L’Alba di Roma

Giornata torrida, oggi. Tra i vicoli stretti trasteverini non si respira, non c’è un centimetro d’ombra neanche a pagarlo oro.
Tra le botteghe e i tanti caffè per turisti intorno a San Callisto, finalmente vedo Alba, che mi aspetta davanti a uno dei pochi bar senza menù fisso.
“Non me la ricordavo così questa piazza… Trastevere mia come t’hanno ridotto?!”
“Anzi, è uno dei pochi quartieri che ancora un minimo si preserva nella sua autenticità, signora De Céspedes1… Lei è tanto che non vive più a Roma?”
“Sì, sono solo di passaggio. Ormai sono una parigina a tutti gli effetti, ma a Roma ho passato gran parte della mia vita.”
“È nata qui?”
“Sì, mio padre è stato mandato come ambasciatore da Cuba e si innamorò di mia madre. Anche lei perse la testa e per sposarlo divorziò dal marito… Credo sia stata una delle prime donne in Italia! Mio padre le diceva “sei l’alba della mia vita” e guarda un po’? Proprio Alba mi hanno chiamata!”
“Che tipo di persone erano i suoi genitori?”
“Due gran belle persone per me, mi hanno trasmesso l’amore per la politica, per l’antifascismo: a casa mia non si parlava d’altro!”
“Dimenticavo che è stata partigiana!”
“Ora, partigiana forse è un termine esagerato se lo intendiamo come combattente. Se invece vuol dire che mi sono schierata, che ho parteggiato, allora sì, lo sono stata eccome. Per il fascismo ero un personaggio molto scomodo, tanto che nel ’35 sono stata arrestata. In tutta risposta io ho continuato a scrivere e me ne sono andata da Roma, verso il Sud. A Bari ho condotto per un po’ una trasmissione radiofonica resistente, sotto lo pseudonimo di Clorinda. Sempre in quegli anni, quando ho pubblicato “Nessuno torna indietro” hanno anche tentato di far ritirare le copie in vendita, ma non ci sono riusciti. Anzi, quel libro è stato fortunatissimo, anche troppo.”
“Perché ‘troppo’?
“Perché purtroppo il primo libro fortunato ti marchia a vita e penso che la fama di scrittrice di successo abbia effettivamente disturbato le mie reali ambizioni di novità stilistica e tematica, soprattutto con l’ultima produzione.”
“Pensando ai romanzi successivi a “Nessuno torna indietro”, la mia mente va subito a “Quaderno proibito”, che trovo un magistrale percorso verso l’autocoscienza. Lei che ne pensa?”
“Questo quaderno proibito non è poi altro che un diario, che Valeria, la protagonista, vede come proibito perché ci annota sopra le sue riflessioni più intime su sé stessa e sulle persone che ha intorno, con un enorme senso di colpa. È uno dei romanzi in cui sento di aver messo più elementi di me stessa: la scrittura è per Valeria una sorta di rivelazione e, acquisendo coscienza di sé, le fa intravedere nuove possibilità di esistenza. Ho voluto provare a raccontare quel mondo interiore che le donne non raccontano, o quantomeno non raccontavano, mai.”
“Che poi Valeria non è l’unica donna dei suoi romanzi, anzi, direi che c’è un assoluto protagonismo femminile, o sbaglio?”
“Non sbagli: è così. Il fatto è che durante la guerra, con la convinzione che davanti alla morte siamo tutti uguali, si erano fatti molti passi avanti nell’equilibrio tra i sessi. Non dico che fosse un concetto radicato, ma decisamente la situazione era diversa. Con il ritorno alla normalità, le donne sono, a mio parere, semplicemente riscivolate nella subalternità e credo fosse giusto contestare questo fatto con i mezzi a mia disposizione, ovvero con la scrittura.”
“La critica letteraria dell’epoca ha etichettato la sua produzione letteraria come una sorta di ‘apologia delle donne’. È d’accordo?”
“Lo sarei pienamente se nei miei romanzi avessi previsto esclusivamente figure femminili riscattate, eroiche, vincenti. Invece, nella maggior parte dei casi, l’epilogo dei personaggi è tutt’altro che trionfale. La vera vittoria delle protagoniste, al di là del finale felice o meno, sta a mio giudizio nell’aver tutte compiuto un percorso di crescita, di scoperta e coscienza di sé, senza però mai tradire sé stesse. E non tradirsi per compiacere qualcun altro, cara mia, è il più grande successo che una donna possa dire di aver raggiunto!”

1ALBA DE CÈSPEDES: nata a Roma nel 1911 è stata una scrittrice e poetessa italiana, autrice anche di testi per il cinema e il teatro.Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo “Nessuno torna indietro” (1938), “Dalla parte di lei” (1949), “Quaderno proibito” (1952) e “Nel buio della notte” (1976).
Fu una figura di spicco nell’ambiente degli intellettuali antifascisti del tempo,  tanto che, quando nel 1944 fondò Mercurio“, la rivista letteraria si avvalse fin dalle prime pubblicazioni delle firme di AlbertoMoraviaErnest HemingwayMassimo BontempelliSibilla Aleramo
Si trasferì a Parigi negli anni




