO NÃO ACABA ASSIM per la casa editrice spagnola Planeta Tangerina. Insomma, Noemi non si ferma, e sembra non avere nessuna intenzione di farlo.

Le illustrazioni di Noemi Vola sono ironiche e leggere, realizzate con tecniche manuali come matite colorate e pennarelli. La grande forza delle sue illustrazioni non sta in un particolare virtuosismo tecnico, ma nella loro capacità di stupirci per la maniera ironica di vedere la realtà e per la capacità che hanno i suoi libri, una volta presi in mano, di convincerci a continuare a sfogliarli fino all’ultima pagina.

Il suo primo libro edito da Corraini, Un orso sullo stomaco, narra di un grande orso nero dall’aspetto goffo e di una ragazzina che quell’orso proprio non lo sopporta. Qualunque tentativo di scacciare via l’orso è vano (neanche il cioccolato o la matematica) perché l’orso la segue ovunque lei vada, e anche se scompare, poi ritorna sempre. Insomma, un vero disastro avere a che fare con gli orsi!

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Ho intervistato Noemi Vola per curiosare un po’ nel suo mondo.

Con il tuo primo libro Un orso sullo stomaco realizzi anche laboratori per bambini. È arrivato un orso a mangiarsi tutti i pastelli colorati?

Come si può vedere nel libro, quest’orso ce l’ha messa tutta per complicarmi la vita, e l’ ha fatto fino alla fine, quando è stato così dispettoso da mangiarsi letteralmente tutti i pennarelli che avrei voluto usare per disegnarlo.

Era da molto tempo che non disegnavo usando solo il nero (e non l’avrei fatto nemmeno questa volta!), la scelta di eliminare i colori é stata presa insieme all’editore. Inizialmente non è stato molto facile cedere all’idea di eliminare il colore, ma  l’uso del bianco e nero mi ha costretta a riportare sulla carta nient’altro di più che il necessario alla narrazione, e di non allontanarmi troppo dalla spontaneità grafica delle bozze iniziali. Sono stata felice di questa scelta e devo ringraziare infatti l’editore che ha insistito parecchio per farmelo capire.

Spesso anche nei laboratori invito i bambini a usare solo il nero per disegnare orsi di ogni tipo. È un limite che può diventare interessante, perché li costringe a non usare tutti i colori come d’abitudine, ma a inventare nuove soluzioni che spesso portano a risultati inaspettati.

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I personaggi che popolano i tuoi libri sono sempre fortemente caratterizzati: un orso dispettoso,  cavalli sovversivi, e poi i vermetti, di cui voglio sapere assolutamente qualcosa di più. Come lavori alla costruzione dei tuoi personaggi?

Ho sempre pensato prima alla storia che ai personaggi, infatti non sono mai stata una grande appassionata di orsi, cavalli o lombrichi, ma avevo un’idea da rappresentare e mi servivano dei buoni “attori ” adatti a interpretare delle parti.

Quando ho scritto Un orso sullo stomaco non avevo in mente di scrivere un libro con un orso come protagonista, avevo piuttosto la necessità assoluta di raccontare e scrivere quello che mi stava pesando addosso. Non sapevo bene cosa fosse, che forma avesse, quale fosse il suo nome; sapevo solo che era pesante, fastidioso, dispettoso, molto ingombrante e per niente amichevole. Insomma, una descrizione che assomigliava e aveva molti punti in comune con un orso. E d’altronde una sensazione del genere non poteva di certo assomigliare a una formica o a uno scoiattolo!

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Per Un libro di cavalli rivoluzionari, invece, l’idea di partenza riguardava un concetto che mi è sempre sembrato molto interessante e poco discusso: la disobbedienza e l’importanza di pensare con la propria testa. Avevo letto Rodari (in particolare Tonino l’ Obbediente, Il giovane gambero, Il Re Federico), Disobbedienza Civile di Thoreau, L’obbedienza non é più una virtú di Don Milani, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto provare a raccontare questo concetto in un modo molto semplice ed elementare, adatto tanto a bambine e bambini quanti agli adulti, come Rodari ha abilmente fatto nelle sue filastrocche.

Ma per parlare di disobbedienza mi serviva qualcuno o qualcosa che fosse simbolo dell’opposto contrario, ovvero dell’obbedienza. E i cavalli erano perfetti: fin dall’antichità hanno seguito senza opporsi i loro padroni che li hanno usati come macchine da guerra o da corsa, oggi li troviamo immobili su piedistalli di marmo, schiavi di un moto perpetuo come il dondolo o la giostra, manovrati come le pedine sulle scacchiere.

