Darwin

Due giorni a Darwin, nel Top End, per conoscere l’Australia degli aborigeni, per vedere ancora parchi sterminati, per fare nuove scoperte. Il primo giorno ce ne andiamo a visitare il parco Nazionale di Litchfield, una enorme distesa di alberi giganteschi tra cui sbucano termitai alti come palazzi e cascate ricche di acque che si fronteggiano, come le Tolmer Falls.

Gli eucalipti hanno il tronco come diviso a metà: in basso la corteccia, in alto una superficie liscia e chiara. I rami sono bianchi, anneriti da tanti pipistrelli neri appesi a testa in giù. Spettacolo della natura veramente inquietante. La vastità degli spazi crea una sensazione di spaesamento e di solitudine. Si cammina per ore senza incontrare esseri umani, a parte qualche emù. Una lunga giornata punteggiata di soste fra eucalipti e foto vicino ai termitai.

Il secondo giorno segna l’incontro con gli aborigeni: entriamo in città camminando fra giardini e piccole case, mentre gruppetti di aborigeni sostano sulle panchine e ci osservano con una certa curiosità. Hanno lineamenti molto marcati, tanti capelli scuri e ricci che sembrano nidi; sono trascurati nel vestire, sembrano nullafacenti… In realtà la guida ci spiega che quelli che si incontrano in città sono i nativi che vivevano nelle riserve e che, non rispettandone le regole, sono stati scacciati dai loro conterranei. Dunque, sono persone scomode, che non hanno più dignità, prima chiusi come in gabbia, poi isolati dai loro stessi fratelli, infine abbandonati nelle strade, spesso alcolizzati. Ci sono alcune associazioni che in qualche modo se ne occupano; a me sembrano disperati e soli. Poi naturalmente ci sono gli aborigeni integrati che vendono oggetti di artigianato in dignitosi piccoli negozi.

La cittadina è graziosa, ordinata, strade ampie, negozi ben tenuti. Gli abitanti sono circa 130.000. Il waterfront – il lungomare – lascia vedere, lontana, la barriera corallina che crea una striscia bianca nel mare. Si passeggia, si respira un’aria sana, ma come a Sidney, Melbourne, Brisbane, Cairns i bambini indossano una bella divisa scolastica e coprono la testa con un berretto dotato di visiera e coprinuca. Fa caldo, ma tutti hanno maglie o camicie a maniche lunghe. Il sole fa paura. Entro in una farmacia per comprare una crema solare: non ci sono prodotti che abbiano meno di 30 spf, al contrario i 50+ si sprecano.

Nel pomeriggio, dopo un’ora e mezza di viaggio in bus, attraversando pianure smisurate, andiamo in battello sul fiume Adelaide alla ricerca di coccodrilli saltatori. Si naviga su acque giallastre e torbide, le rive sono verdissime a causa della vegetazione fitta. Ci hanno avvertito del pericolo di punture di insetti e io… finalmente! sfoggio il cappello da piccola esploratrice con veletta nera che arriva fino al collo. Si può rimanere sul ponte più basso per vedere meglio i coccodrilli, nonostante la parete di plexigas che non permette di sporgersi ma che protegge dai denti acuminati dei saltatori, o si può salire in alto e sporgersi, con qualche cautela. Noi arriviamo sul ponte più alto e vediamo i coccodrilli che sbucano violentemente dall’acqua e, con tutto il corpo fuori, addentano il pezzo di carne che una robusta ranger fa dondolare, appeso ad un lungo bastone.

Sono tanti, si intravedono sott’acqua quando si avvicinano e poi saltano con violenza, bocca spalancata, per conquistare il cibo. In cielo volteggia qualche aquila di fiume, attirata dalla carne proprio come i coccodrilli. Si scatena una battaglia senza esclusione di colpi e qualche volta l’aquila conquista il pasto perché è più veloce e soprattutto più intelligente. Sembra che capisca quale sarà l’oscillazione del bastone… È quasi buio quando si riprende il bus verso Darwin. Provo un senso di pena per quei giganteschi coccodrilli che, come al circo, devono esibirsi per conquistare un pezzo di carne.

Darwin è più vivace che di giorno, ci sono tanti piccoli bar e ristoranti affollati, c’è l’aborigeno che suona il suo didgeridoo, lo strumento musicale tipico di quelle terre, un ramo robusto di eucalipto scavato dalle termiti e decorato dagli stessi musicisti con disegni tradizionali. L’accompagnatore ci dice che quando è usato per riti sacri le donne non possono utilizzarlo, perché i riti sono quasi sempre legati all’iniziazione maschile. Il suono è profondo e ipnotico, oggi il didgeridoo viene suonato anche in sedute psicanalitiche.




Crains. La porta della grande barriera corallina

Procedendo verso nord ovest, sul Pacifico, da Brisbane raggiungiamo Cairns, una città di
150.000 abitanti, molto frequentata da turiste e turisti che vanno sulla barriera corallina o
via mare, o con elicotteri, deltaplani, ecc. Noi il primo giorno optiamo per una visita alla
foresta pluviale, patrimonio dell’umanità, che raggiungiamo con la Kuranda Scenic
Railway (in foto), un trenino panoramico che attraversa valli verdi e mostra spettacolari
scorci dai viadotti (ancora più spettacolari). Ci sono cascate e piante alte, il clima è caldo
umido. Mi sembra di tornare al passato lontano, quando le montagne non erano costellate
di case, rifugi, chioschetti; quando forse si poteva camminare in silenzio, senza schiamazzi
o musica assordante – come capita ora a chi va in montagna.

