L’ultimo spartito di Rossini

Simona Baldelli (in copertina), pesarese residente a Roma, ha esordito qualche anno fa con Evelina e le fate, un romanzo ambientato nella campagna marchigiana durante la seconda guerra mondiale. L’opera, finalista al Premio Calvino nel 2012 e pubblicata nel 2013 da Giunti, ha vinto il premio John Fante Opera Prima. Il secondo lavoro di Baldelli, Il tempo bambino, (Giunti 2014), affronta il tema caldo della pedofilia, ma con un taglio originale. La vita a rovescio (Giunti 2016), è invece un romanzo storico incentrato su una storia vera, quella di Caterina Vizzani, un’avventuriera che nell’Italia del 1700 visse alcuni anni travestita da uomo.

L’ultimo spartito di Rossini, la più recente fatica della scrittrice, è un omaggio al suo grande conterraneo nel 150esimo della sua morte. Ma cosa si può scrivere di un personaggio di cui si è già detto tutto? A questa domanda la brava Simona Baldelli risponde attraverso un romanzo storico ambientato nell’Italia dell’Ottocento. Come recita l’avvertimento iniziale, L’ultimo spartito di Rossini è un’opera di fantasia dove “i fatti storici narrati sono liberamente interpretati”, ma nello stesso tempo è un lavoro molto attento alla cultura, anche materiale, dell’epoca, e l’ambientazione è costruita attraverso una rigorosa indagine condotta sui documenti: l’ampia bibliografia ricordata alla fine non fa che confermare l’impressione avvertita durante tutta la lettura.

La vicenda si snoda sulla base dell’epistolario rossiniano e dei documenti conservati presso la Fondazione Rossini di Pesaro ed è aderente alla realtà storica, ma si presenta anche come una riflessione sul fenomeno, purtroppo sempreverde, dell’invidia e della calunnia contro chi raggiunge il successo. “L’invidia non è l’aspirazione a innalzarci, ma la speranza che l’altro precipiti. Il desiderio di un orizzonte piatto, in cui nessuno emerga”: questo il giudizio – che investe il pubblico, ma anche le persone competenti e la critica dei giornali – messo in bocca a un personaggio, il pittore Camuccini, che compare in un episodio del romanzo. Il musicista lo incontra, insieme allo scrittore Stendhal, durante uno dei suoi numerosi (e detestati) viaggi, scambia qualche opinione e, secondo l’usanza del tempo, condivide con lui una stanza per la notte alla stazione di posta. Il tema dell’invidia sociale ritorna altre volte, costituendo una sorta di leitmotiv della narrazione.

Del personaggio Rossini, Baldelli ricerca l’umanità e la complessità oltre l’immagine stereotipata che lo stesso compositore, in qualche modo, aveva contribuito a costruire, quella di un uomo gioviale dalla battuta pronta, amante delle belle donne e della buona tavola, del buontempone, del bon vivant. Dietro questa maschera si nasconde un uomo perseguitato dal timore di non essere veramente all’altezza della sua fama, nonostante il successo ottenuto già in vita in tutta Italia e in Europa; un uomo di genio capace di creare grandi capolavori, che però per tutta la vita sogna di comporre l’opera perfetta che lo renda immortale e metta d’accordo tutti, un “ultimo spartito” che faccia finalmente tacere i  detrattori da cui si sente perseguitato. Per superare l’angoscia che le critiche gli procurano Gioachino si costruisce una “scorza” che possa difenderlo rendendolo insensibile a ciò che avviene fuori. È questa scorza che gli consente di superare la disastrosa prima del Barbiere, al teatro Argentina di Roma, quando i suoi nemici organizzano una ignobile gazzarra durante lo spettacolo e sul palco viene lanciato di tutto, persino un gatto; oppure l’umiliazione subita nella sua stessa città natale, all’inaugurazione del Teatro Nuovo di Pesaro con La gazza ladra, opera che ha già riscosso un successo strepitoso a Vienna. Travolto dalle angosce morali causate dalle critiche (Stendhal scrive una Vita di Rossini piena di ingiuste accuse, oltre che di inesattezze) ma soprattutto dalla morte della madre amatissima, e dai tormenti fisici provocati dalla sua malattia, a trentasette anni Rossini, dopo aver composto il Guglielmo Tell, smette di scrivere opere liriche e sprofonda in una penosa depressione, da cui esce a fatica, con l’aiuto determinante della sua seconda moglie, la giovane e bellissima – ma anche tostissima – Olympe Pélissier. È questo personaggio meno scontato, questa parte in ombra dell’uomo Rossini che viene indagata da Baldelli, con delicatezza, con affetto anche, ma senza tacere sulle realtà scomode; e alla luce di questa dolorante umanità acquistano un valore diverso anche gli aspetti più noti e scontati della biografia rossiniana: le bisbocce, le bizzarrie, gli eccessi.