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I lombrichi, invece, fanno parte di un progetto a cui sto lavorando, purtroppo non posso dire molto di più perché è tutto ancora molto incerto. A grandi linee si tratta di una storia il cui protagonista è un lombrico molto sconfortato, incerto e confuso, che riflette sulla vita.

Ora che sei un’illustratrice affermata e i tuoi libri popolano le librerie, hai un sogno nel cassetto che vorresti tirare fuori?

Sarebbe molto bello (ma non sarà molto facile) avere il tempo necessario per dedicarmi al lombrico e pensare completamente solo a lui. Per ora è il progetto in corso a cui tengo maggiormente, che ho iniziato e che come al solito non so dove mi porterà.

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Ironia e leggerezza nelle illustrazioni di Isidro Ferrer

Lo scorso 14 aprile sono stata a Macerata per la quinta edizione festival di illustrazione Ratatà; durante il festival c’è stata l’inaugurazione della Retrospettiva su Isidro Ferrer, che ho avuto la fortuna di conoscere e di osservare all’opera.

L’artista si aggirava con il suo cappello e il suo bicchiere in mano, e non appena qualcuno gli si avvicinava per una firma o una dedica, dimenticava la folla intorno per realizzare dei piccoli ma accurati disegni su qualunque tipo di supporto: un poster, un quadernetto o un foglio strappato, e in assenza di acqua bagnava la brush pen nel suo bicchiere di vino.

Isidro Ferrer, classe ’63, nato a Madrid, grafico e illustratore, si forma in drammaturgia ma scopre presto la sua vocazione per la comunicazione visiva. Dalla fine degli anni ’80 inizia a emergere nel panorama della grafica; nel 2002 vince il National Design Award.

Si distingue nel panorama nazionale con la vincita di numerosi premi e con le numerose pubblicazioni che girano presto il mondo. Dal 2000 è membro AGI, una prestigiosa associazione che riunisce i migliori grafici, designer e illustratori mondiali.

L’opera di Ferrer conta numerosi manifesti, spesso legati al mondo del palcoscenico, da cui proviene.

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La seconda parte della sua produzione riguarda i libri, specialmente quelli per bambini, che gli permettono una maggiore libertà espressiva.

Se si osservassero tutti i libri di Isidro Ferrer uno accanto all’altro (e ci vorrebbe un tavolo davvero grande, perché stiamo parlando di trentuno pubblicazioni a oggi!) si noterebbe una grande variazione. Piccoli libricini che si nascondono nelle librerie, grandi libroni ai quali è difficile trovare un posto, libri rilegati in brossura e leporelli… la produzione di Ferrer è totalmente variegata in termini di formato e dimensione, che sarebbe difficile trovare un libro simile a un altro.

Ciò che accomuna le sue opere sono la delicatezza, la potenza comunicativa, l’utilizzo di forme rotonde e sinuose, i colori scelti e dosati con saggezza e i suoi personaggi, sempre costruiti con grande ironia e capaci di generare un effetto di sorpresa in chi osserva.

Sembra che Isidro non immagini altri mondi, ma si limiti a tradurre la realtà nella quale siamo immerse e trasformarla in poesia, donandoci la sua personale visione ironica, leggera, e per questo sempre riconoscibile.

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In Un Jardin (A buen paso, 2016) Isidro Ferrerrealizza le illustrazioni peril testo della poetessa cilena María José Ferrada Lefendi: la storia parla di un uomo che sogna un giardino, e si trasforma nelle creature che immagina. Le illustrazioni danno vita a uno spazio sospeso, popolato da strani animali che interagiscono con gli elementi geometrici posizionati nella pagina.

Il libro è un leporello: proseguendo con la lettura il volume si apre fino a diventare un grande panorama in cui perdersi.

Per quanto riguarda la tecnica, l’illustratore predilige tecniche manuali, facendo interagire il disegno, grazie all’uso del collage, a elementi materici come il legno, che donano alle sue opere una sensazione di tridimensionalità: non a caso realizza anche sculture in legno dei suoi personaggi.

L’utilizzo della sovrapposizione di strati e le forme che non sono mai colorate in maniera regolare ci fanno pensare alle tecniche di stampa manuale.

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Il mondo che Isidro Ferrer costruisce è un mondo in cui perdersi con leggerezza, per ricordarsi che se la realtà non ci piace, possiamo stravolgerla, accartocciarla, disegnarla, trasferirla su un pezzo di legno e appenderla al contrario.