Kuranda Scenic Railway

Dal verde incontaminato al Tiapukai Aborigenal Park: siamo accolti da aborigeni che ci
presentano un loro spettacolo, molto “turistico”. A me interessa di più The Bama Way, cioè
seguire la lezione di tiro. Prima mi fanno vedere il boomerang e una lancia di legno, poi mi
spiegano i movimenti giusti, poi mi danno l’esempio… infine tocca a me. Con il boomerang
sono un fallimento, lo lancio e va per conto suo, non ci pensa proprio a tornare da me. Un
istruttore va a recuperarlo con un sorrisetto un po’ ironico. Con la lancia, al secondo tiro,
rischio di colpire un aborigeno. Smetto subito, questo sport non fa per me. L’istruttore si
rilassa.
Al ritorno, ci godiamo Cairns, bella e tranquilla, con strade ampie, palazzi moderni ed
eleganti, tanti alberi ai cui rami, a testa in giù, sono appesi i pipistrelli, a centinaia. È uno
spettacolo un po’ macabro, mi sembrano impiccati. Dopo l’area pedonale commerciale, ai
nostri occhi si rivela l’Esplanade (in foto): un grande parco lungo il mare, affollato di
famiglie con anziani e bambini: chi suona, chi prepara il barbecue, chi gioca.


L’Esplanade

E poi, sorpresa: la Lagoon (in foto), la chiamano laguna, in realtà sembra una fontana con
giochi d’acqua in cui sguazzano i bambini. Man mano che ti avvicini, la fontana si dilata,
diventa un’immensa piscina di acqua salata separata dal mare da una diga. La profondità
varia, ci si può sedere e giocare, si può nuotare e persino fare dei tuffi. Tutto ciò perché in
mare non si può andare per la presenza minacciosa degli squali.


La Lagoon

Arriviamo fino al mare, è bassa marea, c’è una lingua di sabbia punteggiata di gabbiani.
Verso terra, prati, erba verde, fiori e alberi. È veramente uno spettacolo indimenticabile!
La grande barriera corallina è sempre molto affollata. Ci andiamo in barca, sembra di poter
toccare i grandi coralli, speravamo di nuotare con le tartarughe che, disturbate da turisti
chiassosi, hanno pensato bene di andar via. Comunque, i pesci gironzolano intorno a noi
senza troppi riguardi, hanno colori sgargianti e viaggiano in gruppo. Più o meno come noi.


La barriera corallina




Brisbane

Altra città australiana, ricca di verde e di strade ampie e ben tenute, con un’aria un po’ retrò, palazzi vittoriani da un lato e grattacieli modernissimi dall’altro. Vi abitano due milioni di persone e la rendono la terza città più popolosa dell’Australia; è dalla metà del 1800 la capitale del Queensland, attraversata dal fiume Brisbane, un fiume ampio e calmo, percorso da battelli. Questo nome comune alla città e al suo fiume ricorda Sir Thomas Brisbane, il governatore del Galles del sud dal 1821 al 1825. In quegli anni fu anche una colonia penale. In tempi più recenti, cioè durante la seconda guerra mondiale, fu il quartiere generale del Pacifico sud occidentale, retto dal generale Mac Arthur.

 Foto 1. Gallery of Modern Art

Dal terminal abbiamo raggiunto il centro con lo shuttle bus. In realtà ci aspettiamo una città un po’ campagnola perché abbiamo letto che i primi immigrati non reclusi erano contadini, ma ci rendiamo subito conto che politici e industriali non gradivano una immagine “paesana”. Dopo una passeggiata gradevole, tra bei negozi e gente tranquilla, visitiamo la ricca Gallery of Modern Art, dicono che sia la più importante del Paese sia per la gran quantità di opere d’arte internazionali, sia per la presenza massiccia di opere degli artisti indigeni;  facciamo una sosta veloce ai Colective Markets dove si trova proprio tutto, dai vestiti ai gioielli di artigianato artistico locale fino ai pezzi di antiquariato che una volta arredavano le case dei ricchi europei. Un gustoso momento lo dedichiamo al cioccolato…veramente squisito!

Foto 2. Mercato a Brisbane

Altro giorno di sosta, altro tipo di escursione: ce ne andiamo a Lone Pine, il cosiddetto santuario dei koala. Ce ne sono tanti, morbidi come un peluche, distesi pigramente sui rami di eucalipto. Sembrano piccoli uomini stremati falla fatica.

Foto 3. Koala a Lone Pine

Sostiamo sotto un tetto di paglia per la foto di rito: mi mettono un koala fra le braccia ed io sono colpita dalla lunghezza delle sue unghie. Dunque la foto, scattata velocemente, rivela la mia preoccupazione, anche perché indosso un vestito di cotone leggerissimo e senza maniche. Non succede nulla, restituisco il koala e procedo nel parco, dove incontriamo il dingo, il diavolo di Tasmania dagli occhi cattivi, gli emu, qualche serpente e tanti tanti canguri, alcuni alti quasi due metri, che saltano come se danzassero. I più carini sono i wallabies, piccoli e teneri, che accettano volentieri il cibo dalle mani dei visitatori. 