Un tocco di surreale, che non manca mai nei romanzi della nostra autrice, è costituito dai colloqui di Rossini con Mozart e Beethoven, che per l’occasione oltrepassano le cornici dei ritratti esposti nella villa di Passy, oppure da invenzioni felici come quella delle dita di Paganini che si staccano, muovendosi per conto loro, dalle mani del grande violinista: splendido il sulfureo ritratto che ne fa Baldelli, ma non è l’unico in queste pagine in cui prendono vita gli ambienti e le persone che il compositore frequentò nelle diverse città dove visse: Pesaro, Bologna, Napoli, Roma, Parigi, Vienna, Londra, ovunque acclamatissimo e riconosciuto come un genio musicale, nonostante la presenza dei detrattori.

Un romanzo che si fa leggere anche dai non melomani, che ci troveranno un personaggio colto da un’angolatura originale e più di un motivo di riflessione, oltre a una narrazione sapiente, felicemente scorrevole, che sa divertire e commuovere.

Simona Baldelli

L’ultimo spartito di Rossini

Piemme 2018

Pagg. 381

€ 18,50




Adelaide. Una vip del Medioevo

Se ne parla in molte cronache benedettine come della “Beata Adelaide”, ma su di lei non risulta alcun processo di canonizzazione. Probabilmente furono le generose donazioni a favore di chiese, conventi e abbazie che fruttarono una solida fama di santità alla contessa Adelaide, grande feudataria dell’XI secolo; anche se forse a spingerla verso queste  elargizioni non fu solo la devozione religiosa, ma la necessità di crearsi una rete di alleati potenti che le garantissero il controllo dei valichi alpini. Di lei d’altra parte si è detto di tutto, che cavalcava meglio di un uomo, vestiva l’armatura e interveniva personalmente sul campo di battaglia in mezzo ai soldati. Per certo sappiamo che governò per trent’anni lo stato dei Savoia da poco approdato in Italia e fu rispettata e amata dal popolo, tanto che la sua figura è diventata quasi leggendaria.

Ma chi era questa donna? Conosciuta anche come Adelaide di Susa o Adelaide di Savoia, nasce probabilmente nel 1016 (la data non è certa) forse a Torino, forse nel castello di Susa (foto di copertina) ed è figlia di Olderico, conte di Torino e marchese di Susa, della stessa famiglia di Arduino.

Nel 1045, ancor giovane ma già due volte vedova – in controtendenza rispetto al suo tempo, quando la vedovanza era una condizione in prevalenza maschile, perché spesso le donne morivano di parto – Adelaide si risposa in terze nozze con Oddone conte di Savoia, figlio di Umberto Biancamano, capostipite della famiglia d’Oltralpe. Matrimonio importante, dal momento che la sposa reca in dote un vasto territorio di confine che comprende la Valle di Susa, Torino e il Canavese e permette al giovane e ancora oscuro casato savoiardo il controllo di importanti vie di comunicazione e, in prospettiva, quell’espansione in terra d’Italia che sarà il suo destino. Il destino personale di Oddone invece è quello di lasciare ancora una volta vedova Adelaide, che si trova così a reggere lo stato per conto dei figli minori: Pietro, Amedeo (che sarà il futuro conte di Savoia) e Oddone. Delle due femmine, Berta andrà sposa a Enrico IV di Franconia, futuro imperatore, mentre l’ultimogenita, che porta lo stesso nome della madre, Adelaide, si unirà giovanissima a Rodolfo di Svevia.

Dal 1060 in poi Adelaide sceglie di governare da sola, dimostrando un’abilità politica di tutto rispetto. Sono i tempi in cui i nascenti comuni e i vescovati mirano a rendersi indipendenti rispetto alle gerarchie feudali, e la contessa gioca fino in fondo la sua partita nel difficile scacchiere politico italiano, che vede anche la contrapposizione tra le due massime autorità del papato e dell’impero. È proprio un episodio di questa contesa, quello drammatico che ha come protagonisti il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, a offrire ad Adelaide l’occasione di assumere un ruolo politico di primo piano. Quando nel 1077 l’imperatore scomunicato è costretto a valicare il Moncenisio e scendere in Italia attraverso la via Francigena per tentare l’indispensabile riconciliazione con il papa, è Adelaide, sua suocera, a permettergli di transitare nelle sue terre e poi ad accompagnarlo a Canossa, dove sua cugina Matilde di Toscana ospita il pontefice. Qui Enrico riesce a ottenere il perdono papale grazie al carisma di Adelaide, la cui mediazione è fondamentale. Da quel momento la Marchesa delle Alpi Cozie (così la chiama il popolo) vede aumentare molto il suo prestigio e il fatto di Canossa segna il primo, significativo intervento della Casa di Savoia nella politica internazionale.

Un enigma accompagna l’ultimo periodo della vita di Adelaide. Venuta a conflitto con Enrico IV, che spinge il figlio Corrado a rivendicare il Canavese come erede di Berta, Adelaide, molto anziana per i tempi e sopravvissuta a quasi tutta la sua discendenza, non si sa se malata, stanca e presaga della prossima fine oppure abbandonata dai propri sostenitori, rinuncia alla lotta. Si rifugia a Canischio, sopra Cuorgné, nella Valle dell’Orco, e in questo sperduto villaggio fra le montagne muore in solitudine il 19 dicembre 1091. La sua sepoltura non è mai stata individuata.