Immagini dal sito: www.isidroferrer.com




Giulia Pastorino: colore, ritmo e movimento

Colori caldi, stesi sul foglio con un tratto istintivo e gestuale, come una danza, a formare illustrazioni piene ma dove c’è sempre equilibrio.

Giulia Pastorino si forma all’Accademia di Belle Arti per poi trasferirsi a Urbino per studiare Illustrazione all’ISIA. Nel 2016 è tra gli illustratori selezionati al Bologna Children’s Book Fair e nello stesso anno vince il concorso Tapirulan. Nel 2017 viene selezionata al Nami Island International Illustration Concours.

Dal 2016 collabora con la rivista autoprodotta Pelo, nata tra le mura dell’ISIA di Urbino.

Vince la XII edizione del concorso Tapirulan, il cui tema è Ciak, con l’illustrazione L’arte del sogno, ispirata all’ononimo film di Michael Gondry.

Per la XIII edizione del concorso le viene dedicata una mostra personale e la pubblicazione del catalogo, contenente i suoi lavori per magazine e progetti personali. Il nome del catalogo è Disordine. Disordine non è un tema scelto a priori, ma il filo rosso che lega tutte le illustrazioni: il disordine invade lo spazio ma raggruppa, ordina, dona una coerenza visiva che permette alle immagini di vivere indipendentemente l’una dall’altra.

Il disordine così diventa vita: una volta qualcuno ha detto che nel disordine c’è armonia, c’è completezza, che una scrivania piena è preoccupante ma non quanto una scrivania vuota.

Figura 1.

Nelle sue opere lo spazio è invaso da forme, colori, piccoli particolari in cui chi osserva si può perdere, ma è un pieno che è sempre stabile, attraverso un sapiente uso dei colori, delle forme, dei pieni e dei vuoti: un disordine in equilibrio. E poi il movimento: l’equilibrio si trova anche nella sua capacità di fermare un’immagine, catturare un momento.

Il tratto gestuale, immediato, la mancanza di contorni definiti e di una precisa definizione degli spazi, non possono che ricordarci i dipinti di Jean-Michel Basquiat. C’è un altro elemento che li lega: un richiamo sottile, ma tangibile, all’Africa. I toni caldi, le maschere, ma anche una sensazione di continuo movimento, come una danza ininterrotta, avvicina le illustrazioni di Giulia all’arte del continente africano.

Figura 2.

Lo strumento che caratterizza Giulia è il pastello a olio, che dona alle opere un sapore materico e fa emergere il segno: sembra quasi che la mano di Giulia si posi sul foglio e non si fermi finché il disegno non è completo.

Tre domande a Giulia Pastorino, per conoscere lei e il suo lavoro.

Nelle tue opere tutti gli elementi sembrano essere posizionati istintivamente, di getto: come costruisci le tue illustrazioni?

Non mi piace stare troppo tempo su uno stesso disegno, mi annoia.

In genere butto giù un’idea, qualche colore e inizio a disegnare. 

I pastelli a olio sono i miei migliori amici, ma, a seconda di quello che devo realizzare, mischio diverse tecniche (dal carboncino agli acrilici, dalle ecoline ai pastelli colorati). Ciò che mi rende felice e che abbatte ogni mia ansia è il colore, che non mi spaventa per niente.

Quello che in genere non viene percepito è l’utilizzo del digitale. In realtà le illustrazioni non sono quasi mai tavole uniche. In genere disegno soggetti separati, dei pezzi che poi assemblo su photoshop. 

Ci sono diverse motivazioni per le quali prediligo questo modo di lavorare. 

La prima è che mi diverte moltissimo. Mi piace sovrapporre i miei disegni, aggiungerci carte preparate e scoprire l’effetto che dà. Spostare, cambiare, muovere. Ciò non significa che non abbia un’idea chiara in testa, ma mi piace dare spazio anche alla casualità, che spesso mi suggerisce nuove idee.

La seconda motivazione è che disegnare pochi soggetti alla volta ti permette di poterli riutilizzare, dandogli nuova vita. La mia missione è di creare un archivio infinito di ometti, piante e animali fantastici.

La terza è che sono una persona parecchio disordinata e la precisione ammetto che non sia il mio forte (ho altri pregi). Così ho un sacco di fogli con soggetti singoli o con composizioni di oggetti, su formati più o meno grandi, su carte più o meno pregiate. Prima credevo che questo mio modo di lavorare fosse sbagliato, da tenere “segreto”. Ora non saprei. Non so se abbia senso parlare di cosa sia giusto o meno, se sono più o meno brava.