Audre: sister outsider

È nella città in cui ha passato gran parte della sua vita che ho deciso di incontrare Audre Lorde1, poetessa e attivista che ha ridefinito il femminismo di seconda ondata.
In pieno stile newyorkese, decidiamo di prendere un caffè a portar via e di berlo su una panchina in quella meraviglia di Central Park.
“Quando ha cominciato ad approcciarsi alla poesia?”
“Ho iniziato quand’ero molto piccola: quando qualcuno mi diceva ‘Come ti senti?’ oppure ‘Cosa pensi?’, io recitavo una poesia e da qualche parte in quei versi c’era il senso di ciò che volevo dire. A un certo punto, mi sono resa conto che le poesie degli altri non mi bastavano più e così, quando le emozioni da descrivere si sono fatte più complesse, ho iniziato a scrivere, anzi, a scrivermi.”
“E che potenziale vedeva nella poesia?”
“Amavo la poesia e amavo le parole, ma la loro bellezza doveva avere lo scopo di cambiare la mia vita. L’arte non può essere mai fine a sé stessa e dopo aver visto ciò che ho visto, dopo aver subito sulla mia stessa pelle (e anche a causa di essa) così tante ingiustizie, ho scelto di far sentire la mia voce. Ho scelto di incanalare il mio dolore e cambiare le cose: è da qui che secondo me parte la protesta sociale.”
“Avrebbe mai pensato che le sue parole avrebbero avuto così tanto impatto?”
“Sinceramente? No. Però sai una cosa? Non penso che le mie parole da sole possano fare una rivoluzione, per un semplicissimo motivo: la rivoluzione è un processo, non si può fare tutta d’un botto. Io posso essere una delle tante voci, ma da sola, qui e subito, non posso cambiare un gran che.”
“Oltre alle meravigliose poesie che ha scritto, dai saggi e dagli interventi raccolti in ‘Sister outsider’, emerge per la prima volta un concetto molto importante: l’intersezionalità. Mi spiega che cosa intende?”
“Intersezionalità vuol dire considerare le varie categorie di oppressione come in un rapporto di correlazione e reciproca alimentazione. Ad esempio, l’oppressione di genere è inseparabile da quella di razza, da quella di classe e così via.
Io mi definisco fieramente nera, lesbica, madre, guerriera e poeta: sono tutte queste cose e cento altre insieme. È per questo che non esiste una battaglia monotematica: non esiste una vita che sia monotematica!”
So che suonerà come un’affermazione molto forte, ma io non credo che potrà esistere alcuna forma di femminismo universale finché non riusciremo ad abbracciare le differenze che ci sono tra noi donne. Perché le differenze è innegabile che ci siano, ma non sono quelle a separarci, piuttosto il nostro rifiuto di riconoscerle ed accettarle.”
Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone. Questa frase è tratta da un suo intervento pubblico dell’inizio degli anni Ottanta. Le va di commentarla?”.
“È stato un intervento fortemente provocatorio, mi sono fatta portavoce della sfida che le militanti nere avevano lanciato al patriarcato razzista e all’universalismo del femminismo bianco eterosessuale di classe media, che aveva fino ad allora tirato le fila del dibattito. Volevamo ridefinire gli strumenti di una lotta che fino a quel momento si era espressa quasi esclusivamente attraverso una sola voce, imponendo anche la nostra parola. Insomma, siamo stanche di essere outsiders!”

1AUDRE LORDE: nata a New York nel 1934, è stata una poeta, scrittrice e pensatrice statunitense.
Dopo essersi laureata alla Columbia University, lavorò in libreria per molti anni, fino al 1968: anno di pubblicazione della sua prima raccolta poetica “First Cities”. “From a Land Where Other People Live”, del 1973, ebbe molto successo e fu candidato al National Book Award. Seguirono “The Black Unicorn” e “Sister Outsider”.
Morì nelle Isole Vergini nel 1992, dopo anni di battaglia contro il cancro.




A Boston da Elizabeth

È Elizabeth1in persona ad aprirmi la porta del suo appartamento di Boston.
Non posso far a meno di notare il contrasto che c’è nell’arredamento della casa: una combinazione di mobili moderni e di quadri che, invece, sembrano venuti da un’altra parte del mondo.
“Complimenti, signora Bishop! Bellissima casa! È un arredamento molto particolare, c’è una storia dietro a ciascuno di questi pezzi?”
“Grazie! Ho vissuto in Brasile molti anni, in una casa molto moderna e quando sono tornata ho deciso di portarmi dietro i mobili che amavo di più. Allo stesso tempo però, ho acquistato anche molte opere d’arte indigena, alcune molto belle, che mi sembrava un gran peccato lasciare lì.”
“In qualsiasi antologia si parla dei suoi grandi viaggi in giro per il mondo… Quali sono stati i luoghi che più l’hanno affascinata?”
“So che questo è quello che si scrive di me, ma, giuro, non ho viaggiato poi così tanto! Sicuramente ho visitato molti luoghi quando ero giovane, dall’Europa all’America Latina, ma se penso ai giovani di oggi, alle infinite possibilità che hanno di spostarsi, mi rendo conto di non aver viaggiato poi così tanto.
Però, per quello che ho visto, sono rimasta stregata dall’Italia, tanto che ci voglio assolutamente tornare! E dal Brasile, sicuramente… Anche perché è lì che ho poi deciso di stanziarmi, è lì che mi sono innamorata di Carlota.”
“Lei scrive quando viaggia?”
“A volte sì, dipende… Di solito tengo un diario di viaggio, prendo appunti di sensazioni, spesso anche di interi versi, in modo da non dimenticarli!”
“Perché scrive poesie? Cosa della poesia la attira più degli altri generi letterari?”
“Ho cominciato a scrivere poesie che avevo solo 8 anni. Ero una bambina molto isolata e credo che fosse il mio modo per rendere familiare quello che avevo intorno.
La poesia è sempre stata il modo più naturale per me di esprimere ciò che sentivo. Non ho mai avuto intenzione di diventare una poeta, perché ritengo sia decisamente più importante continuare a scrivere poesie piuttosto che pensare a sé stessi come poeti che scrivono per lavoro. Chi si etichetta in questo modo cosa fa quando l’ispirazione non c’è? Cosa fa durante i tanti periodi di vuoto? La poesia dovrebbe essere, a mio giudizio il più inconscia possibile…”
“Sono assolutamente d’accordo con lei. Quanto ci mettono di solito i suoi versi a passare dalla sua mente alla carta?”
“Alcuni 10 minuti, altri 40 anni. Una qualità che manca a molti poeti è la pazienza. Io invece so aspettare, a volte mi rendo conto di metterci troppo, ma per creare qualcosa di bello, qualcosa di buono, non possiamo permetterci di avere fretta.”
“Cos’è che la ispira?”
“Non è facile individuare una fonte d’ispirazione. Non si può mai sapere quando, dove e perché una determinata cosa possa spingerci a scrivere una poesia. A volte, nei versi che scrivo rivive un’emozione di trent’anni fa, che ai tempi non mi sembrava nulla di speciale. Ma la mente e gli occhi di un poeta registrano tutto, bisogna solo avere la pazienza di aspettare che ci rivelino le meraviglie di ciò che hanno osservato!”
“Parlavamo prima di viaggi: I suoi versi sono intrisi dell’immaginario geografico. Ad esempio, in ‘Geography III’ mi è sembrato molto presente il tema della ricerca di un luogo da poter chiamare casa, di un senso d’appartenenza. È scrivere poesie il suo modo di cercare ed eventualmente trovare quella casa?”
“Non è un caso che molte di quelle poesie le ho composte quando ho deciso di lasciare il Brasile, dove avevo vissuto per vent’anni. Eppure, ho sempre avuto questa sensazione strana di sentirmi di avere una casa, ma di non saperla effettivamente identificare con nessun luogo specifico.
Ecco, io credo che questo sia il tipico senso di appartenenza dei poeti: la sua casa, se la porta dentro.”