 Intitolazione a Pinerolo. Foto di Loretta Junck




Cristina di Francia, duchessa Savoia, prima Madama Reale

Figlia di Enrico IV re di Francia, la fecero sposare al principe ereditario e futuro duca di Savoia Vittorio Amedeo I per rafforzare il rapporto con lo stato a cavallo delle Alpi in funzione antispagnola. Era il 10 febbraio del 1619 e Cristina, sposa bambina, compiva in quel giorno tredici anni. Suo marito ne aveva quasi venti di più.

Nell’austera reggia di Torino le giornate della giovane principessa, abituata alla brillante vita di corte parigina, non dovevano essere troppo allegre. Anche perché tanto era vivace e amante della bella vita lei, quanto taciturno e poco socievole appariva Vittorio Amedeo, che alle feste preferiva la caccia e le passeggiate solitarie ed era di costumi sobri. Eppure, ironia della sorte, fu proprio una sontuosa cena offertagli da un diplomatico francese, il duca di Créquy, a costargli la vita. Probabilmente fu vittima di un’intossicazione alimentare: tutte le persone invitate al banchetto si sentirono male, ma il duca ne morì.

Cristina, che aveva messo al mondo quattro femmine e due maschi, divenne reggente in attesa che i figlioli raggiungessero la maggiore età. Bella, intelligente e intraprendente, Madama Reale  – per sottolineare la propria stirpe regale volle per sé questo titolo, che in seguito fu attribuito anche a un’altra duchessa di Savoia, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours  – si ritrova non ancora trentenne finalmente libera di vivere a modo suo: a corte si mormora che si circondi di amanti e si sia scelta un favorito, il conte Filippo di Agliè, bello, colto e ardimentoso e consigliere di fiducia della duchessa. I due si conoscono dai tempi in cui la famiglia ducale, per sfuggire alla peste, era rifugiata a Cherasco, nel Cuneese, e da allora sono molto amici. I soliti ben informati sostengono che addirittura sarebbe Filippo il vero padre dell’erede al trono. Ma Cristina non è tipo da farsi troppo spaventare dal gossip, tanto più che al potere prende gusto e si rivela una politica di razza, destreggiandosi abilmente tra minacce di ogni tipo. I cognati cercano di strapparle la reggenza, mentre il Cardinal Richélieu, alleato pericoloso, mira ad annettere il piccolo stato dei Savoia alla corona francese. Energica, duttile e astuta, la reggente riesce a liberarsi dei suoi nemici interni e a conservare l’indipendenza del ducato sfruttando a proprio vantaggio la rivalità tra la Francia e la Spagna. Anche quando il figlio superstite assume formalmente il potere, nel 1648, Cristina continua a occuparsi della corrispondenza ufficiale, a ricevere gli ambasciatori, e fino alla morte mantiene nelle proprie mani le redini dello Stato.

Foto 1. Ritratto di Madama Cristina

Non aveva ancora sessant’anni quando morì, e da qualche tempo una conversione religiosa aveva cambiato radicalmente la sua vita: era arrivata a seguire quindici messe al giorno, sottoponendosi anche a penitenze crudeli. La bella donna dal sorriso seducente che i pittori del tempo avevano raffigurato in abiti sontuosi, ornata dei gioielli che tanto amava, ci guarda dall’ultimo ritratto con occhi spenti e malinconici, racchiusa in neri panni penitenziali. Venne sepolta vestita con il saio monacale nella chiesa di Santa Cristina, che lei stessa aveva fatto costruire nell’odierna piazza San Carlo per affidarla alle Carmelitane scalze.

Questo non bastò a evitarle critiche feroci da parte degli storiografi, che non le perdonarono l’ambizione e la libertà di costumi e criticarono il suo programma di spese, considerate eccessive. Eppure Torino conserva ancor oggi non pochi segni del buon gusto della prima Madama Reale, che trasformò la sua città in una elegante e moderna capitale europea.

Foto 2. Ritratto e intitolazione di una via centrale a Torino

In copertina. La piazza torinese

 




Buongiorno a tutti. E a tutte

Ebbene sì, confessiamocelo, tener conto del rispetto di genere nella comunicazione è una gran bella fatica, che si aggiunge alle altre esigenze ben note a chi ha occasione di scrivere o di editare scritti altrui. Oltre alla indispensabile correttezza ortografica, morfologica e sintattica,  bisogna scegliere un lessico appropriato e magari anche efficace, sostituire i termini ripetuti, fare attenzione alla punteggiatura, eliminare fastidiose pesantezze. E tutto questo discorso riguarda solo l’aspetto formale, perché la prima preoccupazione, naturalmente, è quella di scrivere qualcosa di sensato e magari di utile. C’è proprio bisogno di aggiungere una fatica ulteriore? Di scrivere sempre “bambini e bambine”, “figlie e figli”, “cittadine e cittadini”? Di scervellarsi per superare il cosiddetto “maschile inclusivo”, di fare a pugni con gli aggettivi, i pronomi e i participi passati che richiedono inflessibilmente le concordanze, lottando con una lingua che da questo punto di vista non ci facilita proprio il compito e anzi ci pone un sacco di problemi?

Sì, ce n’è bisogno.

