Nome di donna: l’importanza di chiamare le cose con il loro nome

Sabato 17 marzo, la Casa del Cinema di Roma ha ospitato la proiezione del nuovo film di Marco Tullio Giordana e la sceneggiatura di Cristiana Mainardi, Nome di donna (https://www.youtube.com/watch?v=WcQREWwm_J8), ispirato a una storia vera di molestie sul posto di lavoro.

La giovane protagonista, Nina (C. Capotondi), da tempo disoccupata, trova finalmente lavoro in una clinica in Brianza, dove si trasferisce con la figlia. Il prestigio apparente che circonda la struttura cela in realtà un odioso circuito di molestie e violenze sessuali, ricatti e umiliazioni, orchestrato dal direttore (V. Binasco) con la connivenza di un’altra figura dirigenziale della clinica, Don Ferrari (Bebo Storti). Nina sporge denuncia a seguito di un approccio sessuale tentato dal direttore nel suo studio, dalla cui finestra l’aveva seguita con sguardo rapace dal primo giorno; la travagliata ribellione della donna porterà alla luce la fragilità di un complesso sistema di omertà, ipocrisia, menzogne.

La forza del film non sta tanto nella vicenda processuale in sé (dopo la proiezione del film, Giordana chiarisce: ‘al di là del finale del film, sappiamo tutti che l’incriminato verrà poi assolto’) ma nello scoperchiare dinamiche distorte lungo un asse di potere verticale e gerarchizzato, come anche su un piano orizzontale di relazioni professionali inquinate: le colleghe di Nina non solo non la sostengono, ma la osteggiano minacciandola. Non è casuale la cornice sociale riflessa dalla protagonista, una ‘ragazza madre’ senza lavoro: in un contesto lavorativo reso precario e incerto come quello in cui viviamo, il lavoro può diventare la leva di un ricatto, specie per le persone più vulnerabili; la dinamica della molestia messa in atto ricorda molto quella della corruzione, tutte e tutti se ne lamentano e vorrebbero estirparla, ma i fatti non incoraggiano chi si ribella, percepito come elemento di disturbo.

Notevole l’impegno di attori e attrici, in primis di Capotondi, dato anche l’alto valore simbolico degli sguardi, forse più che delle parole, in una dinamica dove molto viene taciuto o fatto tacere. Binasco, che ha avuto il coraggio di interpretare un ruolo veramente detestabile, veste l’espressione imperturbabile del molestatore che sa di farla franca. Anche i personaggi minori, però, sono significativi: il compagno di Nina (S. Scandaletti) si cala in un percorso di crescita man mano che la battaglia della ragazza si fa più dura; la figlia e la moglie del direttore rappresentano le ‘altre’ vittime di violenza, quelle a cui è distribuito un carico diverso, ma pur pesante, di vergogna e dolore. Prezioso il riferimento all’avvocata Tina Lagostena Bassi, omaggiata nel personaggio dell’appassionata avvocata Tina Della Rovere (M. Cescon).

Adriana Asti interpreta un’ospite della clinica con cui Nina allaccia un rapporto particolare, e che circa le molestie dice: ‘Prima li chiamavano complimenti’. La frase ha ispirato il dibattito aperto dopo la proiezione del film, ‘Non chiamateli complimenti’, iniziativa proposta da Se non ora quando – libere, con la presenza in sala del regista, della sceneggiatrice, di Maria Serena Sapegno e di Cristina Comencini.

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Cristiana Mainardi commenta: ‘con la crisi economica stanno emergendo nuove fragilità circa la posizione delle donne. Ho riscontrato un portentoso mondo di omertà, di vergogna. Era facile parlare di molestie ma difficile arrivare alle donne che le hanno subite. Non è solo una questione di disuguaglianza, ma anche di potere e accesso al potere’. Sulla stessa linea, Comencini: ‘Questa faccenda è una valanga. È accettato come normale il silenzio delle donne e che gli uomini usino il potere; non c’è il sostegno del mondo della comunicazione, della stampa. Spesso le donne che denunciano subiscono un vilipendio perché hanno aspettato a farlo, come si dice. Nel contesto lavorativo, è bene sottolineare che non sono atti di seduzione, sono atti di potere volti a ricordare alle donne che possono lavorare a patto che siano ridotte in subalternità tramite il sesso’.