1ELIZABETH BISHOP nata a Worcester nel 1911, è ritenuta una delle più importanti poetesse statunitensi del ventesimo secolo. Vinse illustri premi letterari, tra cui il National Book Award nel 1970, e il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956. Morì a Boston il 6 ottobre del 1979 a causa di un aneurisma cerebrale. Sulla sua lapide sono incisi i due versi che chiudono la sua poesia “The Bight”, che tradotti recitano “tutta l’attività disordinata continua, terribile, ma allegra”.




Buchi, cittadina di seconda classe

“Buonasera signora Emecheta1, mi segua! Ho preso un tavolino dentro, che il tempo oggi non promette bene.”
“Perfetto, andiamo che ho sentito una goccia! Ah, ti prego, chiamami Buchi!”
Dietro gli occhiali appannati dal fumo del tè, Buchi nasconde due grandi occhi neri, che, si capisce subito, hanno visto tante cose e vengono da una terra lontana.
“Da quanto vive a Londra?”
“Uh, ormai è una vita! Ho lasciato la Nigeria nel ’60, fatti il conto…”
“Come mai ha lasciato l’Africa?”
“Ho seguito mio marito e poi, sai… L’Europa era per me la terra promessa: gli anni che ho passato in Africa non sono stati affatto facili e non avevo molte prospettive.”
“Dov’è che ha trascorso l’infanzia, precisamente?”
“Sono nata a Yaba, vicino Lagos, in Nigeria e lì ho vissuto i primi 16 anni della mia vita. La mia famiglia era molto povera e i miei hanno dovuto scegliere chi far studiare tra me e mio fratello. Inutile dirti chi hanno scelto… Ma fin da piccola io avevo le idee molto chiare, non ero un caratterino facile! Ci ho messo un po’, ma alla fine li ho convinti di quanto fosse importante anche la mia educazione e mi hanno mandato in una scuola di missionari. Poi, ho vinto una borsa di studio per la Methodist Girls’ School, dove sono rimasta finchè non ho sposato Sylvester.”
“Com’è stato il vostro matrimonio?”
“Quando siamo arrivati nel Regno Unito ho cominciato a rendermi conto di quanto mio marito non fosse neanche lontanamente la persona con cui volevo condividere il resto della mia vita. Era un violento, possessivo e autoritario, ed io ero profondamente infelice. Ho sopportato per anni e anni le sue manie, la sua violenza, trovando forza nell’amore dei miei figli e nella scrittura. Eppure, mio marito riteneva piuttosto disdicevole che una donna, o meglio, che la sua donna, inseguisse il proprio sogno e così, un bel giorno, ha dato fuoco al manoscritto del mio primo romanzo.”
“È un gesto molto violento, come l’ha fatta sentire? Come ha reagito?”
“In queste situazioni si dice ‘mi ha fatto perdere il senno’, ma non è così: me l’ha fatto ritrovare! Ho capito che era solo l’ennesimo tentativo di calpestare la mia dignità e privarmi della mia libertà e, soprattutto, mi sono resa conto che la mia vita era troppo preziosa per essere sprecata accanto a un uomo che mi considerava solo in quanto moglie e madre.”
“Mi dica se sbaglio, Buchi, ma a me sembra quasi di sentirla raccontare la trama di ‘Cittadina di seconda classe’…”
“È ovvio che Adah non è un personaggio frutto unicamente della mia fantasia: la sua storia è in gran parte la mia storia. Ho tentato di raccontare, attraverso la sua figura, l’enorme fatica che ho fatto per tutta la vita per tentare di conciliare le varie facce della mia medaglia: la donna libera, la donna madre e la donna scrittrice, lavoratrice.
Alla fine, Adah, cioè Buchi, ce la fa: riesce ad integrarsi e ad emanciparsi grazie al lavoro da bibliotecaria, divorzia e cresce i suoi figli da sola. È scrivere che la rende libera.”
“Mi sembra che nei suoi romanzi ci sia un forte protagonismo femminile. Quali sono i temi di cui si è occupata maggiormente?”
“Ho parlato tanto di maternità, di emancipazione ed oppressione, ma anche della mia Africa, che porto sempre nel cuore. Credo, in generale, di aver affrontato tutti i problemi e i pregiudizi che si trovano ad affrontare le donne che vivono nella società di oggi. In particolare, sento di aver dato voce alle donne nere, a cui spero di aver lasciato un messaggio per me molto importante: dobbiamo unirci e riesaminare, ridefinire, il modo in cui la storia ci ha rappresentato: è l’unica via per uscire dal ruolo a cui siamo state relegate. Anche quando le circostanze non depongono a nostro favore, bisogna avere il coraggio di inseguire i propri sogni, perché a volte, e io ne sono la prova vivente, la testardaggine paga!”