Ce n’è bisogno perché l’uso di un linguaggio corretto rispetto al genere sta diventando in qualche modo una bandiera per dichiarare da che parte si vuole stare in un Paese dove il becero maschilismo che domina la vita sociale, la pubblicità, il costume non suscita quasi mai la riprovazione che si meriterebbe, passando come “normale” mentre normale non è.

Ce n’è bisogno perché è possibile che un’attenzione costante al modo di usare la lingua rispetto a questo problema riesca a sensibilizzare qualche persona non del tutto incapace di pensiero autonomo. E pazienza se c’è chi storce il naso, trovando più facile appiccicare etichette piuttosto che riflettere. Pazienza anche se tante persone neanche se ne accorgono, di questa scelta, perché interessate solo al messaggio palese (quello che un tempo si chiamava “il contenuto”) e poco abituate all’analisi del mezzo espressivo. E comunque, anche se non ci fosse proprio nessuno (e nessuna…) a capire e ad approvare, questa attenzione non sarebbe inutile, dal momento che almeno per chi scrive la fatica, ogni tipo di fatica relativa alla scrittura ha sempre un senso: quello di ricordarci che le parole che usiamo parlano di noi e di ciò che siamo, molto più di quanto non si creda.

Stiamo attente – e attenti, perché il discorso non vale solo per le donne – a non cadere nella trappola del “c’è ben altro”, e anche a interpretare nel modo giusto l’atteggiamento di chi affetta, rispetto a questo problema, una indifferenza che è spesso una scappatoia per non prendere atto di una realtà considerata con fastidio, se non sentita come una minaccia. Drizziamo le orecchie e aguzziamo la vista e l’ingegno: la disattenzione verso il linguaggio rispettoso delle differenze di genere ma anche l’ostilità – dichiarata o celata che sia – che questo suscita ha sempre un senso.




Tra l’Africa e l’Europa, una terra di pietre e di niente

Recensione di Luminusa di Franca Cavagnoli

Rileggere Luminusa è un buon antidoto contro il senso di smarrimento che si prova nel considerare le inedite misure del governo attuale di fronte alla tragedia delle migrazioni. Ci ricorda che c’è anche un altro modo di guardare a una realtà come quella.

La vicenda di Mario, studente cremonese di Scienze Politiche che ha scelto di passare qualche tempo a Lampedusa per dare una mano nell’emergenza, si intreccia con le vite degli isolani e con quelle della gente che viene dal Ciad, dal Ghana, dal Mali, dal Niger, dalla Somalia, cercando oltremare una possibilità di sopravvivenza che le è negata in un continente percorso dall’instabilità politica, dalla guerra, da tensioni di ogni tipo. Per tanti uomini e tante donne la terra promessa è stata per qualche tempo la Libia, dove era possibile trovare lavoro; poi, con lo scoppio della guerra civile, anche quel paese è diventato pericoloso, soprattutto per chi ha la pelle scura, e l’unica via di scampo è stata proseguire verso Nord, verso l’Europa, in qualsiasi modo.

Mario ascolta i racconti dei sopravvissuti e colloca nel piccolo “museo” del paese, accompagnandoli con didascalie in versi, gli oggetti restituiti dal mare, trovati sul fondo dei barconi o abbandonati da chi è arrivato sull’isola e ne è ripartito. Sono fotografie dilavate dall’acqua marina, disegni, tanti disegni fatti dai bambini, scarpe da tennis, sandali scompagnati, giocattoli. C’è un fumetto macchiato di sangue, c’è anche un rotolo di lettere in tigrino, trovato nella tasca di una giacca. Qual è stato il destino delle persone cui quegli oggetti sono appartenuti? Nel piccolo cimitero di Lampedusa, affacciato su quel cimitero più grande che è il mare, le persone senza nome che vi sono state seppellite (uomini e donne giovani, e poi bambini e bambine) sono solo ottanta, ma molte di più sono quelle che il mare non ha mai restituito. Mario e gli altri ragazzi con cui vive e collabora sull’isola sanno che “dei morti, dei dispersi, dei caduti in mare non rimane traccia in nessun archivio. Sono scomparsi e basta. Il minimo che si può fare è cercare di ricordarli” con quello che rimane di loro. 

Foto 1. Migranti

Sono giovani ma tristi, Mario e i suoi amici. Vivono in un paese senza speranza, un paese “che ha perso la sua dignità” e non produce che “governanti meschini”. Per questo sempre più spesso questa gioventù non vede altra prospettiva che andarsene dall’Italia. Anche Mario, alla fine, decide di partire e sceglie una direzione diversa, atipica, perché ha il “dono” di sentire la sofferenza degli altri, quella dei deboli e degli offesi, come gli dice suo padre. Ma a spingerlo c’è anche un dramma personale di cui si viene a conoscenza soltanto alla fine del romanzo, ed è questa scoperta a conferire intensità al personaggio e a farcelo rimanere nel cuore.

Una lettura non banale, una storia breve ma densa, incardinata su temi attuali e significativi. E poi c’è l’isola di Lampedusa, con la sua luce, la sua aria trasparente, il suo fascino. Lampedusa porta d’Europa, “terra di pietre e di niente”. Un niente che diventa, per chi legge, un grosso, pressante punto interrogativo.

