Sulla lettura

In Italia pare che, alla più diffusa e elevata scolarizzazione degli ultimi decenni, non corrisponda una maggiore capacità di comprendere ed interpretare in modo adeguato il significato di testi scritti; la cosiddetta «literacy» , nella popolazione adulta italiana è molto più bassa della media dei Paesi dell’Ocse . Secondo i dati dell’indagine comparativa internazionale del 2014, il 70% della popolazione italiana in età da lavoro (16-65 anni) si guadagna l’ultimo posto della classifica, insieme alla Spagna, nonostante il nostro Paese abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100%. I nuovi analfabeti in Italia sono costituiti per il 10% da disoccupati, svolgono lavori manuali e ripetitivi, poco più della metà sono uomini e uno su tre ha superato i 55 anni. Tra loro sono ampiamente rappresentate le fasce culturalmente più deboli dei pensionati e delle persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito, geograficamente il sud e il nord ovest da soli ospitano più del 60% dei low skilled, ovvero le persone con bassissime competenze, in ambito nazionale. La percentuale di analfabetismo funzionale aumenta proporzionalmente al crescere dell’età, passando dal 20% della fascia 16-24 anni all’oltre 41% degli ultracinquantacinquenni, sostanzialmente per due ragioni: chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria della scuola media unica e, comunque, nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno. Una condizione di analfabetismo così diffuso ha pesanti ripercussioni anche sullo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Secondo quanto affermava nel 2016 il linguista Tullio De Mauro, recentemente scomparso “All’interno del 30% di meglio alfabetizzati solo una percentuale modesta ha una buona conoscenza di lingue straniere e di linguaggi tecnico-scientifici. In attesa di indagini mirate e specifiche, che stiamo avviando, si può ipotizzare che solo il 10% della popolazione in età di lavoro capisce bene tecnicismi e forestierismi”.

Henri Matisse, Donna che legge con parasole

Oltre a essere analfabeti funzionali, siamo un popolo di non lettori. Secondo La produzione e la lettura di libri in Italia, relazione ISTAT pubblicata nel gennaio 2015, oltre 23 milioni e 750 mila persone, dai 6 anni in su, dichiarano di aver letto almeno un libro in un anno, per motivi non scolastici né professionali. Solo il 14,3% della popolazione italiana, i cosiddetti “lettori forti”,  legge più di 12 libri l’anno, e questa percentuale risulta essenzialmente stabile nel tempo. Un lettore/lettrice su due (circa il 45%), dichiara di aver letto al massimo 3 libri in un solo anno, mentre il 60% della popolazione italiana dichiara di non aver letto nemmeno un libro nel corso di un anno. Secondo i dati ISTAT 2016, nel periodo 2010-2016 si sono persi 3 milioni e 300 mila lettori, invertendo la tendenza all’aumento dei lettori degli anni ’60-’80 del secolo scorso. All’inizio degli anni ’60, l’8% della popolazione è analfabeta, il 75% ha la licenza elementare e solo il 16,3% legge libri, percentuale che più che raddoppiata nel 1988; ma da quel momento e nei vent’anni successivi rallenta il ritmo di crescita dei lettori di libri, anche se sarebbe più appropriato parlare di lettrici, visto che le donne leggono più degli uomini. Nel 2016 solo un terzo degli uomini legge libri contro quasi la metà delle donne. Dopo il 2010 i lettori maschi tra 11 e 14 anni sono diminuiti più del 25%, rispetto ad altri Paesi europei abbiamo livelli di lettura più bassi, caratterizzati da grandi differenze sociali e territoriali, con il Sud in svantaggio di 20 punti percentuali. Nel periodo 2010-2016, tra gli 11 e i 14 anni i non lettori sono il 46,8%, mentre tra i 65 e i 74 anni la percentuale cresce e si attesta sul 61%, con picchi del 73,5 % tra coloro che hanno dai 75 anni in su. Secondo l’ISTAT, la tendenza più negativa si riscontra fra le persone di sesso maschile (64,5% di non lettori), mentre la parte femminile si attesta sul 51,1%.

Pablo Picasso, Donna sdraiata che legge

Non risulta che l’uso di Internet sia significativamente entrato in concorrenza con la lettura di libri cartacei, anche per le fasce giovanili della popolazione. In una prima fase, al contrario, i maggiori fruitori di internet erano anche i maggiori lettori di libri e più in generale fruitori di cultura, e la lettura di e-book non decolla più di tanto:  nel 2016 sono solo 4 milioni coloro che hanno letto  un e-book, il 7% della popolazione. Strettamente correlato all’elevato numero di non lettori e all’analfabetismo funzionale è, non solo in Italia, il fenomeno delle cosiddette fake news, letteralmente notizie falsificate, artefatte, inventate e costruite per essere verosimili, o alimentate. Tra le più celebri rientrano senz’altro le strisce chimiche degli aerei e l’incendio di Roma attribuito da Nerone ai Cristiani. Di solito le fake news nascono quando chi fa qualcosa non ne spiega in modo trasparente e verificabile le ragioni e preferisce puntare sull’emotività o spostare l’interesse su temi secondari, e tendono a propagarsi in periodi di eccezionale crisi e disorientamento, come per esempio le guerre. “Kommt der Krieg ins Land,/Dann gibt’s Lügen wie Sand”  recita un vecchio proverbio tedesco. Secondo Marc Bloch, “Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita” , ed “è lo specchio in cui la “coscienza collettiva” contempla i propri lineamenti” . Lo storico francese osserva che, durante la Grande Guerra, la carenza dei giornali, la censura e l’incertezza dei collegamenti postali al fronte, insieme alla distruzione del senso critico dei soldati, causata dall’emozione e dalla fatica, determinano “un rinnovarsi prodigioso della tradizione orale, madre antica delle leggende e dei miti” . Oggi, nell’era della cosiddetta post truth – letteralmente “post verità” e sostanzialmente dopo la verità, nel senso di oltre la verità, e dunque non verità –paradossalmente, l’enorme quantità di informazioni dalla quale si è sommersi fa sì che, non riuscendo a selezionarle, si sia disinformati quanto i soldati al fronte  studiati da Marc Bloch. Lo spirito critico, traumatizzato dalla complessità multiforme e sfuggente della contemporaneità, appare decisamente appannato. In forme e con modalità differenti si ripresentano dunque le condizioni favorevoli al riproporsi della tradizione orale, del “sentito dire”, amplificati quantitativamente e mutati qualitativamente dal nuovo medium che li propaga a una velocità vertiginosa: il web, nel quale è facile restare impigliati come in una tela di ragno. Non ci si informa, si è informati, anzi disinformati, nell’era delle fake news e della post truth; ciò è quanto avviene ora, in Italia e in buona parte del globo.