 Foto 4 e 5. Dingo e Diavolo di Tasmania

E’ un parco, non uno zoo, gli animali sono liberi (tranne quelli pericolosi come dingo e diavolo di Tasmania) e abituati al contatto con gli umani. Si dice che in Australia ci siano più canguri che australiani. La nostra guida ci dice che ne viene abbattuto un buon numero, secondo criteri – poco condivisi dalla gente – di eliminazione controllata. Usciti dal parco, ne vediamo alcuni morti per strada, perché investiti da auto e bus.

In genere Brisbane ha un buon clima; noi però sentiamo tanto caldo, un caldo umido e fastidioso. Al ritorno in città, altra passeggiata, degustazione di birre locali e poi…tutti a bordo.




Melbourne

Nel 2013 arrivammo a Melbourne dopo un volo faticoso; che fosse lungo, lo sapevamo… ma ignoravamo che nella fila davanti a noi avremmo trovato una giovanissima mamma con una bimba di pochi mesi. Pianse per tutta la durata del viaggio, benché la mamma cercasse di cullarla, di darle il biberon, di farla “camminare” nei corridoi… Dunque, scesi dall’aereo, avremmo solo voluto dormire, invece la città ci accolse all’alba: l’aria era così tersa e luminosa che la stanchezza (con il nervosismo) sparì. Eravamo preparati a trovarci in una città grande – ma non come Sidney – e vivace, attraversata da un lungo fiume, abitata da genti provenienti dai Paesi più diversi, attenta alle politiche giovanili, ricca di verde e di attività culturali. Tutto vero, ma “di più”. Ci piacquero le strade e le piazze che conservavano – più di Sidney – elementi europei; ci affascinarono i bianchi discendenti dei britannici, i gialli, i neri, tutti ugualmente sorridenti e cortesi, pronti a cedere il posto in tram, a indicarci la direzione ecc. ecc. Quando partimmo, dicemmo che saremmo ritornati. Promessa mantenuta!

Quattro milioni di abitanti convivono civilmente, accolgono gli studenti che arrivano da tutto il mondo nella “città letteraria” dell’Unesco, una delle città più vivibili del mondo. Il fiume Yarra è percorribile con battelli, i vari quartieri sono ben collegati con il centro, con la grande Federation Square, dominata dalla Stazione, dalla Cattedrale e dal grande Centro Visitatori.

FOTO 1. Melbourne Museum

Prima tappa è il Melbourne Museum, ricca collezione di manufatti che raccontano la storia dello Stato di Victoria, di cui Melbourne è la capitale. L’esposizione è ricca e ben organizzata, si vedono gli animali, le piante, le abitazioni, le armi, gli utensili del passato più lontano, e si può approfondire ogni aspetto della civiltà aborigena con strumenti moderni, adatti soprattutto alle numerose scolaresche che incontriamo. Ma noi abbiamo l’appuntamento con Francesca e Virginia, due giovani giornaliste italiane che ho conosciuto per motivi di lavoro, quindi, dopo una visita piuttosto breve, ci precipitiamo a prendere il mitico tram 35, quello che attraversa il centro città ad uso dei turisti e dei residenti. È un tram “storico”, la corsa è gratuita. Arriva, saliamo contenti, una signora ci fa posto, ci sediamo e poi… rumori sinistri, il tram non parte e noi scendiamo. Vorremmo prenderne un altro, che è già arrivato, ma è bloccato dal nostro. Quindi, a piedi – anche a Melbourne ci sentiamo di casa – raggiungiamo Federation Square, incontriamo le due amiche, pranziamo insieme al ristorante giapponese che è sulla piazza, nel cuore della città, nello stesso modernissimo fabbricato in cui ha sede la radio per cui Francesca e Virginia lavorano, la SBS. Queste due giovani donne dall’Italia sono arrivate quaggiù, all’altro capo del mondo: sono serene, lavorano bene, rispettate e adeguatamente retribuite. Virginia ha due bimbi, ma gli asili funzionano e lei non ha problemi; la radio per cui lavora le consente di utilizzare orari flessibili. E così anche suo marito, che lavora altrove, ma trova nella sua azienda uguale comprensione. Ci raccontano che si trovano bene e non hanno intenzione di tornare. In Italia si recano una volta all’anno, in genere tra luglio e agosto. Qui la vita a loro sembra più “facile”, i mezzi pubblici circolano regolarmente rispettando gli orari; dalle 5 p.m. sono libere, incontrano gli amici in un clima familiare e informale. Alla loro radio, lavorano tanti giovani che arrivano dai luoghi più disparati, si sentono come in famiglia. La gente è serena, non c’è disoccupazione e lo stato sociale esiste davvero. Io e Piero le ascoltiamo molto volentieri, mangiamo il gyu tataki nigiri, ma rifiutiamo decisamente le bacchette. Intorno a noi, tante persone che vanno e vengono, gruppi di studenti che si fermano sul muretto che circonda il centro visitatori, bambini che giocano… voci sommesse, nessuno disturba.

Famous Landmark of Architectural Building Design at Australian Federation Square in Melbourne.