Franca Cavagnoli

Luminusa

Pagg. 158

€ 18,50

Frassinelli, Milano, 2015




Bella mia, di Donatella Di Pietrantonio

Il terremoto che il 6 aprile 2009 ha sconvolto L’Aquila ha lasciato ferite profonde nella famiglia di Caterina, la protagonista e narratrice di Bella mia. La sua gemella, Olivia, è morta sotto le macerie della sua casa, dove si era attardata per recuperare qualche oggetto, quasi sotto gli occhi del figlio adolescente e della sorella, che invece avevano fatto in tempo ad uscirne.

In attesa di una ricostruzione (che non si sa se e quando avverrà) a Caterina e a sua madre è stato assegnato un appartamento del progetto governativo C.A.S.E., dove le raggiunge il figlio di Olivia, Marco, dopo un tentativo fallito di convivenza con suo padre, musicista, da tempo separato, che vive a Roma con una donna molto più giovane di lui.

La protagonista, pur non avendo mai voluto figli suoi, si ritrova così a fare i conti con una sorta di maternità obbligata nei confronti del nipote, adolescente “furioso e desolato”, in un momento difficile anche per lei che, dopo la scomparsa della sorella Olivia, si trova come amputata: era l’altra, infatti, l’elemento forte della coppia gemellare.

Pittrice su ceramica, Caterina ha trovato in affitto un locale dove continuare la propria attività, ma un amico ceramista le ha regalato anche gli strumenti del proprio lavoro e un giorno lei sente il bisogno di usarli per scolpire due figure femminili. Così, attraverso l’energia messa in moto dalla creazione artistica, il processo di ricerca interiore iniziato da tempo trova la strada per una nuova consapevolezza: Caterina capisce che la sua infelicità ha radici profonde, e risale a prima della tragedia, connessa com’è alla rinuncia di una parte di sé. L’avvio della risoluzione della crisi permetterà anche l’accettazione di un nuovo amore.

Bella mia(il titolo riecheggia le parole di un canto popolare intriso di nostalgia per la terra natale) è uscito nel gennaio scorso con una postfazione dell’autrice nella nuova edizione einaudiana, dopo quella di Elliot del 2014, che aveva concorso al Premio Strega vincendo poi il Premio Brancati. È il secondo lavoro di Donatella Di Pietrantonio dopo Mia madre è un fiume, (Elliot 2011, Premio Tropea) romanzo d’esordio diventato un caso editoriale nazionale.

Lo sfondo della vicenda è la città dell’Aquila colpita dal terremoto e in gran parte inagibile; la “zona rossa” ancora è transennata e ne è vietato l’accesso, ma sia Caterina sia suo nipote vi penetrano più volte, all’insaputa l’uno dell’altra, quasi non potessero fare a meno di tornare nel luogo dove è avvenuta la tragedia famigliare legata alla crisi da cui ognuno cerca dolorosamente di uscire a suo modo: la vecchia madre ricorrendo alle certezze offerte dalla fede, Caterina attraverso l’arte e Marco, il personaggio forse più intenso del romanzo, attraverso una sua via difficile, tortuosa, in cui alla rivolta si accompagna una sorta di acerba progettualità. E le macerie sono nello stesso tempo reali e simboliche, così come è reale e ma anche metaforica la mezza stanza che Marco, insieme ai suoi amici, riesce a liberare dai calcinacci  e a rendere in qualche modo abitabile, nella casa lesionata dove è morta sua madre e dove lui vuole assolutamente ritornare, dopo che sarà ricostruita.

Semplice nella trama, il romanzo dà largo spazio ai sentimenti e ai conflitti legati ai rapporti famigliari attraverso la prosa secca, scabra, priva di lusinghe formali ma capace di improvvise accensioni  che caratterizza anche l’ultimo lavoro di Donatella Di Pietrantonio, L’Arminuta,vincitore del premio Campiello 2017, attraverso il quale l’autrice si è confermata come una delle voci più interessanti nel panorama della letteratura italiana degli ultimi dieci anni.

Donatella Di Pietrantonio

Bella mia

Einaudi, Torino, 2018

  1. 182

€ 12




Angiola Minella Molinari

Angiola Minella nasce a Torino nel 1920, in una benestante famiglia borghese. Il padre, direttore generale della Reale Mutua di Assicurazioni, cade vittima di un attentato fascista nel 1932, e il luttuoso episodio segna in modo indelebile la vita di Angiola
allora dodicenne.

La ragazza frequenta la migliore scuola di Torino (quel Liceo D’Azeglio dove fino a pochi mesi prima aveva insegnato l’antifascista Augusto Monti, maestro di una straordinaria generazione di allievi) e intanto coltiva il sogno di diventare medica. Ma non sarà possibile; il progetto incontra la ferma opposizione materna e, dopo essersi diplomata, Angiola Minella deve ripiegare su studi letterari, che preludono a un futuro di insegnante: è un lavoro che agli occhi della madre è più adatto per una donna.