Giordana ringrazia la sceneggiatrice per aver dato voce alla vergogna delle donne che non riescono a parlare delle molestie, e prende posizione contro chi concorre a neutralizzare i racconti di violenza banalizzandoli con l’ironia. E conclude: ‘il senso comune è protettivo verso le molestie, è necessaria quella che con un termine un po’ nostalgico definirei una rivoluzione culturale; ma questo avverrà quando la gerarchia verrà vista come una responsabilità e non come privilegio’.

Eterogenei e molto vivaci gli interventi del pubblico in sala, a dimostrazione del fatto che film come questo sono necessari per diffondere rappresentazioni della violenza di genere che siano a portata di tutti e tutte, in un momento in cui tale tema va dibattuto, individuato, misurato e contrastato, perché così sta chiedendo la società.

 




Radio Rossellini. Fare-imparando: nasce Day by Day

Ha esordito mercoledì 14 marzo Day By Day, il nuovo programma di Radio Rossellini, l’emittente dell’omonimo istituto superiore romano di istruzione statale, una proposta al contempo creativa e didattica del fare-imparando, frutto della cooperazione di studenti, docenti e della dirigente scolastica, Maria Teresa Marano.

Il programma è condotto da Adriana Paratore, corsista serale dell’istituto, che ha messo a disposizione la sua lunga esperienza di speaker professionista per dar vita a un format radiofonico che si configura anche come un ciclo di snelle lezioni sulla radio.

Day By Day è un appuntamento di approfondimento settimanale che prevede anche l’intervento di scrittori e scrittrici, artisti e artiste, giornalisti e giornaliste in veste di ospiti.

La puntata pilota (https://www.spreaker.com/user/radiorossellini/day-by-day-1×01) arricchita da una selezione musicale adeguata all’audience di riferimento e alla fascia oraria di trasmissione, è stata dedicata alla struttura e all’organizzazione di un’emittente.

In sintesi, i progetti radiofonici si avviano per iniziativa di soggetti investitori, cioè editori/trici, che ne definiscono l’orientamento. La linea editoriale è concretamente tradotta da station manager, cui è affidata la creazione del palinsesto e il coordinamento delle tre figure preposte alla direzione artistica, musicale e tecnica. La prima direzione (artistica) è responsabile della conduzione e segue da vicino il lavoro degli/delle speaker. La terza (tecnica) si occupa dell’aspetto fonico e garantisce la trasmissione e la sua qualità, mentre la selezione di ciò che va in onda è affidata alla direzione musicale: una volta stabilita, la playlist va rispettata rigorosamente, a meno che la radio non preveda la possibilità di richieste musicali da parte di chi ascolta.

Programmi preregistrati e conduzioni dal vivo sono affidati a speaker e conduttori/trici, che selezionano i contenuti dei programmi, supportati/e, per la parte tecnica (come la messa in onda di telefonate), dal personale specializzato. L’assetto della radio è completato dalla segreteria d’edizione (molto più presente su set cinematografici e nel doppiaggio) e da eventuali figure aggiuntive (centralinista etc.).

La puntata è stata salutata da un altro speaker, Darsin, conduttore del programma Politics By Us, che intende avvicinare l’informazione politica alle giovani generazioni, raccontandola dalla loro prospettiva.

Nel prossimo appuntamento si parlerà della creazione del palinsesto.

L’Istituto Roberto Rossellini, oltre alla radio, ha lanciato anche una web tv (http://www.ilrossellini.tv/i-nostri-progetti/).

Day By Day, Ogni mercoledì, dalle 16 alle 17, su http://www.radiorossellini.it

 

 

 

 

 

 




BARI – Annalisa Marrone, capitana della squadra di rugby di Bitonto

Sono arrivata al campo sportivo cittadino dove aspetto Annalisa Marrone, la capitana della squadra di rugby femminile di Bitonto. Fa molto freddo, febbraio in Puglia è uno dei mesi più rigidi; guardo i tre splendidi campanili illuminati che cingono l’orizzonte molto oltre il campo, sembrano guglie di una corona, sento il mio freddo di questa sera, e mi domando se sarei capace di allenarmi con questa temperatura. Sì, penso di sì.