FOTO 2. Federation Square

Dopo pranzo Francesca ci fa salire alla radio: è un insieme di “isole”, da ciascuna delle quali si trasmette in una lingua. Le “isole” sono 74, quanto le lingue. Dunque, c’è il mondo. Questa è secondo me la dimensione di Melbourne, una città dal sapore europeo, aperta a tutti.

Salutate le amiche, il nostro giro continua; ogni tanto bisogna pure dedicarsi allo shopping: compriamo quattro bottiglie di vino e, passeggiando nel verde, troviamo il bus che ci porta a bordo.

 

 




Sydney

Entrare nella baia di Sidney è un’emozione che ho già provato, eppure sono sul ponte a prua per accostarmi a questa grande città rivedendo le sue baie, il grande ponte – Harbour bridge – su cui sportive e sportivi salgono e l’Operahouse, quel meraviglioso insieme di gusci bianchi opalescenti che sembrano conchiglie o vele, che si riflettono nel mare e si moltiplicano…

  1. Harbour Bridge

Purtroppo non attracchiamo in porto, perché ci sono altre grandi navi; dunque ci ancoriamo in rada e, per scendere a terra, dobbiamo aspettare in fila che ci sia posto sul tender. Una volta arrivato il nostro turno, ce ne andiamo in centro, percorriamo come due vecchi residenti George Street e ritroviamo prima le Arcades e poi lo spettacolare Victoria Building: entrambe sono strutture vittoriane restaurate splendidamente e diventate raffinati centri commerciali. Ci sono bar e cioccolaterie, negozi di abbigliamento e antiquariato, di giocattoli e accessori, wifi free. Perciò ci fermiamo a lungo per comunicare con il nostro mondo degli affetti e delle amicizie. Nelle Arcades il wc è così raffinato che lo fotografo! Il Victoria Building è più grande, con ampi spazi e scale armoniose, vetrate colorate e grandi orologi. Non mi interessano i negozi, mi piace il riutilizzo intelligente di un vecchio mercato e la gente che va e viene, prende il the, conversa pacatamente.

  1. Victoria Building

Usciamo dopo cena, solita difficoltà di tender e tempo perso. Questa volta ci sbarcano ai Rocks, un porto vicino al centro, sul quale si affacciano bar e ristoranti affollati, sorvegliato dall’alto dal famoso ponte di ferro. Passeggiamo e arriviamo di fronte al Luna Park. Quelli che una volta erano magazzini del porto, sono diventati locali di tendenza, c’è tanta gente che mangia. Dalle sale interne di uno di questi, si sente musica e scopriamo che si festeggia una coppia di sposi. Vediamo anche alcuni invitati ballare. Poi, infreddoliti, torniamo in nave. Il tender è affollato, ci tocca andare al piano superiore coperto, ma aperto ai lati.

Il secondo giorno, da soli, ci muoviamo per le strade di Sydney con grande disinvoltura.

Arriviamo fino alla grande chiesa che sembra chiudere la parte occidentale della città, entriamo e ci sediamo: sotto l’altare un gruppo di giovani studentesse in divisa scolastica suona e canta; nel primo banco alcune mamme osservano felici e compiaciute. Noi chiediamo il permesso di fermarci. Arrivano le classi, ragazzi e ragazze si dispongono nei banchi, seguono lo spettacolo, cantano anche loro sottovoce, applaudono. Niente chiasso o gomitate né cellulari fra le mani.

Raggiungiamo il quartiere cinese, dotato di grandi porte e ricchissimo di negozi a prezzi convenienti, ristoranti e uffici di cambio. Visitiamo anche il mercato Paddy, struttura esterna in mattoni rossi, bella e suggestiva; all’interno è un modernissimo centro commerciale cinese. Guardo un po’ di merce ma sinceramente mi sembra scadente, soprattutto l’abbigliamento.

  1. Chinatown

L’idea che mi sono fatta di Sidney è che si tratta di una meravigliosa grande città dove la qualità della vita è sicuramente buona: non c’è il traffico caotico delle nostre città, mi dicono che chi vive fuori  e vuole andare in centro, si muove velocemente con i battelli che collegano le varie baie. Per le strade non si vedono mendicanti, ma qualche aborigeno che suona il didgeridoo, una specie di lunga “tromba” ricavata da un ramo di eucaliptos già scavato dalle termiti e ritenuto sacro dai residenti.

Proseguiamo poi per Bondi Beach, a pochi chilometri da Sidney, oggi luogo del surf, un villaggio costiero con lunga spiaggia ventosa, una volta abitato da immigrati europei. Dobbiamo ripararci nella casa dei surfisti per evitare che la sabbia, oltre a entrarci in bocca, negli occhi e nelle orecchie, rovini gli obiettivi di Piero. Pare che la parola Bondi sia di origine aborigena e indichi l’acqua che arriva sulla sabbia. A volte le onde sono altissime e pericolose; si racconta che negli anni ’30 del secolo scorso in un sol giorno morirono cinque bagnanti e altri duecento furono miracolosamente strappati alla furia del mare.

  1. Bondi Beach

La permanenza a Sidney volge al termine: questa città mi affascina con le sue tante baie, i grattacieli che si inseriscono “naturalmente” fra palazzi liberty, quell’insieme di gusci perlacei che è l’Operahouse, la gente che si muove con ordine, le razze che si incrociano in una convivenza ovvia, naturale, civile. E pensare che i primi abitanti deportati sulla grande isola dall’Inghilterra erano dei galeotti!