In realtà in questo momento mi rispecchia, poi magari cambierò, per ora tavole uniche solo su grandi dimensioni, nel piccolo sto stretta.

Figura 3.

Una storia che vorresti assolutamente illustrare?

Una storia che volevo illustrare l’ho illustrata. Ed è la storia di Enrico D’Albertis, un genovese d’altri tempi che ha viaggiato per il mondo portando nel suo castello meraviglie e ricordi di ogni dove. In questa biografia c’è la mia città, la navigazione, il mare e tutti quegli oggetti misteriosi che parlano di culture lontane.

Facendo un po’ meno la seria, gli spunti migliori per una storia si trovano nella quotidianità, nella follia di qualche personaggio, origliando qualche chiacchiera o in un semplice dettaglio. Proprio qualche giorno fa un’amica mi stava raccontando che è partita con il nipote per una breve vacanza, portandosi dietro un limone del suo orto. Scelta un po’ inusuale, ma credo che una storia sulle vicissitudini di un limone in gita, potrebbe essere divertente, soprattutto se sul finale comparisse una spremuta.

Di idee ne ho diverse, vorrei concludere la storia di Ernesto, il bradipo iperattivo e poi dare un volto a Graziella che è nata quando aveva 17 anni.

Piano piano, chissà…

Nel 2016 sei stata selezionata in un concorso internazionale e da lì non ti sei più fermata: quali sono i tuoi programmi?

Viaggiare, comprarmi una casa in più posti differenti perché non ho ancora trovato il mio posto e nel dubbio…

Imparare a non arrossire nei momenti meno opportuni, dipingere in un grande spazio, avere un grande spazio, e costruire una libreria di legno.

Scherzi a parte, a essere sincera non programmo quasi mai niente. Ho un grosso problema con questa parola. 

Il 2016 mi ha dato un piccolo aiuto a credere in quello che faccio. Piccolissimo. Ciò di cui sono contenta è che mi riconosco nelle mie illustrazioni, che non è così scontato.

Per il resto che dire, sono tornata da un viaggio in Centro America che inevitabilmente mi ha dato molti spunti sui quali lavorare a un nuovo progetto. Non vorrei stare troppo ferma, in tutti i sensi.

L’idea dell’illustratrice solitaria nella sua scrivania l’apprezzo, ma solo in parte e a piccole dosi. 

Cerco di collaborare anche con persone che sono lontane dal mondo dell’illustrazione, per far convivere diverse esperienze e imparare sempre qualcosa di nuovo.

Pelo, invece, rimane una costante.

Immagini dal sito: https://giuliapastorino.tumblr.com




I fiori di Giulia

Giulia Conoscenti, classe 91, illustratrice e animatrice, è nata e ha studiato disegno industriale a Palermo; a 21 anni lascia la Sicilia per frequentare Illustrazione presso l’ISIA di Urbino, dove si laurea nel 2017. Nello stesso anno vince il Premio Ronzinante, un contest annuale di illustrazione che incoraggia giovani illustratori e illustratrici a misurarsi con il tema della disabilità: Giulia realizza due tavole collegando l’autismo ai viaggi straordinari di Verne. Le sue illustrazioni, sempre ricche e particolareggiate, si collocano in un luogo sospeso tra il sogno e l’immaginazione, dove le figure si mescolano al paesaggio e il limite tra esterno e interno non è mai netto, ma lascia sempre una sensazione di incertezza e mistero che destabilizza chiunque l’osservi. Sono opere sono fortemente materiche, frutto di una sperimentazione continua e di una mescolanza di tecniche, dalle chine ai pennarelli, passando per gli acrilici. Il suo tratto è gestuale e la ricchezza di particolari rende le tavole fortemente narrative; non a caso uno dei mezzi narrativi che predilige è l’animazione.

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Per la sua tesi specialistica Giulia si è infatti misurata con un corto animato di cinque minuti dal titolo Fiori di tarassaco, realizzato con la tecnica del rotoscopio, con un totale di 4000 frames. Il corto non presenta parole, la struttura narrativa ruota intorno alla protagonista che sta affrontando un viaggio: seguono immagini che appaiono come sogni o visioni; abbiamo l’impressione di entrare nella sua testa e di frugare nei suoi pensieri. Quello che stiamo guardando è un’allucinazione, o forse è un sogno dove si mescolano pensieri, sensazioni, paure, momenti di insicurezza e vuoto, di affetto e di amore, tutti raccontati con una forte delicatezza. Giulia ragiona per metafore visive: la guerra, le migrazioni, i confini e le frontiere, lo specchio e la formazione dell’identità sono alcuni dei temi con cui si è confrontata, attraverso un approfondito studio, al quale ha seguito la traduzione dei concetti in immagini.