Arriva la capitana, e di lei noto subito lo sguardo fiero e una complicata acconciatura a trecce; glielo dico, e lei mi risponde subito: ‘Ci leghiamo i capelli perché altrimenti vengono avanti, sono molto lunghi. E poi è una specie di rituale’. L’intervista è già cominciata naturalmente e sono già ammaliata da questa informazione sui capelli.

Se io volessi avvicinarmi avvinarsi al rugby, cosa mi racconteresti?

Innanzitutto, che il rugby è uno sport di contatto, in cui con un gruppo di persone amiche si va a sfidare un altro gruppo di persone amiche.

Mi piace molto la questione del contatto, del corpo.

In genere, questa è la cosa che più spaventa gli altri. Quando si parla di sport di contatto, di placcaggio, cadere per terra, gli adulti, e solo gli adulti, si spaventano. Per i bambini è una cosa normalissima, abbracciarsi, placcare, è normalissimo, invece i pregiudizi dei genitori verso il nostro sport limitano l’afflusso di persone. È paura dell’altro, quando invece il placcaggio è un abbracciare e cadere insieme alla persona, un qualcosa, quindi, che non ha un elemento di violenza in sé. È il timore del placcaggio che conferisce questo alone di violenza. Tuttavia, a differenza, per esempio, della boxe, dove magari è più esplicito il riferimento alla violenza, il nostro obiettivo non è sferrarsi colpi, questa paura deriva più dall’essersi allontanati da qualcosa di naturale come cadere (insieme) per terra. I bambini lo fanno, tutti cadiamo, noi sappiamo come cadere, difficilmente ci feriamo a differenza di tante persone che non fanno sport in generale e non sono abituate a concepire il proprio corpo. Impariamo a gestire la caduta, e ci riappropriamo del contatto col compagno. Ho notato spesso che quando chiedo ai bambini, in allenamento, di abbracciare il compagno, restano un po’ intimoriti, specie quelli più grandi, adolescenti. Invece dovrebbero riabituarsi al contatto, abbracciarsi, cadere insieme, stare col proprio compagno di squadra: è proprio lì che crescono.

Quindi non si stimola l’aggressività, ma al contrario, si sollecita il contatto con l’altro.

Al massimo si torna a casa con qualche livido in più. Interviene l’allenatore, Marco Marcario: È una metafora di vita, come ripetiamo sempre ai corsi. Tu puoi stare sempre con gli amici, ma prima o poi incontri qualcuno che ha un obiettivo che è opposto al tuo, con cui ti devi confrontare; non per questo è un nemico da distruggere. È solo una persona che hai di fronte che ha un obiettivo opposto al tuo. A volte si assumono dei toni un po’ da scontro, ma dipende da quanto è acceso. Se è molto acceso, comunque non ti puoi tirare indietro, perché tirarsi indietro significa non raggiungere l’obiettivo, e questo succede anche a lavoro. Viceversa, quando incontri una condizione favorevole, non spingi. Non significa distruggere o essere violenti, ma riappropriarsi del fatto che non sempre possiamo essere amici di tutti, a volte affrontiamo qualcuno che ha un obiettivo diverso, e questa è la lotta, a volte scontro.

Immagino che questo sport abbia anche delle ricadute positive, alla luce di quello che ci stiamo dicendo, in termini di fiducia in se stess*.

Sì: sulla sicurezza, sull’autostima, sul decision making. Nel campo hai il pallone, e devi scegliere: corro, lo passo, qualsiasi cosa, però devi scegliere immediatamente.

Quanto è un gioco di squadra e quanto conta l’iniziativa del singolo?

Contano entrambe. La squadra è composta da quindici membri (uno contro uno in partita), tutti giocano ma solo chi ha la palla può essere placcato, quindi solo chi ha la palla, in quel momento di gioco, è partecipante attivo e deve avanzare verso la meta. Gli altri compagni, quando lui verrà placcato (o se non viene placcato attendono un passaggio) sono vicini a prestare sostegno.