 

1BUCHI EMECHETA: nata a Yaba, un piccolo villaggio vicino a Lagos, nel 1944, è stata una scrittrice nigeriana.
Si trasferì a Londra a soli 17 anni, per seguire il marito e nel 1970, dopo aver divorziato, si laureò in Sociologia.
Molte sue opere, come “In The Ditch” e “Cittadina di seconda classe”, sono ricche di spunti autobiografici e trattano della condizione della donna nella società nigeriana e delle difficoltà che ogni donna è costretta ad affrontare nel mondo di oggi.
Tra i romanzi che ha scritto, hanno avuto molto successo anche “The Bride Price” e “The Joys of Motherhood”.
È morta a Londra nel 2017.




A Napoli da Matilde

“Guarda che bello… Per carità, Roma è Roma, ma un lungomare così dove altro puoi trovarlo?”
“Ha ragione signora Serao1, Napoli ti entra nel cuore… Lei quando è venuta qui?”
“Ho seguito la mia famiglia nel 1861, avevo solo cinque anni. Ci siamo trasferiti perché mio padre è stato assunto alla redazione de Il Pungolo.”
“È grazie a lui che ha cominciato a scrivere?”
“Sicuramente mio padre mi ha fatto avvicinare al mondo del giornalismo e mi ha abituato sin da piccola all’ambiente della redazione, ma in realtà ho imparato a leggere e a scrivere molto tardi!”
“Quindi il suo esordio a quando risale?”
“All’inizio scrivevo brevi articoli per il Giornale di Napoli, poi ho pubblicato qualche novella sotto lo pseudonimo di “Tuffolina”. Però, al di là di questi primi esperimenti, la mia prima pubblicazione vera e propria è stata la novella “Opale”, che uscì nel 1878 sul Corriere del Mattino.”
“Da lì in poi ha scritto romanzi che hanno avuto un successo strepitoso! Penso a “Fantasia”, o a “Il ventre di Napoli”…”
“Sì, ma ti fermo subito: scrivere mi ha sempre appassionato tantissimo, soprattutto perché mi ha consentito di far trapelare dei lati della mia personalità che in un articolo non potevo mettere in luce, ma è al giornalismo che ho dedicato tutta la mia vita. Possiamo discutere a lungo di tecniche letterarie, di personaggi, ma sul giornalismo ho cose molto più interessanti da raccontare, perché ho passato la mia vita a sgomitare per conquistare il posto che meritavo e, nel mentre, ho visto tante cose, cara mia!”
“Io la seguo, signora Serao! Le va di raccontarmi la sua esperienza a Roma, allora?”
“Ecco, di Roma, per esempio, ho davvero tante cose da dire! Ho iniziato a collaborare con il giornale Capitan Fracassa, dove ho avuto la libertà di spaziare dalla critica letteraria alla cronaca mondana. Inoltre, sono entrata nei salotti romani, ho conosciuto personalità del calibro di Carducci e D’Annunzio, ma mi vedi? Ti sembro una tipa da salotto io? Non lo sono e tantomeno lo ero; il fatto che non c’entrassi proprio niente con quelle damine eleganti, intente a parlare del nulla, non mi ha di certo favorito.”
“Però mi risulta che a Roma abbia conosciuto l’amore, quindi su qualcuno sicuramente ha fatto colpo!”
“Ah, Edoardo… Amava di me proprio quella spontaneità che in quei salotti risultava fuori luogo. Insieme abbiamo fondato Il Corriere di Roma, nell’85. È durato solo due anni, ma subito dopo aver smesso di pubblicare, Matteo Schilizzi ci propose di tornare a Napoli e di fondere la nostra testata alla sua, Il Corriere del Mattino, e così nacque Il Corriere di Napoli.”
“E poi? Come siete arrivati alla fondazione de Il Mattino?”
“Io ed Edoardo abbiamo deciso di cedere la nostra parte di proprietà sul Corriere e con il ricavato abbiamo fondato il nuovo giornale. Era il 1892, che dopo molto poco si rivelò uno degli anni peggiori della mia vita.”
“Come mai dice così?”
“È l’anno in cui il mio matrimonio si spaccò definitivamente, tanto che io me ne andai di casa per un paio d’anni e al mio ritorno… Insomma, della storia di Gabrielle2non ho voglia di parlare, ma lo scandalo uscì su tutti i giornali e fu molto difficile a quel punto tenere separate la mia carriera e la mia vita privata.
Ho fatto ciò che potevo e ho cresciuto Paolina come se fosse mia figlia, con tutto l’amore che meritava. D’altronde, lei non c’entrava proprio niente, povera creatura…”
Ha ragione: dello scandalo so già tutto e più la guardo, più mi chiedo come abbia fatto a rialzarsi dopo una simile tragedia. Eppure, con la sua risata fragorosa, Matilde ce l’ha fatta e, in risposta a chi voleva scagliarla nel dimenticatoio, ha ricominciato da zero con un nuovo compagno e, soprattutto, con un nuovo giornale.

 

1MATILDE SERAO: nata a Patrasso nel 1856 è stata una scrittrice e giornalista. È stata la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma, e, a partire dal 1903, Il Giorno.
Ha scritto romanzi indimenticabili come “Fantasia”, “Il ventre di Napoli” e “Addio, amore!”.
Morì nella sua amata Napoli nel 1927, colpita da un infarto mentre scriveva nel suo studio.

2GABRIELLE BESSARD: cantante di teatro, ebbe una relazione con Edoardo Scarfoglio, marito di Matilde Serao, da cui nacque una bambina. Quando Scarfoglio decise di restare con la moglie, Bessard si suicidò sull’uscio della casa della coppia, affidandogli la bambina neonata. La scrittrice accolse la bambina come fosse sua figlia. Nonostante fosse stata richiesta la massima riservatezza, lo scandalo uscì sul Corriere di Napoli, in aperta polemica con la coppia Scarfoglio-Serao.