Lo stesso fiore di tarassaco è un’allegoria della migrazione; così come i semi del fiore si lasciano trasportare dal vento per raggiungere nuovi campi dove germogliare, i migranti lasciano la loro terra per cercare una nuova casa che li possa accogliere.

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Ho intervistato Giulia Conoscenti per scoprire qualcosa di più su di lei e sul suo lavoro.

La protagonista del tuo corto d’animazione Fiori di tarassaco è una ragazza con pochi tratti distintivi, difficile da associare a una determinata cultura: quanto c’è di te in lei?

Inconsciamente parecchio! Sono palermitana e ho sempre vissuto circondata dal mare e dal sole, dal calore di persone che come dice Pirandello sono “nate isola nell’isola”. Ho un forte attaccamento alla mia terra, alla sua cultura, ai suoi colori, così tanto che li sento nelle ossa, nel carattere! 

Mi sono resa conto di tutto questo quando mi sono trasferita a Urbino per studiare illustrazione all’ISIA. Un luogo totalmente altro, sconosciuto, con cui non sono mai entrata in sintonia. Un posto che era tutto tranne “isola”, tutto tranne me. So che può sembrare assurdo ma quello che ho provato era smarrimento, insicurezza, perdita. Così ho iniziato a riflettere su tutte quelle persone che emigrano, abbandonando la propria terra, casa e famiglia, costrette e non per scelta, e che diversamente da me hanno grandi difficoltà a ritornare indietro.

All’improvviso il/la migrante si ritrova completamente solo/a in un Paese straniero e comprende che può salvarsi solo con immensi sacrifici per stabilire gradualmente nuove relazioni, imparare altri codici di socialità, reinventare se stesso/a, perché di questo si tratta, di ritrovarsi e ricostruirsi.

Ho deciso di trattare il tema della migrazione e della perdita di identità, perché in parte è un problema che capisco: oggi più di prima i giovani sono migranti, molti di loro non hanno una sede fissa e vivono in un luogo che sentono estraneo.

In Fiori di tarassaco parli di lunghi viaggi, paura, ricerca di identità, lasciare le proprie radici per cercarne di nuove. Quanto è importante per un/una giovane artista mettersi in discussione?

Credo che confrontarsi con se stessi sia, a livello umano, fondamentale per crescere e per un’illustratrice indispensabile per progredire artisticamente. Non so se questo concetto sia per forza legato ad abbandonare la propria casa o mutare la propria identità, in favore della ricerca di qualcos’altro; penso dipenda dalla storia personale di ognuna di noi, dal nostro vissuto. Io ho un forte legame con la mia terra ed è per me importantissimo tornare, ogni volta che posso, per viverla e sentirla.

Qual è una storia che ti piacerebbe raccontare?

Una storia che proprio non vedo l’ora di illustrare ce l’ho! Aspetto solo il momento giusto. Da piccola mi hanno raccontato della colonia di Roanoke e del mistero dei coloni perduti, un centinaio di persone, tra cui anche donne e bambini, che alla fine del 1500 sono scomparse praticamente nel nulla. Non sono mai state trovate loro tracce, è come se fossero evaporate! Ci penso spesso, devo farci un libro, anche solo per togliermela dalla testa.

Poi in realtà, avrei voglia di raccontare mille cose: vicende sulla mia città, su persone che ho conosciuto per caso, su quella casa tutta storta che magari sarà abitata dall’uomo più dritto del mondo. Veramente mi basta anche poco: un dettaglio, incrociare gli occhi liquidi di un essere sconosciuto, un cane legato fuori dal supermercato, insomma qualcosa che mi colpisca e mi faccia immaginare una storia fantastica come quando ero piccola!

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Immagini dal sito: http://giuliaconoscenti.tumblr.com




Tre domande ad Andrea Antinori

Classe 1992, nato a Recanati ma cresciuto a Bologna, Andrea Antinori ha studiato grafica e comunicazione visiva presso l’ISIAdi Urbino, dove ha continuato il biennio in Illustrazione. Nel 2013 pubblica con Corraini Edizioni, storico editore conosciuto per il suo catalogo che è una contaminazione di arte, design, grafica, editoria e fotografia.

Il primo libro che pubblica con l’editore milanese (2013) è Questo è un alce? al quale segue Un libro sulle balene, nel 2016, che è il suo progetto di tesi triennale.