La tua storia. Come ti sei avvicinata a questo sport, che fai, cosa ti dà questo sport…

Ho iniziato a giocare a rugby a diciassette anni, prima praticavo atletica leggera, che è uno sport individuale, per questo ritengo che l’individualità sia una parte fondamentale di me come giocatrice, però nell’atletica leggera, come ogni sport individuale, manca il gruppo, componente che noi abbiamo qui. Quello che ripeto sempre durante i corsi è che il bello del nostro sport è che la vittoria è condivisa – si vince e si gioisce tutte insieme – come anche la sconfitta. Dopo una sconfitta si riflette, ci si allena, tutte insieme. Questa capacità di essere tutte insieme, essere una comunità, il gruppo squadra, ti permette di affrontare meglio le problematiche che si presentano. Perché le capacità che ognuno di noi ha sono limitate, magari un’altra persona ha un’altra idea, una proposta, qualcosa di diverso che ci permette di migliorare tutte.

Parli spesso di fare corsi, quindi tu sei già allenatrice.

Sì. Fino all’anno scorso allenavo la categoria under 16, adesso cerco di fare anche reclutamento nelle scuole, per ragazzi e ragazze, riscontrando di tutto e di più. Proprio oggi, una ragazzina mi ha detto: ‘Rugby? Cos’è rugby? È uno sport a maschi, io so’ femmina’. Per me non esistono gli sport da maschi o da femmine; lo sport è sport. Le ragazze corrono e placcano come i ragazzi, i ragazzi danzano meglio di me, se ci mettiamo a confronto. Lo sport è una passione e perseguire i propri obiettivi. Ognuno sceglie quello che vuole fare. Se una ragazza vuole fare rugby, può benissimo farlo, l’importante è che lei voglia farlo. Voglia correre con noi, giocare con noi, non è una cosa limitante essere donna. Limitante è vedere sport da maschio e sport da femmina. So che è più rassicurante mettersi in questa bella casellina – sport da maschio, no, non lo faccio così mamma è contenta.

Alla luce di questo discorso, che ruolo gioca il corpo? Quanto conta avere una certa fisicità? Si può raggiungere comunque un obiettivo, migliorando?

Sì, il miglioramento è possibile in tutti i giocatori. Ognuno di noi entra in campo non sperando di essere il miglior giocatore, ma di migliorare, ogni giorno dobbiamo crescere. Chi ha il fisico più robusto si concentra di più sullo sfondamento della linea avversaria, prendendosi il placcaggio; invece chi è più esile può superare l’avversario ma girandogli intorno, cercare di scappare, non farsi prendere. L’obiettivo di tutti è fare meta, ma c’è chi usa il mezzo del contatto, perché ha un fisico che glielo permette, chi usa il mezzo della velocità perché gli conviene più evitare il contatto. Per ogni fisico c’è il ruolo adatto nel nostro sport. Ciò che importa è voler correre tutti insieme nella stessa direzione.

E per le donne, come funziona quando avete il ciclo?

In realtà l’allenamento fa diminuire sia il dolore che il flusso per azione dell’adrenalina. Nessun problema.

Che progetti hai per te?

Per ora sto continuando a studiare, mi sono laureata a dicembre in matematica e ora sto continuando la specialistica, mi piacerebbe molto entrare nell’ambito dello sport, anche coinvolgendo le scuole. Molti ragazzi e ragazze, in generale, non si dedicano allo sport con la scusa dei compiti, ‘devo studiare’, mi dicono, ma tutti studiamo, io mi sono laureata! Ci sono altre ragazze che studiano, che si sono laureate…L’importante è sapersi organizzare. Mi auguro di riuscire un giorno o a lavorare nell’ambito della matematica, e lasciare come passione il discorso dello sport, credo sia difficile possa diventare, da solo, un vero e propio lavoro, anche perché girano davvero pochi soldi. Ad esempio, nelle scuole vado come volontaria per diffondere la cultura del rugby. Questo sport ci mette tutti alla pari. Da noi, il rispetto per l’avversario e per l’arbitro sono cose fondamentali. Con l’arbitro parla solo il capitano, e il non rispetto di questa regola, da parte dei giocatori, può comportare un’ammonizione – cosa che si è verificata, in partita.

Per quanto riguarda le scuole, avete deciso voi di entrarci per promuovere il rugby?