Ad Atlanta con Margaret

Atlanta, con i suoi grattacieli e i suoi mille colori, non è lo sfondo che immaginavo per il mio incontro con Margaret Mitchell e il suo viso di porcellana. Eppure, è qui che Margaret1è nata e ha passato gran parte della sua vita.

“Tu ora la vedi così, ma un tempo di questi grattacieli non ce n’era neanche uno!”

“Com’è stata la sua infanzia ad Atlanta?”

“Credo di aver avuto una bellissima infanzia, anche se con mio padre ho sempre avuto un rapporto un po’ burrascoso, sai… Mentalità incompatibili! Con mia madre invece avevo un rapporto meraviglioso, è grazie a lei se sono come sono oggi.”

“Che tipo era sua madre?”

“Era una donna che sapeva coniugare una grande fermezza e una dolcezza indescrivibile. Quando se ne è andata per me è stato un colpo durissimo, ma le sue ultime parole non hanno fatto altro che confermare la sua infinita intelligenza e consapevolezza.”

“Cosa le ha detto prima di andarsene?”

“Purtroppo, non l’ho potuta abbracciare di persona, ma mi ha mandato una lettera in cui si è raccomandata di non tralasciare mai la mia vita per occuparmi di quella degli altri e di non rinunciare mai ai miei sogni per far felice qualcun altro.”

“Mi dispiace non abbia potuto salutarla… Dove si trovava?”

“Avevo iniziato gli studi di medicina allo Smith College, in Massachusetts, ma la morte di mia madre mi ha portato a lasciare il college e tornare a casa.”

“E una volta tornata ad Atlanta?”

“Avevo 20 anni e fino a quel momento avevo scritto per me stessa e pochi intimi, ma dopo qualche mese mi è stato offerto un posto all’Atlanta Journal Sunday Magazine… Che soddisfazione! Ho avuto persino l’occasione di intervistare Rodolfo Valentino! Poi quell’incidente…”

“Quale incidente?”

“Non lo sai? Si legge che abbia lasciato il lavoro per scrivere “Via col vento”, ma non è così: mi sono rotta la caviglia e la convalescenza mi ha costretto a letto per mesi! A quel punto mi sono dovuta licenziare per forza e per passare il tempo ho deciso di provare a dare forma a quella storia che avevo in mente da così tanto tempo.”

“È stato difficile delineare un personaggio poliedrico come Rossella O’Hara?”

“Molto e ti dirò perché: lei non c’entra assolutamente nulla con la classica eroina del filone romantico. Rossella non è un personaggio che piace o non piace, in quanto allo stesso tempo la si ama e la si odia e non si può fare altrimenti. Non fa altro che commettere errori in amore, non riusciamo a condividerne le scelte, ma questo la rende decisamente più umana e fa sì che in fondo, ci faccia simpatia. Seppur dall’alto dei suoi privilegi, Rossella è una ribelle per i tempi in cui vive. La Guerra di Secessione la costringe a rimboccarsi le mani e, in parte, a lasciarsi alle spalle la frivolezza della vita che conduceva. È in quel momento che l’apparente perfezione si frantuma e il suo comportamento fa parlare le malelingue della città.”
“Via col vento ha avuto un successo strepitoso, superando il milione di copie vendute nelle prime settimane dopo la pubblicazione. Come mai ha deciso di non pubblicare altri romanzi?”

“Attorno a “Via col vento” si è scatenato un polverone che non mi aspettavo di certo… Mi ha fatto vincere il Pulitzer del 1936 e addirittura mi ha fatto portare a casa una candidatura al Nobel per la letteratura! ll successo editoriale è stato accresciuto, non c’è neanche bisogno di specificarlo, dal film di Victor Fleming, che ha fatto esplodere i botteghini di tutto il mondo.
Tutto ciò mi ha riempito di gioia e orgoglio, ma credo che se avessi continuato a scrivere avrei deluso le aspettative dei miei lettori e delle mie lettrici, in quanto dubito che sarei mai riuscita a pubblicare qualcosa che reggesse il confronto con “Via col vento”.
Poi, in realtà, ho continuato a scrivere romanzi, ma non ho intenzione di pubblicarli… Ai miei familiari ho dato disposizioni di bruciare tutto, quando non ci sarò più. Chissà se rispetteranno la mia volontà o se ci saranno belle sorprese!”

1MARGARET MITCHELL: nata nel 1900 ad Atlanta, è stata una scrittrice e giornalista statunitense. Iniziò gli studi in medicina, ma lasciò il college dopo la morte della madre, nel 1919.Tornata ad Atlanta venne assunta all’Atlanta Journal Sunday Magazine come giornalista, anche se a causa di una brutta frattura fu costretta a lasciare il lavoro.
Fu proprio durante la convalescenza, infatti, che scrisse “Gone with the wind” (“Via col vento”), che fu pubblicato nel 1936 e che vinse il premio Pulitzer nel 1937.
Il romanzo ebbe un successo straordinario, ma dopo soli dodici anni Margaret morì, investita da un taxi.




La Nuoro di Grazia

Ai piedi del monte Ortobene, nella Sardegna continentale, si estende Nuoro, città natale di Grazia Deledda1.

Mi aspetta davanti alla scuola elementare del centro, con i capelli bianchi raccolti e quei tratti così marcati da conferirle un’apparente, perenne severità.

“Buongiorno signora Deledda!”

“Buongiorno a te! Prima volta a Nuoro?”

“Sì, sono stata più volte in Sardegna ma Nuoro mi mancava…”

“Dai, allora ti faccio fare un giro in città! Partiamo da qui: questa è stata la mia scuola elementare, nonché l’unica che io abbia mai frequentato.”

“Come mai si è fermata negli studi?”