 

 

 

 




Due giorni ad Auckland

Siamo ad Auckland, in Nuova Zelanda, terra di pecore e lana, di giocatori di rugby, di coni vulcanici spenti, su cui sorge la città che è tutto un salire e uno scendere. La guida che ci accompagna si chiama Nadia, è milanese e da otto anni vive qui. Racconta molto bene gli elementi che differenziano questo Paese dall’Italia, fa notare il sentimento forte di democrazia e il rispetto attento delle regole da parte di tutti. Ci sono bei quartieri con costruzioni vittoriane, visitiamo un giardino d’inverno dal sapore antico e dall’esterno ammiriamo il grande Museo che rappresenta tutta la  storia dei neozelandesi, dai colonizzatori Maori a quelli inglesi, fino alla prima guerra mondiale. La città è molto estesa, la baia assai ampia, percorsa da frequentissimi ferry. La gente preferisce vivere lontano dal centro, in case singole, più o meno grandi, con giardino. Estesi e ben tenuti sono i parchi, con vegetazione rigogliosa. I campi da cricket si affittano gratis. Dove c’era acqua, ora ci sono mangrovie, piuttosto invasive. Piccolo quartiere elegante e raffinato è Davenport, con case ben tenute, spiaggia e giardini.

Foto 1. Victoria Street

La strada principale è la Victoria Street, su cui si affaccia una bella biblioteca dalle grandi vetrate e dal tetto in legno. C’è un settore dedicato alle scrittrici, scovo Alcott e Austen, Allende e Bronte. Nessuna scrittrice italiana, credo. Con un atto di grande presunzione, lascio in regalo il mio saggio sulle scrittrici italiane. Mi ringraziano con un dubbio negli occhi: qualcuno lo leggerà?

Foto 2. La biblioteca

Il centro di Auckland è attraversato dalla Queen Street, che noi percorriamo varie volte: ci sono negozi di lusso (Prada Dior Vuitton Gucci) ed empori cinesi; da una via laterale, in salita, si arriva alla Sky Tower, solito gigante in cemento e acciaio, alta 328 metri. Naturalmente ci andiamo, ammiriamo il panorama mare-terra-cielo da tutti i punti e livelli possibili e assistiamo anche al lancio di uno jumper che, percorsa una breve passerella, debitamente attrezzato, si lancia nel vuoto. Che bello essere giovani e che peccato essere stati giovani quando queste emozioni forti non si potevano provare! Una volta tornati a livello strada, ci sediamo a guardare altri ragazzi che si lanciano giù.

Certamente qui la qualità della vita è buona. La guida ci ha detto di non sentire nostalgia per l’Italia, dove vivono i suoi due figli. Torna a Milano una volta all’anno ed è contenta così.

Il giorno successivo, di nuovo, Queen Street.

Foto 3. Queen Street

Mi piacerebbe girare in un supermercato per vedere cosa compra la gente del posto. Entro in uno, decorato con felci, tipica vegetazione del luogo. Vorrei comprare le bustine per fare la bevanda al lime, le ho viste a Tonga, ma siccome erano made in New Zelandnon le ho comprate. E ho fatto male, perché qui non le trovo. Ci sono prodotti di multinazionali, Garnier, Oreal, Nivea, Ferrero, Lindt. I prezzi mi sembrano molto alti, non compro nulla.

Vedo scolaresche in fila, ordinate. Tutte in divisa, senza cellulari in mano. Gli insegnanti accompagnatori li precedono e qualcuno li segue. Nessuno urla, nessuno schiamazza. I maschi hanno i berretti in testa con il coprinuca per evitare i raggi solari. Le femmine hanno capelli lunghi. Tutte e tutti coprono le braccia con giubbini o polo.

All’interno del porto mi fermo per scegliere magneti e altre sciocchezze.

Alle 13.00 si parte. Ciao, Auckland, città di mare e vele!

Foto 4. Volvo Ocean Race in Auckland

 

 

 




Tonga, “Patria dell’amore”

Siamo a Nuku’Alofa, la capitale di questo regno sperduto nel Pacifico. Scendiamo dalla nave e ci accolgono con canti e danze, c’è anche una banda formata da ragazze in divisa. A tutti i passeggeri mettono una collana di piccoli fiori arancioni al collo. Carina, ma punge. Me la metto in testa come una coroncina.

  1. Carta di Tonga

Il nome di questa capitale, che conta meno di duemila abitanti (1000 adulti e 700 bambini) vuol dire “Patria dell’amore”. Io e Piero andiamo verso il centro, troviamo un mercatino per turisti e poi un mercato vero, con frutta verdura e oggetti di paglia che servono ai tongani per la vita quotidiana. Le donne indossano un gonnellino di foglie intrecciate a striscioline: è il segno del rispetto che ci portano, il gonnellino si usa nelle occasioni importanti. Gli uomini usano una gonna nera tipo pareo sulla quale avvolgono una stuoia. Prima di fotografare un bambino che è con la mamma al mercato, chiedo il permesso. La mamma, felice, chiama anche gli altri tre figlioletti, se li stringe e sorride: fotografo il bel gruppo famigliare. L’escursione si fa in scuolabus, un po’ rannicchiati. La guida è una ragazza di 26 anni, si chiama Eunice Pongipongi, ci racconta esprimendosi in un buon italiano di aver studiato in Nuova Zelanda e di vivere ora sull’isola con marito e figlio. Conosciamo il bimbetto perché una sosta si effettua nel luogo dello sbarco di Cook, dove c’è un banchetto con souvenirs: la madre di Eunice è la venditrice, il piccolo Joe si attacca alle gambe della mamma. Nel corso dell’escursione vediamo qualche palazzo reale, anche quello dove abita la regina madre, la Chiesa cattolica di Sant’Antonio, le tombe reali e alcuni cimiteri.