Sì, è partito da noi, dalla società. Le scuole, in genere, non conoscono il nostro sport, però poi si incontrano insegnanti con particolare disponibilità a farci lavorare, anche se lavorare in una palestra, rispetto a un campo sportivo, è un po’ più pericoloso; però, prese le dovute precauzioni, siamo riusciti a lavorare.

Chi può fare questo sport, per quanto riguarda l’età?

Nelle scuole ci rivolgiamo alla fascia d’età 13-18, ma è uno sport che può fare chiunque tra i 6 e i 42 anni, limite fissato in Italia. Poi dopo i 42 anni c’è la categoria old, che riunisce tutte le persone sopra i 42 anni (possono giocare insieme).

Allenatore: gli old dovrebbero giocare con regole diverse, ma poi si vogliono sentire uomini, anche a 80 anni, e si placcano normalmente, con conseguente viaggio all’ospedale! Comunque, ho letto che tra due settimane (qualche giorno fa, quindi n.d.t.) si è tenuta a Napoli la prima competizione femminile per la categoria old, che poi è la prima generazione che rientra in questa categoria perché il rugby femminile è conosciuto in Italia da circa dieci anni, anche se ufficialmente parliamo del 1995.

Quando è arrivato a Bitonto questo sport?

Da tre anni, a gennaio 2015. Prima giocavo con un’altra squadra, poi con Angelica Lacetera (che ora studia fuori) abbiamo deciso di creare la squadra bitontina.

Allenatore: i risultati delle squadre femminili sono migliori per una ragione semplice: c’è un gap di 110 anni. Il fatto di essere partite alla pari con le altre nazionali ti porta a giocartela con le altre nazionali. Poi c’è un altro elemento importante: l’approccio della nazione allo sport. Per esempio, l’Inghilterra fa professionismo con le ragazze, cosa che da noi, oggi, è impensabile. Interviene Annalisa: chiaramente è diverso l’impegno che ognuna di noi può mettere in campo considerando che dobbiamo studiare, lavorare, curare la casa, invece col professionismo sarebbe molto più semplice, come in Inghilterra, dove vanno in palestra e vengono anche stipendiate. È questione di mentalità. Continua l’allenatore: in pochi altri sport ti è permesso di vedere i risultati se si fosse partiti tutti dallo stesso punto, il rugby può e lo sta facendo vedere, e nonostante questo non si mobilitano finanziamenti. Continua Annalisa: e molte persone non fanno sport, in generale. Nelle scuole, ormai, in una classe solo una o due persone praticano sport, magari lo facevano quando erano più piccoli ma crescendo se ne sono allontanati. I genitori preferiscono tenerli a casa, protetti. Interviene l’allenatore: i bambini non sono lasciati più neanche gattonare, si mettono direttamente nel girello, perdendosi una fase dello sviluppo motorio molto importante. Non si recupera più. Annalisa: invece è importante per la salute psico-fisica. E così molti ragazzi stanno accasciati, hanno problemi di postura.

Quante squadre femminili ci sono in Puglia?

Bitonto, Modugno e Lecce e Gioia del Colle di nuova formazione. Bitonto è seconda in classifica nel girone. Non abbiamo ancora fatto trasferte nazionali ma ora stiamo partecipando anche a un tutorato con Torre del Greco, abbiamo il doppio tesseramento.

Quante siete oggi, in allenamento?

10-12 ragazze, dai 16 anni. C’è una ragazza che ha iniziato quest’anno di 25 anni, io ne ho 23.

Come trovate questo campo?

È casa. Questo è quello che abbiamo (ride). Tecnicamente sarebbe meglio se avessimo l’erbetta.

Una domanda: perché non ti chiami/chiamano ‘capitana’?

Eh, l’italiano….anche quando faccio l’allenatrice mi pongo questo dubbio, come mi devo chiamare? Mister?

Capitana.

Ok! Allenatrice mi sembra troppo lungo, allora dico alle ragazze chiamatemi mister, coach, come vi pare, ci capiamo.

Io ti chiamerò capitana. La grammatica me lo consente ma è per me ancora più importante la filosofia che c’è dietro, riconoscere il femminile di un ruolo, come l’italiano mi consente di fare. Perché non è vero che uguale, poi le donne vengono invisibilizzate.