“Non mi sono fermata, ho solo proseguito per conto mio! L’istruzione superiore qui a Nuoro, e non solo, era ancora preclusa alle ragazze, quindi, finita la quarta elementare, i miei genitori mi hanno fatto prendere lezioni private di italiano, latino e francese. Dopo di che ho continuato a studiare totalmente da autodidatta.”

“Non aver frequentato il liceo le ha mai creato problemi durante la sua lunga carriera?”

“Assolutamente sì, la nomea di “illetterata” ha gravato sulle mie spalle come un macigno! Pensa che, agli esordi, ho fatto molta fatica ad essere presa in considerazione, perché molti editori si rifiutavano anche solo di leggere ciò che scrivevo.”

“Poi però i suoi romanzi hanno ricevuto gli apprezzamenti di personaggi del calibro di Verga e Capuana, no?”

“Sì, ma non credere… Il marchio di non istruita me lo sono portato sempre appresso, anche quando ho vinto il Nobel del ‘26 c’è stato chi gridava all’ingiustizia, proprio a causa dei miei studi!

La vedi quella chiesa che sbuca lì in cima? È il mio posto preferito di tutta Nuoro, è la Chiesa della Madonna della Solitudine.”

Lo vedo nei suoi occhi quanto è innamorata di quest’isola.

“Cosa c’è della Sardegna in ciò che ha scritto?”

“C’è tanto, tantissimo: direi che è la protagonista indiscussa dei miei romanzi. C’è la sua meravigliosa natura, i suoi paesaggi ancestrali, ma c’è anche la società fortemente patriarcale che a me è sempre stata così stretta. Anche il sardo è un elemento importante, perché credo che, anche se stemperato dall’italiano letterario, abbia contribuito molto a rendere veri e realistici i miei personaggi.”

“E la Sardegna come ha reagito al successo raggiunto con ‘Elias Portolu’ prima e ‘Canne al vento’ poi?”

“Da una parte credo ci sia stato il classico orgoglio regionale, dall’altra, ti dirò, ho suscitato un’antipatia generale, dovuta al fatto di aver restituito un’immagine poliedrica della Sardegna, mettendone in luce il bene e il male. Io credo di averla descritta con autenticità, c’è chi crede io l’abbia invece dipinta più arretrata di quanto non fosse.”

“Secondo lei, c’è qualcosa che lega i personaggi dei suoi romanzi, a prescindere dalle vicende?”

“Sì, se ci fai caso, i protagonisti sono in questo stato di smarrimento, consapevoli della fatalità della vita umana, ma incapaci di arrendersi ad essa. L’uomo è così: si dimena tra angosce e pulsioni e, nel frattempo, incassa i colpi della sorte, proprio come una canna al vento.”

 

 

1GRAZIA DELEDDA: nata a Nuoro nel 1871, è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura del 1926.

L’esordio letterario avvenne a soli 17 anni, quando inviò alla rivista romana “Ultima moda” il primo scritto “Sangue sardo”, chiedendone la pubblicazione.

Il suo primo romanzo di successo fu “Elias Portolu”, ma fu consacrata al grande pubblico da “Canne al vento”, del 1913.

L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” venne scritto nel 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Di lì a poco, il 15 agosto dello stesso anno, Grazia Deledda si spense.Lasciò un’opera incompiuta, che verrà pubblicata l’anno successivo a cura di Antonio Baldini con il titolo “Cosima, quasi Grazia”.




A Bologna da Renata

Renata Viganò1ha un viso buono, è questa la prima cosa che mi ha colpito di lei. È una di quelle rare persone che riescono a metterti a proprio agio con un solo sorriso. Così è stata anche con me, dal momento in cui mi ha aperto la porta della sua casa a Bologna.
“Spero tu non abbia paura dei gatti!”
“No, si figuri.”
“Bene, da quando sono nata ho sempre avuto gatti in famiglia, ormai non so stare senza!”
“Com’era la sua famiglia?”
“La mia era una classica famiglia della borghesia bolognese, ma sin da piccola mi è stata stretta questa vellutata, stagnante, bigotta simulazione della classe a cui appartenevo. Poi a un certo punto la famiglia è andata in rovina e, di conseguenza, ho passato l’adolescenza in una situazione economica tutt’altro che rosea, tanto da dover abbandonare gli studi. Andai a fare prima l’inserviente, poi l’infermiera negli ospedali e ti dirò che sotto sotto mi piaceva! Certo, è stato un salto brusco, ma il mio sogno è sempre stato studiare medicina e in questo modo ho potuto farlo. In fondo, per me fu abbastanza facile passare alla condizione proletaria, e di questo devo ringraziare anche i miei, che fin da piccola mi abituarono a non considerare il mondo a strati.”
“Qual è la figura della sua famiglia che ha lasciato l’impronta più significativa sul suo modo di essere oggi?”
“Mi hanno sempre detto che assomiglio tanto alla bisnonna Caterina, che aveva guidato una ditta di vetture per matrimoni, battesimi e funerali che era stata la fortuna economica della famiglia. Sapevamo da vecchi discorsi tramandati che era piccola, vivace, aggressiva, che montava a cavallo come un cow boy e che ha passato la sua vita a mandare avanti la ditta. Vedevano questa somiglianza tra me e la bisnonna forse perché fra i nipoti ero la più piccola, vivace e aggressiva, o forse perché cominciai a scrivere poesie. L’estro poetico, dicevano, veniva di lì”.
“Oltre alla passione per la medicina, ovviamente il suo grande amore è la letteratura. Nel suo romanzo “L’Agnese va a morire” racconta le avventure di Agnese, un’eroina poco eroica, nella Resistenza italiana.
Qual è stato il suo rapporto con la lotta partigiana?”
“Mio marito Antonio nel ’43 si è unito alla Resistenza e io l’ho seguito. Ho mollato la mia casa, le mie cose, ho portato nostro figlio Agostino con me e sono diventata partigiana anch’io. Ho partecipato alla Resistenza come staffetta, sotto il nome di Contessa.”
“Cos’avete in comune lei e Agnese?”
“In comune c’è sicuramente la lotta partigiana, soprattutto perché l’abbiamo vissuta entrambe da donne. Devo però specificare che le ragioni che ci hanno spinto a combattere il fascismo sono profondamente diverse: il percorso politico che ho fatto io, insieme a mio marito, con Agnese non ha nulla a che spartire. Lei nel romanzo aderisce attivamente alla causa antifascista solo dopo l’uccisione della sua gatta da parte dei nazisti, una brutalità gratuita su un essere vivente che rappresentava il legame con il marito Palita, già ucciso dai tedeschi. Da quell’istante Agnese si unisce ai partigiani, spinta da una potentissima forza interiore, che, se vuoi, è un qualcosa di ancora più primordiale rispetto alla coscienza politica. Si muove per un istinto naturale, umano, di giustizia…”
Le sue parole vengono interrotte da un miagolio timido ma insistente: un bel gatto bianco è salito sul tavolo e ha cominciato a strusciare il muso sulla mano di Renata.
“Vedi, io parlo di istinto naturale di giustizia… Ma quale giustizia, tu vuoi i bocconcini, ti conosco, furbacchione!”