2-3 Al mercato

Qui al cimitero sono sepolti i poveri, i ricchi hanno nei loro giardini più degna sepoltura. I tumuli di terra sono addobbati con fiori e teli colorati, più o meno preziosi. Uno è abbellito con un copriletto damascato bianco. Eunice ci dice che quando muore qualcuno, i parenti meno vicini provvedono al pranzo dei parenti stretti. Se non c’è il tempo, ci si rivolge a un’impresa di catering che pensa a tutto e che mette a disposizione anche ampi spazi. Insomma, il funerale diventa occasione di incontro per persone che magari non si vedono da molto tempo (anche se su un’isola così piccola mi pare strano…) o che invece tornano dalla Nuova Zelanda o dall’Australia.

  1. Cimitero

Le case sono di proprietà di chi le abita, i tetti sono coperti di foglie dell’albero del pane. I giardini sono curatissimi. Il re regna, con un parlamento formato (ci avrei scommesso!) da soli uomini. Regime assoluto. Le donne ballano con il corpo unto di olio di cocco. Se si tratta di ragazze, si attende che l’olio goccioli insieme al sudore: sarebbe la prova della verginità della ballerina. Io ho l’impressione che in questo regno gli unici a non avere problemi siano i reali e i loro adepti. Intorno mi sembra di vedere una dignitosa povertà, per nascondere la quale uomini e donne ostentano denti d’oro, anche da giovani.

L’isola è piatta, niente colline e piccole valli verdi come in Polinesia. Però c’è un trilite, una porta in pietra costituita da tre massi. Forse è uno strumento per misurare il tempo o i solstizi, evoca Stonehenge. È del 1200 circa.

  1. Trilite

Dopo essere stata a Papeete, Moorea e Bora Bora, questa impronunciabile capitale mi lascia indifferente, o forse no, è un mondo ancora primitivo che cerca di attirare turisti… e non sa che, dove arrivano i turisti, muore l’autenticità, almeno un po’.

 

 

 

 




Polinesia francese: Bora Bora

Bora Bora – a parte il nome che ricorda Trieste e il suo vento – ci appare come un miraggio. Azzurrissimo. Dal mare emerge un arcobaleno insperato. L’escursione è programmata alle 11.15 e siccome siamo in rada non è possibile scendere prima dalla nave. Mi sento un ostaggio.

Mappa dell’isola

Saliamo sul truck, un camion con pianale attrezzato con sedili, addobbato con fiori e foglie, e facciamo il giro dell’isola, che è più grande di Moorea, più turistica, con alberghi per vip direttamente sul mare, nel senso che i bungalows sono poggiati su palafitte. Qualcuno ha il pavimento trasparente per vedere i pesci. Non mi attira dormire sull’acqua. Né mi piacerebbe essere a Bora Bora e vivere rinchiusa in un “ghetto”, sia pure di gran lusso, lontana dal mondo vero. Anche qui, colori da cartolina.

Foto 1. Paradiso subacqueo

Visitiamo una “fabbrica” di parei e una ragazza ci offre frutta e acqua, oltre a spiegarci la tecnica dei colori e dei disegni ottenuti giocando con foglie che danno il colore e figurine ritagliate da vecchi copertoni (tartarughe delfini sole luna felci ecc.). Immersi nell’acqua colorata, poi stesi su graticci al sole, con i pezzi di copertone che poggiati sulla stoffa creano ombre e disegni: una volta asciutti, i parei rivelano il loro fascino!

Ne compro alcuni, non so più quanti parei siano già accantonati in valigia…ma dall’Italia fioccano le richieste!

Comprare un pareo che ha i colori e i disegni tipici di questi luoghi non vuol dire soltanto avere in valigia qualcosa da regalare, ma aiutare queste ragazze che vivono insieme, nelle casette dove lavorano e vendono. Mi sussurrano che sono ragazze-madri o giovani vedove. Intorno qualche bambino, nessun uomo adulto. Sono dignitose, allevano i loro figli, lavorano onestamente e, sempre, sorridono, anche con gli occhi.

Foto 2. I colorati parei

Prima che finisca il giro ufficiale, ho il tempo di ferirmi al braccio destro sfregandolo con forza sul finestrino del truck. Il ragazzo che ci accompagna mi disinfetta, ma il bagno che andiamo a fare su una bella spiaggia è limitato per me: sembro una rotonda veterocomunista che si immerge con braccio levato e pugno chiuso! Il mare è molto calmo, meno caldo di ieri, popolato da tanti pesci, anche abbastanza grandi e colorati. E chiaro, trasparente fino alla barriera corallina. Poi diventa di un blu intenso.