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L’anno successivo esce L’entrata di Cristo a Bruxelles,sempre con Corraini Edizioni e in quello stesso annovince il Premio Andersen nella categoria Miglior libro 6/9 anni con La zuppa dell’orco,scritto da Vincent Cuvellier ed edito da Biancoenero Edizioni e viene selezionato tra gli illustratori esposti alla Bologna Children’s Book Fair.

Tra le case editrici con cui collabora troviamo anche Lapis edizioni, La nuova frontiera editore, Camelozampa e la spagnola A buon paso.

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Nei suoi libri Andrea realizza testo, illustrazioni e progetto grafico; il suo lavoro non si limita a illustrare, ma progetta, cura il libro in tutte le sue componenti, lo concepisce pezzo per pezzo, e infine lo assembla. Si nota infatti una coerenza costitutiva di tutto l’insieme nei suoi testi, che dialogano con le illustrazioni, senza essere grandi opere di virtuosismo tecnico, ma posseggono una apparente semplicità e una carica comunicativa che li contraddistinguono da tutto ciò che li circonda.

Andrea predilige tecniche tradizionali, è sempre ben visibile il segno, caratterizzato da un tratto spontaneo e istintivo.Il colore, quando è presente, è costituito da toni accesi e carichi, sempre in equilibrio con i grigi.

Intervisto Andrea Antinori per conoscere aspetti meno apparenti del suo lavoro.

La prima domanda è sulle idee: da cosa nasce un libro?

Dalla propria vita e dalle proprie esperienze. Detta così qualcuno potrebbe pensare che ho passato la mia vita circondato da alci, nuotando con le balene e visitando il Paul Getty museum di Malibu. Non ho fatto nulla di tutto ciò, (anzi, le balene le ho viste, ma solo dopo il libro), parlando di esperienze personali mi riferisco agli spunti che trovo in esse, o alle metafore che ne ricavo. Ad esempio il libro Questo è un alce? nasce da un momento cruciale del mio rapporto con il disegno. Prima di allora cercavo di disegnare “molto meglio“ di adesso, mi concentravo sull’esattezza e la perfezione dei soggetti che rappresentavo, ma mi richiedeva molto tempo. A un certo punto mi sono stancato, ho avuto paura che continuando così non avrei avuto voglia di fare questo lavoro, e soprattutto volevo concentrarmi sulle idee, sulle storie, e fare quindi più disegni in meno tempo. Anche sentirmi più libero in verità. E tutto ciò è quello che ho raccontato in questo libretto di trentadue pagine. L’alce diventa un pretesto, che una volta sulla carta fatto bene o male che sia, che assomigli a un alce, o che sia un alce astratto, è pur sempre un alce, e questo è l’importante.

Per le balene invece ho prodotto un libro che avesse come lettore modello me stesso da bambino; un libro che ricordasse le enciclopedie di animali che leggevo continuamente allora.Insomma, ogni mio libro parla almeno un pochino di me, ma di nascosto.

Un elemento che è una costante nei tuoi lavori è l’ironia, sempre presente nei testi come nelle illustrazioni. Si potrebbe dire che nei tuoi libri l’ironia è un mezzo narrativo?

Assolutamente. L’ironia è uno strumento molto forte per le storie, ma anche per la divulgazione. Ti permette di parlare di cose molto serie, ma prendendole con un altro spirito, rendendo questi temi più coinvolgenti e appassionanti magari.L’ironia inoltre è molto importante anche per me stesso. Quando creo una storia mi diverto molto e rido da solo quando mi vengono in mente le cose più ridicole e insensate, un po’ forse perché a volte non me le aspetto neanche io.

I tuoi libri hanno spesso una componente didattica al loro interno: nel libro sull’alce c’è un invito esplicito a far interagire il lettore, mentre nel libro sulle balene ci sono molte informazioni riguardo il mondo dei cetacei. Anche ne L’entrata di Cristo a Bruxellesc’è una qualche stramba lezione di storia dell’arte.

Come è stata la tua esperienza nei laboratori che hai tenuto con i giovani lettori?

In realtà il mio obiettivo in questi casi è quello di far passare un messaggio, o delle informazioni, senza però avere l’obiettivo di insegnare nulla. Magari è proprio dal momento che ti poni come insegnante che quel che trasmetti rischia di diventare noioso. Vorrei che bambini e bambine leggessero i miei libri con il piacere di farlo, e non come se fosse un compito.Allo stesso modo mi pongo quando svolgo i laboratori: vanno già a scuola, non voglio fare altre ore di lezione, li sfido piuttosto a porsi in un altro modo sulle idee, o sul disegno, mettendomi al loro stesso livello. Fin troppo spesso mi chiedono se quello che fanno è giusto o sbagliato, se va bene, o magari mi dicono che non sanno disegnare qualcosa. Io cerco sempre di spronarli a non pensare a cosa è giusto o sbagliato, di non scartare un’idea solo perché è strana o ridicola, ma propongo di fare quel che viene, per scoprire cosa salta fuori.