1RENATA VIGANÒ: Renata Viganò, scrittrice e partigiana, nacque a Bologna il 17 giugno 1900. A soli dodici anni riuscì a far pubblicare la sua prima raccolta di poesie “Ginestra in fiore”, seguita da “Piccola fiamma” nel 1915, ma l’opera che la consacrò fu “Agnese va a morire” (1949), romanzo di impianto neorealistico capolavoro della narrativa ispirata alla Resistenza. Tra le altre opere sulla guerra di Liberazione spiccano “Donne della Resistenza” e “Matrimonio in brigata”. Morì a Bologna il 23 aprile 1976.

 




Ni una mujer menos, ni una muerta más

Ciudad Juárez non è esattamente il posto ideale per farsi una bella vacanza, se sei una donna poi, meno che mai. Questa città messicana nella regione di Chihuahua è tristemente nota per l’altissimo numero di omicidi che da ormai quasi 30 anni la portano in cima alle statistiche sulla criminalità.
Una macchina accosta accanto al marciapiede. Considerata la fama della città non riesco a stare tranquilla, finché non si abbassa il finestrino: “Sali in macchina! Non è sicuro girare da sole!”.
È Susana Chávez1, ci saremmo dovute incontrare direttamente in un bar, poche centinaia di metri più avanti, ma a questo punto un passaggio lo accetto volentieri.
“Grazie, andiamo al bar di cui mi ha parlato al telefono?”
“Ti prego, non darmi del Lei. Siamo praticamente coetanee…”
Sedute davanti a una birra gelata, in una delle poche vie sicure di Ciudad Juárez, parlare con Susana è come rincontrare una vecchia amica, pur non avendola mai vista prima d’ora.
“Quando hai cominciato a scrivere poesie?”
“Ero molto piccola, avevo 11 anni. Ovviamente crescendo ho trascinato con me la mia poesia, è cresciuta anche lei.”
“C’è un filo conduttore in tutta la tua produzione?”
“Sicuramente il protagonismo della natura, del simbolismo naturale. Da grande, ho trovato grande ispirazione anche nel mondo femminile, nelle mille sfaccettature che esistono nell’approccio delle donne alla propria corporeità. Credo che questo senso di vergogna che ci è stato instillato fin da bambine abbia generato una cappa di silenzio, ma è proprio nel silenzio che una voce fa più rumore.”
“Che intendi dire?”
“Intendo dire che si può partire dal proprio silenzio, dalla propria marginalità per ritagliarsi uno spazio di libertà, di autonomia. In poche parole: non è mai troppo tardi!”
“Credi che scrivere possa cambiare il mondo?”
“A questo non so risponderti. Sono convinta che la poesia possa risvegliare le coscienze e magari, aiutare a far alzare la voce. Questo è sempre stato il mio obiettivo primario, sia come attivista sia come poetessa.”
“Cos’è che rende così grave la situazione nel Chihuahua?”
“Dal 1993 in questa regione viene portato avanti un genocidio di genere senza fine, che cresce ogni anno che passa, tanto che siamo arrivati a una media di tre donne uccise ogni due giorni. È difficile individuare i fattori che hanno portato il Messico a questa situazione, sicuramente c’è un problema culturale, c’è la criminalità organizzata e ci sono le maquiladoras…”
“Scusa se ti interrompo, cosa sono le maquiladoras?”
“Qui in Messico sono stabilimenti industriali controllati dagli Stati Uniti dove vengono assemblati prodotti che poi tornano al paese d’origine. I diritti umani nelle maquiladoras praticamente non esistono e ci lavorano moltissime ragazze per pochi dollari al giorno. Le inserisco tra i fattori che hanno fatto impennare il tasso di femminicidi in Messico, perché molte delle vittime sono operaie delle maquiladoras, che vengono rapite, violentate e uccise lungo il percorso che fanno tutti i giorni per andare e tornare dalle periferie e dalle zone rurali di questa regione.”
“C’è una speranza per Ciudad Juárez?”
“Finché il governo non si deciderà ad aprire gli occhi, a interrompere il suo silenzio complice, continueremo a essere decimate e potrà solo andare peggio. Ora come ora provo una sensazione di vuoto, abbandono e impotenza, suppongo come molti altri. Immaginare un miglioramento per quanto mi riguarda è difficile, ma nutro ancora delle speranze perché sono una donna di fede!”

Una Ciudad Juárez diversa Susana non la vedrà mai. Il 6 gennaio del 2011 l’hanno ritrovata morta sul ciglio della strada, abbandonata come un sacco di spazzatura. Aveva 36 anni.
Dopo il ritrovamento, il cadavere è stato trattenuto dalle autorità per cinque giorni e si è fatto di tutto per slegare l’omicidio di Susana dal suo attivismo politico.
“Era ubriaca…Ha incontrato tre ragazzi fuori controllo al bar, la situazione è sfuggita di mano…” hanno detto gli inquirenti, che, tradotto, suona come il solito, vergognoso “se l’è andata a cercare…”.