Dopo, giro nei negozietti del molo e nuovi acquisti: monoi (olio per il corpo), saponi al tiarè, un bel tessuto bianco con disegni geometrici neri. Ne farò fare un tubino.

Anche qui, donne-uomo o uomini-donna e sempre l’interrogativo: sono condizionati dalla famiglia e dalla tradizione? Sono bisessuali? Hanno voce maschile e garbo femminile, capelli spesso raccolti in uno chignon e abiti colorati. Sono truccati/e con discrezione.

Queste isole da favola mi hanno fatto pensare ai francesi che le hanno colonizzate: sono stati bravi, le popolazioni sono tranquille e serene, sembrano ospitali e solidali, vivono in luoghi curati e rispettano i vecchi, i bambini e l’ambiente. A proposito, siccome la sepoltura dei morti in cimitero è costosa, molti seppelliscono i loro cari in giardino. Abbiamo visto parecchi esempi.

Foto 3. Cani in spiaggia

Altra cosa sono i grossi cani che circolano in libertà e fanno un po’ paura e i granchi robusti che scavano in terra le loro tane, da cui escono velocissimi per catturare fiori freschi (non per abbellire le tane ma per mangiarli). Dal truck abbiamo gettato fiori e foglie e subito sono emersi dal buio e hanno trascinato dentro il profumato bottino.

Foto 4. Granchi all’opera

La tappa polinesiana è finita: dei luoghi, delle persone, del truck e dei granchi rimane un ricordo luminoso e sereno.

 

 




Polinesia francese: Moorea

Qui arrivò capitan Cook nel 1867, nella baia di Opinoho dove è ancorata la nave. Questo è un luogo magico: la natura è rigogliosa, selvaggia e incontaminata, ma non aggressiva. Solo prepotente. Ci sono picchi molto alti (2000 metri) e vallate verdi che si tingono di blu quando toccano il mare. I colori sono quelli delle cartoline che ho spedito (solo due!), i fiori sono dovunque, le casette hanno giardini curati e ridenti. 

Foto 1. Panoramica della baia di Cook

Moorea è un’isola fascinosa, meta di turismo ricco e internazionale, con alberghi di lusso, resort che si sporgono sull’acqua, spiagge da sogno, bianche lunghe luminose, ma nulla è ostentato, c’è una discrezione palese. 

Vediamo i misteriosi marae, templi o altari di pietre. Si sa poco della loro storia. A me viene spontaneo pensare che i romani  gli altari li chiamavano arae, ma non oso fare alcun collegamento.

Foto 2. La spiaggia

Nel pomeriggio, con una coppia appena conosciuta, ce ne andiamo alla spiaggia dell’Hotel Hybiscus, non si può venire in Polinesia senza fare un bagno! La spiaggia è libera, l’albergo è pronto a offrirla, ma non dispone di sedie lettini ombrelloni. A noi va bene così, siamo dentro il sogno. E dentro le cartoline, con palme e sabbia dorata. L’acqua è calda, io non uscirei più. La nuova amica non ha indossato o portato il costume, questa gita in spiaggia non era prevista. Si toglie la tshirt, rimane in reggiseno e pantaloncini e fa il bagno lo stesso. Ci accampiamo presso una scaletta, dove c’è un po’ d’ombra e dove Piero può sedersi tranquillamente. Il mare è sempre più blu… come dice una vecchia canzoncina. 

Anche qui, andando via, ispeziono il w.c. per togliermi il costume bagnato: la receptionist mi accompagna in una stanzetta e mi indica il bagno: pulizia, profumo di fiori e petali sul lavandino. E infinita spontanea cortesia.

Foto 3. La cortesia polinesiana

Sono emozionata, mi sembra di non aver visto mai un posto così assolutamente bello e di non aver mai vissuto un pomeriggio così dolce.

Foto 4. Polinesia francese

In copertina. veduta aerea di Moorea 




Papeete

Dalle sei del mattino mi metto in vedetta. L’ingresso del porto è bello, c’è tanto verde, la città conta quasi 200.000 abitanti. Questa isola ha una penisola, Tahiti. Il solo nome evoca Gauguin e le sue donne con fiori nei capelli. Scendiamo alle nove, accolti con danze canti e fiori da un gruppo allegro e colorato. Il fiore che ci offrono è il tiare, sembra un mughetto più grande dei nostri, è bianco e profumatissimo. Troviamo subito il Mercato comunale, una costruzione luminosa e moderna dove sono esposti a piano terra generi alimentari e souvenir di paglia, al primo piano tessuti, perle e oggetti vari. La perla nera o grigia con venature argentee o verdastre è la regina.

Nel pomeriggio andiamo verso la costa orientale, piccole spiagge, mare aperto molto mosso. Vediamo l’approdo dei primi navigatori, la spiaggetta dei soffioni, senza sabbia, coperta da coralli e madrepore, luoghi panoramici, chioschetti dove le donne vendono banane mignon. La guida ci dice che le genti polinesiane amano il passato, rispettano anziani e anziane, vivono serenamente. Sanno non pensare, è questo forse che ha incantato Gauguin?

FOTO 1

Nel pomeriggio usciamo da soli, entriamo nella piccola e semplice cattedrale di Notre Dame impreziosita da una Via Crucis naive e da un ostensorio di legno. Efficaci.