Qual è stata la reazione di amici e parenti quando avete espresso la volontà di fare questo sport?

‘Ma davvero?’, ‘Ma non è che ti fai male?’. Quando dico che pratico il rugby, rimangono a bocca aperta, un po’ come quando dico che studio matematica! Uguale! Due cose viste come anticonvenzionali, tutti si disgustano o sono spaventati perché la matematica non si capisce, la stessa reazione di timore per il rugby!

Viene girata la domanda a una giocatrice: Mia madre ha detto più cose, più volte. Continua, in realtà! Innanzitutto ha detto che sono troppo magra, ha detto che gli altri mi avrebbero rotta, che non mi avrebbe accompagnata in ospedale (risate) e cose del genere.

Un’altra giocatrice: mia madre si è abituata, diciamo, all’inizio diceva: ‘Però, figlia mia, fai qualcosa di più normale!’…in realtà alle elementari facevo kick boxing, tutti maschietti io l’unica bambina, e mia madre ha cercato di costringermi a fare danza classica (risate)…la prima volta che mi ci ha portato, indossavo la tuta da kick boxing e il borsone, mi ha portato proprio con l’inganno perché il mio maestro era malato e mi propose questa nuova attività…e quindi arrivo io, tutte le bambine vestite di rosa e io con la tuta larga’. Interviene l’allenatore: anche io ho avuto le mie scocciature. E poi sento anche dire: ‘Si vabbè, falle giocare le femmine. Sì, sì, falle giocare le femmine; sì… quanto devono giocare? Quanto Corrono?’

Ho notato che scendete in campo con delle belle acconciature.

Sì. I capelli, soprattutto quando sono lunghi, se ne vanno in giro! È diventata una tradizione legarci i capelli, farci le trecce tra di noi per toglierli dal viso, ma è anche un gesto di gentilezza, di vicinanza.

Penso a Mandela, a come abbia veicolato anche col rugby l’esortazione alla conciliazione. Per voi, questo sport ha anche un significato politico, come rivendicazione di uno spazio che è storicamente maschilizzato?

In generale, non solo. Per il rugby, in Italia, non ci sono fondi, non ci sono campi, le squadre sono poche, è poco noto, a differenza per esempio del calcio. Il nostro sport è più marginale, quando invece a mio parere ha tanto da dare, per questo ho deciso di insegnarlo e promuoverlo nelle scuole: ha tanti valori da insegnare a una popolazione che ha bisogno di rispettarsi, di educazione, di saper affrontare le difficoltà.

Il nostro incontro si conclude con una riflessione di Annalisa, man mano che arrivano le giocatrici.

Quando si entra nello spogliatoio, è come se tutti quanti si spogliassero di quello che sono fuori, l’avvocato, il dottore, lo studente, come anche delle difficoltà, ci mettiamo la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini e si scende in campo e siamo tutti uguali, si è una squadra anche in questo.

 

Info sulla squadra

Rugby Bitonto 2012

Allenatore: Marco Marcario

Segretario: Antonio Mattia

Capitana: Annalisa Marrone

Pilone: Annalisa Marrone, Angelica Passaquindici, Stefania Rubini

Tallonatrice: Ilenia Carella, Emanuela Zonno

Mediana di mischia: Chiara Spinelli

Mediana di apertura: Conny Generoso

Centro: Alessandra Cannillo

Ala: Rosanna Depalo, Valentina Fallacara

 

 

 

 

 




Gli Oscar e i nostri tempi

È veramente sorprendente come le ultime rappresentazioni cinematografiche abbiano significativamente puntato l’attenzione sulla questione delle relazioni in ottica di genere, e in particolare sul tema della violenza contro le donne nelle varie espressioni.

Un numero significativo di film che proprio in questi giorni si contenderanno l’ Oscar può essere letto come una sorta di prontuario di peccati capitali contro le donne; il fenomeno ha particolare valore se si pensa che le pellicole sono state girate un momento prima dell’emersione dello scossone – massiccio e globale – del #MeToo. Sembra quasi che il cinema abbia avvertito un cambiamento di atmosfera con la lungimiranza e la sensibilità propria di un dispositivo culturale in ottima salute. Certamente la storia del cinema è costellata di esemplari dedicati alla denuncia o alla riflessione sul tema (per citare i più recenti: Suffragette, Il diritto di contare, La battaglia dei sessi e anche il discusso e mediocre Madre!), ciò che sorprende è la concentrazione proprio in questo momento storico.