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immagini, http://andreantinori.com




L’immagine della città attraverso le illustrazioni di Viola Gesmundo

Architetta di formazione e illustratrice di professione, Viola Gesmundo nasce a Foggia ma lavora tra Rotterdam e Torino.

Nel suo lavoro è centrale il tema dell’interazione e della rigenerazione urbana; i suoi personaggi sono portatori di un dono di positività e sembrano sempre invitarci a divertirci e a non prendere la vita troppo sul serio.

Nel 2016 realizza un murale per la riqualificazione di un ex dazio ottocentesco a Torino (in copertina) e ottiene una residenza d’artista con la Foundation B.a.d. a Rotterdam, conclusasi con una grande opera site-specific.

Nel 2017 le sue opere sono state esposte in varie mostre, presso il MAO di Torino, lo Studio De Bakkerij a Rotterdam e il Museo Civico di Foggia con la personale DIORAMI 365+1.

Nel 2017 pubblica il suo primo albo illustrato Una strada per Ritache parla di una bambina, Rita, che riceve dalla sua maestra un compito speciale: scoprire che cosa non va nella sua città. Non a caso, Viola illustra una storia che parla di sviluppo sociale nella quale ci propone di guardare con occhi diversi la città.

FOTO 1. Una strada per Rita. Illustrazione

Il libro è realizzato in collaborazione con l’Associazione Toponomastica femminile e pubblicato con Matilda Editrice. Nel 2018 pubblica il suo secondo albo illustrato, Se dico no è no, edito con la stessa casa editrice.

FOTO 2 Una strada per Rita. Copertina.

Le forme che Viola disegna sono delimitate da spesse linee nere dentro le quali esplodono i colori; insieme a essi domina un ampio uso di texture, che riempiono gli spazi e suggeriscono dinamicità e movimento.

Nelle sue illustrazioni utilizza una palette di colori determinata, dove trionfano il rosso, il blu, il giallo. I suoi personaggi sono giocosi e sempre in movimento, pronti a invadere qualsiasi superficie dove è possibile dipingere. Le figure sono sempre bidimensionali e prive di sfumature. Questa essenzialità nel disegno rende le figure adatte a essere trasportate su superfici ampie: le facciate di case e le mura della città diventano una grande tela da riempire.

FOTO 3 Sconfinamenti.Illustrazione

Ho parlato con Viola Gesmundo per indagare questo rapporto tra illustrazione, architettura e street art.

– Hai studiato architettura ma hai scelto di lavorare come illustratrice freelance, e a quanto pare dipingere sui muri non ti dispiace affatto. Che significato ha nel tuo lavoro l’architettura?

– L’architettura, così come l’illustrazione, ha l’abilità di saper interpretare i desideri degli altri, del pubblico, e più in generalerendere le persone felici facendo sì che gli spazi con cui interagiscono nel loro quotidiano siano più piacevoli. Per questo un’opera di street art può essere considerata rigenerazione urbana. La rigenerazione urbana può essere infatti attuata attraverso grandi e piccoli gesti. Grandi gesti come la riqualificazione di una città, di un edificio o di uno spazio pubblico; e piccoli gesti quali la semplicità di un’illustrazione murale che ridia nuova vita con un “segno” più fruibile nell’immediato.

– Dipingere su un muro, rispetto alla carta, significa creare una rottura con il circostante. Il muro non può essere nascosto, ed è costantemente sotto gli occhi dei passanti. Si potrebbe forse dire che il muro è un mezzo di comunicazione. Cosa significa per te utilizzare un muro rispetto a un foglio di carta?

– Quando disegno su un muro, soprattutto se pubblico, sento un grande senso di responsabilità nei confronti del prossimo, in quanto ho la possibilità di rendere la giornata di un passante più allegra e colorata anche solo per un momento.

Il murale è arte pubblica, in comunicazione diretta con i passanti, che la interpretano continuamente e in modi sempre diversi, facendo prendere al disegno spesso pieghe sorprendenti.