 

1SUSANA CHAVEZ: nata a Ciudad Juárez nel 1974 è stata una giornalista, poetessa e attivista per i diritti umani messicana. Iniziò a scrivere poesie da bambina, partecipando a molti dei festival letterari e forum culturali Messicani, offrendo anche letture delle sue poesie durante le manifestazioni per le donne scomparse e assassinate. Laureata in psicologia alla Universidad Autónoma de Ciudad Juárez, al momento della morte stava lavorando ad un libro di poemi e scriveva inoltre sul suo blog Primera Tormenta.
È conosciuta come l’autrice dello slogan “ni una mujer menos, ni una muerta más” (“non una donna di meno, non una morta in più”, usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juárez.
Fu uccisa nella sua città natale il 6 gennaio 2011.




Le parole tra me e Lalla

“Buonasera, signora Romano1!”
“Buonasera! Mi scusi per l’orario insolito, ma il caffè ormai sono abituata a prenderlo a quest’ora, tra l’altro in questo bar.”
In effetti, un caffè alle 18:00 equivale a insonnia quasi certa…

“È una cliente abituale, quindi?”

“Sì, prendo qui il caffè ogni sera, da quando mi sono trasferita a Milano. Fino a qualche anno fa mi ritrovavo a questi tavolini con i miei amici scrittori, poi abbiamo perso quest’abitudine purtroppo…”
“Quando è venuta a vivere a Milano?”
“Ho raggiunto mio marito nel dopoguerra e qui sono rimasta tutta la vita, ma io in realtà sono piemontese, ho vissuto le guerre tra Demonte, vicino Cuneo, e Torino.”

“Che ricordo ha della Resistenza Italiana? So che ne ha preso parte!”
“Sì, ho partecipato alla lotta partigiana, ma riconosco di non essere mai stata in prima linea.
Sono entrata nei Gruppi di difesa della donna, ho corso anche io i miei rischi, ma ho deciso di non scriverne mai.”

“Come mai questa scelta? La letteratura sulla Resistenza ha avuto un successo clamoroso nei decenni dopo la seconda guerra mondiale…”

“È stata una scelta dettata dalla convinzione che ognuno debba occuparsi di ciò che gli compete e io mi sono sempre sentita aliena dallo scrivere di questioni politiche, sociali ed economiche.
È la stessa ragione per cui mi sono dimessa nel ’76, dopo esser stata eletta consigliera comunale a Milano… Banalmente, non fa per me!”

“Quando ha iniziato a scrivere?”

“In realtà piuttosto tardi, ho esordito con una raccolta di poesie intorno ai trent’anni: il mio primo approccio all’arte è stato con la pittura. Poi, dopo una serie di romanzi, ho scritto “Le parole tra noi leggere”: il successo è arrivato nel ’69 e non ero più una ragazzina da un bel po’!”

“Proprio di quel romanzo volevo parlare: Anna Banti al riguardo ha detto <Minuziosamente, con una precisione da cartella clinica niente affatto pietosa, vengono registrati gli incontri-scontri fra istinti analoghi e divaricati in una quasi sacrilega ricerca di reciproca offesa>.  Pensa sia una giusta analisi del libro?”

“Credo che Anna abbia ragione: le parole tra me e mio figlio sono tutt’altro che leggere. Anche quando sono ironiche, nascondono una sfida che va oltre le piccole battaglie quotidiane.”
“Secondo lei perché il romanzo ha avuto così tanto successo?”
“Penso abbia avuto un peso fondamentale il contesto storico in cui è stato pubblicato. Ovviamente io racconto di un periodo antecedente al ’68, ma le ribellioni di Piero alla scuola e alla famiglia si inseriscono perfettamente nel clima sessantottino, nonostante mio figlio sia della generazione precedente. È un personaggio che, se vuoi, ha anticipato gli atteggiamenti dei ragazzi figli del ’68 e credo sia questa la ragione di tanto successo. In fondo, la rivoluzione sociale che fa da sfondo al romanzo, ovvero il passaggio da un tipo di educazione più repressiva a un’educazione permissiva, nel ’68 ha avuto il suo massimo apice, quindi è ovvio che la sua pubblicazione nel ’69 sia caduta involontariamente a pennello.”

“È stato apprezzato tanto dal pubblico, quanto dalla critica: le ha fatto vincere il Premio Strega di quell’anno!”
“Sì, è stato un grande onore. Ma, proprio la genuina spontaneità premiata dalla critica ha aggravato ulteriormente il conflitto con mio figlio, che credo non mi abbia mai perdonato di aver messo per iscritto le parole tra noi tutt’altro che leggere. Sono cose che nessun riconoscimento ti ridà indietro…”
Afferra tra le dita la sua tazzina di caffè, in una presa tremolante, ma nel complesso solida, portandosela alle labbra per berne l’ultimo goccio. La conosco da dieci minuti, ma già mi ha trasmesso la straordinaria, insolita fierezza di essere pienamente sé stessa in tutto ciò che fa, serenamente libera in tutto che dice.

1LALLA ROMANO: nata a Demonte nel 1906, è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università di Torino, dove si laurea a pieni voti nel 1928.
Pubblica la prima raccolta di poesie nel 1941, con il titolo “Fiore”. Dopo la guerra raggiunge il marito Giovanni Vermiglia a Milano e nel 1951 pubblica il primo romanzo “Le metamorfosi”, seguito da “Maria”, “Tetto murato” e “Diario di Grecia”.
Nel 1969 arriva il successo con “Le parole tra noi leggere”. Negli anni successivi continua a scrivere poesie e romanzi, come “L’ospite”, fino a che si spegne nel 2001, al fianco del suo amorevole compagno Antonio Ria.