La peculiarità, inoltre, risiede nella particolare configurazione della messa in scena: la vicinanza all(a) questione(i) da un punto di vista specifico nel genere si specifica ulteriormente attraverso un approccio intersezionale. Il respiro che domina è quello sì  passibile di letture femministe, ma ampliato da una caleidoscopica visione sulla diversità: nella carrellata che segue, emerge ciò che si pone dall’altra parte rispetto al modello (finora) dominante del bianco, maschio, ricco. E per rendere questa rottura si sceglie soprattutto di guardare indietro, verso un passato neanche troppo lontano ma che si riconosce come distante dall’assenza, per esempio, non della tecnologia ma del suo abuso, mentre si veicola una nostalgia verso le radici autentiche di ciò che ha fatto nascere la stampa, o il cinema stesso.

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The post (Spielberg) è in sé anche un elogio alla stampa ai tempi della macchina da scrivere, della modalità e dei ritmi diversi della ricezione e trasmissione delle notizie. Emerge, anche, un’accuratezza e un’attenzione circa le fonti sulla cui importanza, in piena post verità, è necessario riflettere in merito alle questioni di potere e della costruzione del senso civico (‘la stampa serve chi è governato, non chi governa’). E, in questo senso, appare più ardua la lotta condotta dalla direttrice dello storico giornale di Washington contro la cessione di poltrone, di potere o orientamento, in seno alla gestione del giornale, per la sua sopravvivenza. È una storia vera: Katharine Graham (Maryl Streep) viene colta nel 1971 nei suoi sforzi di mandare avanti The Post mentre esplode il caso dei Pentagon Papers, una mole di documenti governativi che attestano la precoce consapevolezza, quasi scientifica ma comunque sempre dissimulata alla cittadinanza, del fallimento dell’intervento degli Stati Uniti in Vietnam. Il racconto si concentra quindi sulla figura di una donna che, posta a capo del giornale quasi per caso, deve difendere la sua credibilità contro la sfiducia di un entourage – tutto maschile, l’enorme macchia nera degli eleganti abiti degli uomini tra cui svetta sempre l’attrice vestita di colori chiari – che sta sempre a ricordarle, più o meno tra le righe, quanto non sia all’altezza, facendo anche mansplaining. La rappresentazione della sfiducia passa per la bravura di Streep che rende in suo personaggio spesso incapace di parlare, ma che poi – supportata da altre donne, personaggi minori, adeguata rappresentazione della forza spesso sotterranea di chi storicamente è rigettata nelle retrovie – trova in sé la forza della rivoluzione, che non bisogna temere e nel cui effetto domino bisogna sperare.

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‘Se non facciamo niente, neanche noi siamo umani’, dice Elisa Esposito (S. Hawkins), protagonista della Forma dell’acqua (Del Toro), una favola moderna ambientata nel 1962, che pecca qua e là in semplificazioni ma che recupera il senso dell’amore, capace di assumere la forma di chi lo dà o lo riceve, come recita la poesia che chiude il film spiegando il senso del titolo. Elisa è muta (ritorna anche qui il tema della non dicibilità), è caratterizzata da una straordinaria capacità creativa (vive in una casa iperpersonalizzata proprio sopra un cinema, elemento che ne traduce l’omaggio) e ha una bella rete di amicizie, con ‘diversi’ come lei: una donna di colore (O. Spencer) e un artista omosessuale, con cui condivide l’ostracismo sociale. Lavora in un laboratorio governativo come addetta alle pulizie, dove un giorno arriva una strana creatura dai poteri straordinari – il ‘monstrum’ – che, come Frankestein (riferimenti letterari, cinematografici e biblici ricorrono numerosi nel film), si rivelerà capace di apprendimento intellettivo e sentimentale-relazionale e di cui Elisa si innamorerà, ricambiata. Segue il caso della strana creatura un colonnello violento (M. Shannon), il suprematista che fonda la sua formazione sul pensiero positivo, legittimando il suo potere in quanto ‘immagine e somiglianza di Dio, io più di voi’, e che molesterà Elisa sul posto di lavoro. Il film si apre con una scena di autoerotismo della protagonista (come in American Beauty…) che coglie il cuore del film: il desiderio (forse l’assunto che anche  i/le ‘divers*’ concepiscono il desiderio andrebbe cambiato in: tutt* concepiamo il desiderio).