Mi è capitato di aggiungere un soggetto in un murale in corso per il commento di un bambino o per una nonna che mi “riprendesse” per la mancanza di colore. L’arte murale diventa così arte partecipata oltre che condivisa. La carta è ugualmente un efficace mezzo di comunicazione con la differenza che spesso è rivolto a un pubblico più specifico, come la letteratura per l’infanzia in cui mi sono imbattuta ultimamente.

– La street art pare che sia una prerogativa maggiormente maschile, o forse mi sto sbagliando?

– È stata una prerogativa maschile nel modo in cui la società ha spesso considerato il “ruolo” femminile lontano da certi ambienti più “difficili” come può essere quello dell’arte urbana, che implica lo sporcarsi le mani o arrampicarsi su supporti traballanti.

Tuttavia sempre più ragazze oggi condividono le loro idee e la loro arte sui muri della città.




Il mondo blu di Gosia Herba

Corpi deformati, caricaturali sono il tratto distintivo di Gosia Herba, illustratrice polacca, debitrice di Picasso per l’uso delle forme e per l’amore incondizionato per ogni tonalità del blu.

Gosia da quasi 10 anni realizza copertine di libri e collabora con riviste periodiche, ma è anche illustratrice graphic novel e libri per bambini e bambine.

I soggetti che predilige sono le figure umane: le forme sono geometrizzate e le proporzioni non sono mai esatte ma sempre eccessive, andando a determinare una raffigurazione caricaturale, elemento ironico che permette ai suoi lavori di strappare sempre un sorriso a chi li osserva.

Nel 2014 Gosia Herba fa il suo debutto nel mondo del fumetto con Fertility, scritto da Mikołaj Pa. Si tratta di una graphic novel cupa, dai toni scuri, diversa dai soliti lavori di Gosia, che prediligono un uso del colore e di toni chiari. Non a caso, la maggior parte delle sue pubblicazioni riguardano il mondo dell’infanzia.

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Nel 2017 illustra la raccolta di poesie Poems for children per la casa editrice polacca Wydawnictwo Wolno; il libro è una selezione di poesie per bambini e bambine del poeta e scrittore di prosa Jerzy Ficowski. Le illustrazioni accompagnano i testi e descrivono con delicatezza il magico mondo infantile narrato nel testo. Nel 2017 il libro ha ricevuto una menzione d’onore dalla sezione polacca della The International Board on Books for Young People (IBBY), un’associazione che si occupa di promozione e diffusione di libri per l’infanzia.

Nel 2017 esce Raz, dwa, trzy, zaśnij ty!, una raccolta di poesie della scrittrice polacca Dorota Kassjanowicz che parla di sogni; le illustrazioni di Gosia ritraggono buffi animali antropomorfizzati.

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Ad aprile 2018 uscirà in Italia l’albo illustrato “L’elefante sulla luna”, edito da Matilda Editrice.

La storia, scritta da Mikolaj Pa, narra di un’astronoma che fa una scoperta strabiliante: osserva un elefante sulla luna! La Società Lunare non solo non le crede, ma si burla di lei e della sua ‘scoperta’. All’astronoma non rimane che una cosa da fare: costruire un razzo spaziale e partire per la volta della luna.

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La scienziata viene raffigurata come un personaggio buffo, con grandi occhiali rossi e i capelli blu, che parte coraggiosa per la luna ma non senza i suoi libri, una teiera e la sua tazza preferita. Lei crede fortemente nel suo lavoro, facendo dialogare il suo lato sognante e sarcastico con quello serio e scientifico.

L’effetto ironico è ciò che rende il libro divertente e per nulla scontato: l’ironia scaturisce dal contrasto scientifico/impossibile che pervade tutta la storia; un esempio di utilizzo di questo espediente si trova nelle tavole che raffigurano la vegetazione della luna, dove le piante sono raffigurate scientificamente, con ingrandimenti e rimandi testuali. Non possono che far pensare alla Botanica Parallela di Leo Lionni, un trattato di scienza inesistente dove l’autore illustra e descrive meticolosamente piante esistenti soltanto nell’immaginazione. L’avventura dell’astronoma non avrà solamente un fine scientifico, ma anche umano, grazie all’incontro con un singolare personaggio, un elefante magazziniere, che abita la luna e che ha una collezione molto particolare.

Le illustrazioni dell’albo non sono mai didascaliche ma invitano il lettore a un gioco di osservazione e ricerca, e a uscire dagli schemi convenzionali, perché si sa, per fare una grande scoperta ci vuole sempre un pizzico di follia, anche se questo significa andare alla ricerca del “dark side of the moon”.

Illustrazioni tratte dal sito dal sito: http://www.gosiaherba.pl/portfolio