Dopo cena, nuova passeggiata: non c’è una movida in senso italiano o europeo. È venerdì, a pochi metri dalla nave ci sono le “roulottes”, camioncini attrezzati che diventano ristoranti: in un momento dal cassone escono tavoli sedie tovaglie di plastica fornelli stoviglie. L’aspetto igienico mi sembra trascurato, ma la gente che mangia, le famigliole con i bambini sono allegre e in salute. Cerchiamo qualche bar, qualche posto da giovani, non per noi ovviamente, ma per vedere e capire: un bar schiera all’ingresso due pirati di cartapesta, ci sono ragazze, ragazzi e musica live; un altro mi sembra dedicato alle coppie omosessuali. In diretta assisto a un appassionato abbraccio lesbico. Piove a scrosci brevi ma violenti. Vorremmo ripararci da qualche parte, mi affaccio nel secondo bar ma l’invito pressante di una ragazza a sedermi accanto a lei non mi convince. Preferiamo i portici, finché non smette di piovere. Donne che sembrano vecchie intrecciano profumate corone di fiori freschi da vendere. Ma io non ne compro perché non sono tahitiana e soprattutto… perché non c’è Gauguin!

Quando leggemmo l’itinerario, ci chiedemmo che necessità ci fosse di stare due giorni a Papeete. Ora lo sappiamo, e se invece di due i giorni fossero stati tre o quattro, ne saremmo stati ancora più felici.

Usciamo presto, liberi da vincoli ed escursioni organizzate: passeggiata serena, altre sorprese ci attendono. Il Parco Bouganville è un piccolo giardino pieno di fiori e piante in centro, dietro l’ufficio postale (ormai mi sento una papeetese!). 

Ci sono, sul limite che affaccia verso il mare, delle bancarelle con parei perle magneti e monoi. Ma ci sono anche uomini colorati che suonano e cantano, accompagnando una fanciulla (di Gauguin ?) che danza dolcemente, avvolgendo intorno al corpo i suoi parei. Ci sediamo e subito arriva una persona che ci offre degli spicchi di frutta. Non sappiamo se sia uomo o donna. È vestita truccata e pettinata da donna, ma ha i lineamenti maschili, la voce baritonale, la barba rasata ma visibile. Ci ricordiamo quello che ci ha raccontato la guida Gerald: in famiglia il terzo figlio, se maschio, deve essere educato come una femmina perché dovrà curarsi dei genitori. Lo vestono lo educano lo abituano gli parlano come a una bambina. In qualche modo, sono i genitori a indicargli (indicarle) la strada. Alcuni poi si sposano, hanno figli, ma quella preparazione alla vita nel sesso diverso li condiziona per sempre. Gerald ha detto che sono tanti, che non dobbiamo giudicarli o condannarli… sono il frutto di una tradizione antica.

Che lunga digressione, torno alla danzatrice che noi guardiamo rapiti.

Come tutte le donne, ha un fiore fra i capelli. Dicono che se è messo a destra, vuol dire che la ragazza è libera, se è a sinistra, che è impegnata. E se i fiori sono due? Forse la donna vuol far sapere che è impegnata, ma potrebbe liberarsi.

Finita la danza, mi si avvicina e mi chiede di danzare con lei. Le dico di no in modo deciso, ma lei insiste, insiste molto e non sono capace di resistere. Mi sembrerebbe di offenderla. Vado con lei al centro della piazza, mi mette sui fianchi un pareo e mi invita a seguire i suoi movimenti, un leggero ancheggiare, un movimento morbido delle braccia e delle mani, un girare ora a destra ora a sinistra ora su me stessa. Piero fotografa. Io sono felice, anche se so che non sono giovane e magra come lei, né so ballare come lei.

Nel pomeriggio, nuova passeggiata, dopo l’acquisto di una camicia per Piero: non è la tahitiana blu a fiori gialli o rossi, ma una raffinata chemise (qui parliamo in francese da mattino a sera!) bianca con disegni geometrici grigi sul lato destro. Ottimo il cotone, liscio e leggero come seta. La proprietaria dell’elegante boutique mi ha venduto anche alcune deliziose donnine polinesiane magnetiche di legno, fatte palesemente a mano. Mi ha fatto notare che alcune avevano il reggiseno a triangolo, altre due noci di cocco, le coconettes. Naturalmente ho scelto queste ultime e la signora gentilmente, pur in presenza di altri clienti, le ha cercate in un mucchio, indicandomi anche i colori dei costumi. Insomma, mi ha dedicato un bel po’ di tempo per oggettini che costano meno di un euro!

FOTO 2 

Altro parco, lato mare, già visto dalla nave. Aiuole, fontane, ninfee, prati verdi, canoe sovrapposte sulla spiaggia. Sotto ampi padiglioni ricoperti di foglie di un albero tipo palma ci sono persone che leggono, una festa di bambine e bambini con palloncini e senza schiamazzi, amiche e amici che parlano pacatamente. C’è gente che si riposa o legge sul prato. Tutto è silenzio e serenità. Ci sono anche tanti “monumenti”, semplici maestose pietre che ricordano la conquista dell’autonomia, gli esperimenti nucleari (e le vittime), i governanti saggi.

FOTO 3