Intanto è scoppiata la guerra e nei primi bombardamenti la casa di Torino viene danneggiata, così Minella, insieme alla madre e alla sorella minore, nel maggio del 1942 sfolla a Noli; qui la famiglia possiede un alloggio dove da sempre passa le vacanze estive.

Nel 1943 entra come volontaria nella Croce Rossa, realizzando in qualche modo il suo desiderio
di essere utile al prossimo in difficoltà, e nel 1944 aderisce alla Resistenza, prima in un gruppo badogliano del Cuneese, in seguito nelle brigate Garibaldi che operano nel Savonese. Il suo nome di battaglia è Lola, il soprannome con cui viene chiamata in famiglia e dagli amici. Anche la sorella Maria Pia, diciassettenne, segue le sue orme e diventa staffetta partigiana.

In questo ambiente la giovane conosce Piero Molinari, l’ispettore Vela, operante presso la prima divisione d’assalto Garibaldi. Terminato il conflitto lo sposa civilmente, contravvenendo alle abitudini consolidate dell’ambiente da cui proviene e alle aspettative famigliari. Da questo matrimonio nascerà, nel 1950, la figlia Laura.

Nel primo dopoguerra il Paese è a pezzi: molte fabbriche sono distrutte, mancano le case,
molti sono gli orfani abbandonati a se stessi. Ma le energie non mancano: nel clima fervido del momento Angiola Minella si attiva con passione in favore dei minori in difficoltà. Insieme a Nadia Spano promuove una catena di solidarietà e cinquanta bambini di Napoli trovano ospitalità presso famiglie savonesi. Alcuni vi rimarranno.

Il suo impegno si esprime anche nell’azione politica: è responsabile della Commissione femminile nella segreteria della federazione del Pci di Savona e consigliera comunale (le prime elezioni amministrative a Savona si tengono nel marzo del 1946), nonché dirigente dell’Udi, Unione Donne Italiane.

Nel giugno del 1946 viene eletta per la Costituente e si trova così a far parte della piccola pattuglia di donne (ventuno, il 3,7% del totale dei Costituenti) che per la prima volta nella storia d’Italia hanno la possibilità di contribuire a decidere i destini del Paese. Angiola Minella fa parte del gruppo delle nove comuniste; ci sono poi altrettante democristiane, due socialiste, una qualunquista (esponente del Partito dell’Uomo Qualunque, che nelle prime elezioni ha ottenuto un certo successo, specie nel Sud Italia).

Nell’assemblea Minella non interviene, ma presenta insieme ad altri diverse interrogazioni. È l’inizio di una lunga carriera politica: viene rieletta alla Camera nel 1948 e poi nel 1958, mentre nel 1963 passa al Senato, dove rimane fino al 1972. Sempre nelle liste del Pci.

Tra i suoi interessi c’è sicuramente l’impegno a favore delle donne (rappresenta il Movimento femminile democratico italiano nella segreteria della Federazione internazionale femminile a Berlino tra il 1953 e il 1958); successivamente si occupa di problemi riguardanti la sanità, come vicepresidente della Commissione Igiene e Sanità dal 1958, poi come segretaria della stessa Commissione del Senato nel 1963 e infine come vicepresidente della stessa nel 1968. A Palazzo Madama si dedica con particolare impegno alla riforma dell’assistenza sanitaria e ospedaliera e del servizio per l’assistenza alla maternità e all’infanzia, coerentemente con il desiderio sopito di fare la medica.

Angiola Minella Molinari muore il 12 marzo del 1988.

 

 

Dalla mostra di Toponomastica femminile: Le madri della Repubblica

 

 




Un lungomare per Leonie

Giusto un anno fa al Salone del libro di Torino si creavano le premesse di una collaborazione tra il progetto di Toponomastica femminile e quello di Lingua Madre, il Concorso letterario nazionale nato nel 2005 e rivolto alle donne straniere o di origine straniera residenti in Italia, ma anche alle italiane che scelgono di raccontare storie di donne straniere. Lo scopo è quello di “dare voce a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che nel dramma dell’emigrazione/ immigrazione sono discriminate due volte”. 

L’Associazione Toponomastica femminile quindi ha accolto volentieri l’invito di Daniela Finocchi, fondatrice di Lingua Madre, di proporre al sindaco di Pantelleria di intitolare un lungomare dell’isola alla memoria di una donna straniera, Leonie Mujinga Muteba, perita nel 2011 durante un drammatico sbarco sulle coste dell’isola. La sua tragica fine era stata raccontata dalla figlia Kerene Fuamba, autrice del Concorso Lingua Madre premiata nel 2013. Quest’anno anche la sorella di Kerene, Aicha, ha inviato al Concorso un suo racconto, scritto a quattro mani con Sofia Teresa Bisi, e l’opera ha vinto il primo premio della XIII edizione.