 Tre manifesti a Ebbing, Missouri (M. McDonagh) è un film fuori dall’ordinario. L’azione si svolge interamente in un piccolo paesino dove tutti si conoscono, un’ambientazione e un’atmosfera alla Twin Peaks, per capirci. Nulla è spettacolare, e anche lo scabroso omicidio da cui la storia prende le mosse (il caso Angela Hayes, la figlia della protagonista – F. McDomarnd – ‘raped while dying’) è ridotto al minimo nella sua rappresentazione. Tutto è molto sintetico ed essenziale. Il punto è che rispetto a Twin Peaks, il pubblico non deve arrivare alla conclusione sconcertante che il male è tra noi, in noi, nei nostr* immediat* prossim*: siamo ormai tutt* smaliziat*, lo sappiamo, nessuna cittadina da scandalizzare, e con essa il mondo intero. Allora cosa resta? Il film parla della violenza nelle sue declinazioni razziste, sessiste, omofobe, classiste e riguardo le disabilità. Con pennellate veloci, con durezza e grazia allo stesso tempo. Quello che resta è che la massima ‘la violenza porta altra violenza’, verificata negli eventi della prima parte del film, si stempera nel suo contrario: ‘l’amore porta amore’. E questo lo rende un film quasi rivoluzionario. I personaggi sono l’anima di questo lavoro, caratterizzati straordinariamente anche quando solo abbozzati. È attraverso di loro che si intravede questo miracolo, nel cambio delle relazioni umane che da essere terribilmente compromesse riscoprono la speranza di un’alternativa possibile di relazionarsi attraverso il dialogo (e molto spesso attraverso un dialogo comico). La fine è sorprendente, lascia di stucco, e qualsiasi altro finale sarebbe stato inopportuno.

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Io, Tonya (C. Gillespie), è un film sulla(e) verità, sull’ambiguità tra odio e amore, sulle condizioni materiali (povertà, status) attraverso la vita della pattinatrice Harding (interpretata da M. Robbie), dello scotto da lei pagato per essere stata un’atleta non conforme nel suo essere e per non aver mai corrisposto all’immagine di figlia (e poi di moglie) di famiglia felice. Le relazioni sono al centro: il rapporto violentissimo col marito viene visto attraverso gli occhi di lei, della sua fame di amore e accettazione e della continua ricerca di questo nutrimento nel seme della violenza, precedentemente conosciuta nella famiglia d’origine funestata da una figura materna rigida, anaffettiva e a sua volta violenta. La rabbia è fulcro delle relazioni personali ma anche della sua motivazione sportiva; tuttavia, l’incredibile potenza atletica non viene spiegata con la rabbia, ma al contrario, il film sembra suggerire che il destino mutilato di Harding, come donna e come atleta (l’ombra della brutale aggressione a Kerrigan la condannò definitivamente), avrebbe potuto essere diverso se la sua vita fosse stata più libera da questa emozione.

E se neanche vale la pena di soffermarsi sulla bravura di protagoniste e protagonisti degli altri film (a parte sottolineare come Maryl Streep abbia costruito uno stile recitativo tutto suo che la differenzia da qualsiasi altra perfomance sul grande schermo), bisogna riconoscere la grande maestrìa espressiva di Margot Robbie, che riesce a modulare straordinariamente tutte le emozioni sul suo volto, e in particolare rabbia, costernazione, disperazione: la scena in cui si costringe in un sorriso prima di una gara, le vale un Oscar per riuscire a scatenare nel pubblico,  con quel sorriso stentato, un picco di empatia di incomparabile altezza.

In sala, nessuna delle persone presenti ha abbandonato la poltrona prima della fine dei titoli di coda in cui si proiettano immagini di repertorio della pattinatrice, quasi ad avere conferma alle domande: ma davvero ha realizzato quel triplo axel? Ma davvero ha avuto una vita così terribile?