Il 14 maggio scorso, ancora al Salone del libro, mi è stata offerta quindi l’occasione di accompagnare Aicha sul palco a ricevere il premio, ed è stata un’esperienza significativa, per l’intensità dei vissuti che vi ho incontrato. Aicha viene dalla Repubblica Democratica del Congo, ha ventiquattro anni ma, sarà per la zazzera corta che incornicia il visetto sbarazzino, ne dimostra di meno. Ha dovuto riconoscere la madre tra le persone perite tra i flutti durante lo sbarco, ha dovuto elaborare il dolore della perdita e inserirsi nella realtà di un paese straniero, superando anche la temporanea separazione dai fratelli e dalle sorelle. Sono cinque i fratelli e le sorelle Fuamba giunte in Italia. Aicha è stata accolta a Rovigo, dove si è iscritta al liceo, e vi ha passato un anno, poi ha scelto di tornare a Pantelleria per ricongiungersi con la sua famiglia. Al Salone l’accompagnavano la sorella maggiore Kerene e un fratello, oltre a Teresa Bisi che, prima di diventare coautrice del racconto vincitore, è stata sua insegnante di italiano al liceo. Mi ha colpito l’atteggiamento, pieno di rispetto, con cui la professoressa Bisi ha parlato del suo compito, consapevole della responsabilità che si assumeva nell’accostarsi a un così grande dolore. “Io ci ho messo le parole, ma lei ci ha messo la sua vita” mi ha detto alludendo ad Aicha.

Aicha non sapeva del progetto di intitolazione, che è stato quindi una sorpresa per lei. Purtroppo il sindaco di Pantelleria, invitato (come pure l’ambasciatore del Congo), non è potuto intervenire alla premiazione; nell’isola si stanno preparando le nuove elezioni comunali, previste per la metà di giugno, ma spero che il progetto della targa per ricordare Leonie Mujinga Muteba vada avanti con la nuova amministrazione, attraverso Grazia Mazzè, sindacalista Uil e aderente di Toponomastica femminile, che se n’è finora interessata. Lo dobbiamo alle figlie e ai figli di Leonie che vivono nel suo ricordo, lo dobbiamo a tutte le donne coraggiose che attraversano il mare affrontando tanti pericoli per cercare una vita migliore.

 




Il Salone internazionale del libro di Torino. Un luogo dove si produce cultura

Anche quest’anno è alle porte il consueto appuntamento che si rinnova a Torino ogni mese di maggio fin dal 1988, quando il centro congressi Lingotto Fiere ospitò la prima edizione dell’odierno Salone internazionale del libro, diventato nel tempo la più importante manifestazione italiana legata all’editoria.

La grandekermesseinizierà giovedì 10 e per cinque intense giornate ospiterà case editrici, scrittori e scrittrici, personaggi del cinema e dell’arte protagonisti della realtà culturale italiana, ma anche, in gran numero, della cultura europea ed extraeuropea. Vi giungeranno ad esempio il vincitore del Premio Strega Ragazze e Ragazzi, ma anche i cinque finalisti stranieri dello Strega Europeo, ci saranno Paolo Giordano, con il suo nuovo romanzo, e Dori Ghezzi, che ricorderà Fabrizio De André, ma verranno anche Herta Muller, Alice Sebold, Almudena Grandes, Fernando Aramburu, Guillermo Arriaga, Javier Cercas, Javier Marias, Eduard Limonov e molti altri scrittori e scrittrici di fama le cui opere sono state successi della letteratura mondiale. Parleranno dei loro libri e ci diranno cosa pensano del futuro, che è il tema di questa edizione intitolata appunto “Tutto questo un giorno”.

Verranno ad ascoltarli visitatori e visitatrici da tutta Italia ma anche dalla stessa città ospitante, che sente l’evento come cosa profondamente sua: Torino lo scorso anno ha difeso il Salone con orgoglio e convinzione, quando sembrava che seguendo l’esempio di alcuni big dell’editoria l’evento torinese fosse costretto a spostarsi a Milano. Così non è stato, e quest’anno il successo ottenuto nella precedente edizione ha riportato al Lingotto anche alcuni grossi editori.

Un gran numero di torinesi frequentano il Salone del libro. Ci si va per avere un panorama delle novità editoriali, per incontrare gli amici librai ed editori o gli autori e le autrici che vi presentano i loro libri, ma anche per fruire della ricca offerta di dibattiti sui temi più diversi, dalla letteratura alla gastronomia, dal fumetto al teatro alla lectura Dantis. Vi si incontrano persone con interessi in comune con cui capita anche di stringere relazioni non effimere; l’anno scorso, per esempio, proprio al Lingotto è nata l’idea di una collaborazione, che si è poi realizzata nel tempo, tra Toponomastica femminile e il Concorso letterario nazionale Lingua Madre, riservato alla letteratura della migrazione a firma femminile. Quest’anno Toponomastica femminile parteciperà, attraverso la sua referente piemontese, alla cerimonia di premiazione del Concorso, che avverrà al Salone lunedì 14 maggio; Tf ha accolto infatti l’idea lanciata da Daniela Finocchi, ideatrice del progetto, di proporre al sindaco di Pantelleria di intitolare un lungomare alla memoria di una donna morta durante uno sbarco drammatico sull’isola e madre di due autrici di Lingua Madre, tra cui una vincitrice dell’edizione 2018.

Sono sinergie che si attivano spontaneamente quando vengono a contatto progetti nati dallo stesso humus: è una delle magie del Salone di Torino, luogo dove, come è stato detto, la cultura non solo si mette in mostra, ma in molte forme si produce.

 

Programma completo del salone: http://www.salonelibro.it/it/programma.html

 

 

 

 




Il Premio Calvino

Il Premio, dedicato alla memoria di Italo Calvino, è riservato a opere di narrativa inedite di scrittrici e scrittori esordienti ed è stato fondato a Torino nel 1985, da un gruppo di persone amiche ed estimatrici dello scrittore da poco scomparso, con lo scopo di continuare il lavoro di talent scout che questi aveva svolto a lungo per l’editore Einaudi. Ogni anno giungono al Premio centinaia di manoscritti da cui il Comitato di lettura arriva a selezionare 8/9 testi finalisti; tra questi una giuria esterna e ogni anno diversa, composta da 4/5 persone qualificate, sceglie poi il vincitore. Principale caratteristica del Premio è il fatto che a ogni partecipante viene consegnato un giudizio critico con una valutazione dell’opera presentata, indipendentemente dal suo valore; le indicazioni fornite potranno magari essere utili in seguito per la stesura di un testo più maturo. 

 Proprio seguendo da qualche anno l’attività del Calvino dall’interno, come componente del Comitato di lettura, mi sono resa conto che ad arrivare in finale sono in prevalenza scrittori, non scrittrici. Mi sono interrogata su questo fenomeno perché, nel gruppo di lavoro con cui collaboro, non ho mai avuto l’impressione che le opere siano valutate in modo diverso a seconda del sesso di chi le ha scritte. Ma veniamo ai numeri, che sono di per sé eloquenti e spiegano molte cose. Mario Marchetti, presidente del Premio, ci dice che la maggioranza (il 60% circa) dei manoscritti che ogni anno arrivano al Premio è a firma maschile, mentre le donne si attestano sul 40%. Ci possono essere piccole variazioni, di anno in anno, ma fin dall’inizio il quadro è questo e appare stabile. Quale può essere il senso di questa presenza minoritaria? Sappiamo che le lettrici sono più numerose dei lettori. Come mai le donne leggono di più ma scrivono di meno, o concorrono di meno ai premi letterari? Marchetti ipotizza che le donne siano “in un certo senso, meno esibizioniste” degli uomini: sono questi che, in numero maggiore, “vogliono uscire alla luce del sole dei premi, per lo meno del nostro”. Ma è possibile che il fenomeno sia dovuto, più che a un atteggiamento femminile “virtuoso”, a una maggiore sfiducia delle donne in se stesse, e forse anche a una inespressa sfiducia nella possibilità di essere riconosciute, in una gara che vede in lizza entrambi i sessi e in cui, per ancestrale esperienza, già si immagina, a torto o a ragione, chi possa essere favorito.

Ma… a torto o a ragione? Ancora ci potrà soccorrere qualche numero. Nelle trenta edizioni del Calvino che si sono succedute dal 1986 al 2017, sono stati consegnati premi a 38 persone (vi sono alcuni ex aequo), di cui 23 uomini, circa il 60,5%, e 15 donne, il 39,5% del totale (una curiosità: è stata una donna, Pia Fontana, a riceverlo la prima volta, e anche l’ultima edizione ha visto una vincitrice, Emanuela Canepa). 

Si tratta di percentuali grosso modo corrispondenti a quel 40% di afflusso al Premio di testi scritti da donne. Fermo restando lo squilibrio di genere di questo afflusso, corrisponde quindi alla realtà la percezione soggettiva che non esista discriminazione di genere nelle valutazioni del Comitato dei lettori prima e delle giurie esterne poi, e si noti che queste ricevono in lettura i testi privi del nome dell’autore o dell’autrice. Il 39,5% di vincitrici del Calvino ricorda poi il 36% del Bagutta Opera prima, confermando l’ipotesi che ad inizio carriera, per così dire, le donne che scrivono incontrino meno ostacoli. Le scrittrici dovrebbero forse riconsiderare le reali possibilità che hanno di fronte, almeno per quanto riguarda il primo riconoscimento del loro lavoro. In seguito probabilmente le cose cambiano, come s’è visto, ma nulla è per sempre.

Logo del Premio Calvino

Qui di seguito, l’elenco delle 15 vincitrici: Pia Fontana, Spokane 1987/88; Mara De Paulis, Gilbert, 1992 ex aequo; Giulia Fiorn, Non m’importa se non hai trovato l’uva fragola, 1995 ex aequo; Alessandra Montrucchio, Ondate di calore, 1995 ex aequo; Laura Barile, Oportet 1996 ex aequo; Samuela Salvotti, Concepita in ventre di regina, 1996 ex aequo; Paola Biocca, Buio a Gerusalemme 1998; Luisa Carnielli (e Fulvio Ervas), La lotteria, 1999 ex aequo; Paola Mastrocola, La gallina volante, 1999 ex aequo; Laura Facchi, Il megafono di Dio, 2002; Tamara Jadrejčić, I prigionieri di guerra, 2004; Giusi Marchetta, Dai un bacio a chi vuoi tu, 2007 ex aequo; Mariapia Veladiano, La vita accanto 2010; Elisabetta Pierini, L’interruttore dei sogni, 2016 ex aequo; Emanuela Canepa, L’animale femmina 2017.