In copertina. Edward Hopper, Compartimento C, Vagone 293




Veronica Gambara

Veronica Gambara, assai nota come poetessa tanto da essere accostata a figure quali Gaspara Stampa e Vittoria Colonna, e lodata, ancor prima di conoscerla personalmente, da Pietro Bembo – il quale conclude uno dei suoi sonetti affermando “e la voce udirò, che Brescia onora”- in realtà si caratterizza per uno sfaccettato profilo nel quale coesistono e si integrano la letterata, l’accorta politica e reggente del feudo del marito, la lucida intellettuale profonda conoscitrice del suo tempo e l’instancabile animatrice di cenacoli culturali. La sua cifra essenziale è quella di “poetessa reggente”, come emerge anche dalla sua corrispondenza con Pietro Bembo, che ci presenta l’immagine di una donna intenta a comporre versi e, allo stesso tempo, “politicamente impegnata, sempre attenta a cogliere l’occasione per creare una rete di protezione per la famiglia e il feudo”.  

1. Brescia. Foto di Claudia Speziali

Veronica nasce nel vecchio castello, poi distrutto nel XVIII secolo, di Pratalboino (oggi Pralboino) la notte tra il 29 e il 30 novembre 1485, figlia di Alda dei Pio di Carpi e di Gianfrancesco Gambara, titolare del feudo. La famiglia Gambara, nobile e assai colta, fa crescere figli e figlie in un ambiente nutrito di cultura e profonda ammirazione per i classici e l’antichità. Veronica riceve un’ottima educazione umanistica che comprende lo studio della filosofia, della teologia e del latino.

Per le famiglie nobili vige la consuetudine di cimentarsi con la poesia e la conversazione letteraria e Veronica comincia quindi a scrivere versi già nell’adolescenza, prendendo a modello la lirica petrarchesca e mostrando un notevole talento e un accento personale, una voce poetica unica e privata che si discosta fin dall’inizio dalle tante imitazioni di maniera. La ragazza trascorre l’adolescenza tra Pratalboino e Brescia. All’epoca la città, molto ricca, è caratterizzata da un vivace fermento culturale, che vede, con un gruppo di poetesse petrarchiste, l’affermazione autorevole delle donne delle “corti, tra cui la giovane Gambara.

2. Varese. Foto di Maria Pia Ercolini

Nella ricerca di un marito per Veronica, degno di lei per rango e ricchezze, i genitori si muovono in un ambito parentale e umanistico, scegliendo Gilberto VII (o Giberto), signore di Correggio, già padre di due figlie e vedovo di Violante Pico, nipote del celebre umanista neoplatonico Giovanni Pico della Mirandola. Il matrimonio civile viene celebrato per procura a Brescia il 6 ottobre 1508, mentre quello religioso, ottenuta la dispensa papale dovuta alla parentela, in forma privata ad Amalfi nel 1509. Il matrimonio, per quanto combinato, pare rivelarsi felice: la giovane si stabilisce nel piccolo feudo di Correggio ambientandovisi con facilità e si inserisce a pieno titolo nel fervore culturale e religioso del suo tempo.

Nel 1510 nasce Ippolito, che ha come padrino di battesimo il cardinale Ippolito d’Este e come madrina Isabella Gonzaga, scelta suggerita da ragioni di convenienza politica, visto l’incombere sul piccolo stato dell’ombra del potente ducato estense, e l’anno successivo viene alla luce il secondogenito Girolamo. Nel 1518 Giberto, a causa di un contagio da febbri malariche, muore non prima di averla nominata amministratrice dei beni dei figli e averle conferito la facoltà di coreggente della signoria, affiancandole il nipote Manfredo III.  

3. Correggio. Presunto ritratto di Veronica Gambara  (1517-18)

Il dolore per la morte del marito induce Veronica a escludere qualunque ipotesi di nuove nozze. Si occupa con grande abilità e determinazione dell’amministrazione dello stato, e con familistica lungimiranza dell’educazione dei due figli maschi e della strategia matrimoniale delle figlie femmine di primo letto di Giberto, rivelandosi una delle grandi madri reggenti del XVI secolo. 

Per garantire l’indipendenza della piccola contea di Correggio attua una politica di prudente e guardinga amicizia con i potenti vicini, in continuità con quella del defunto marito, e abbandona il tradizionale atteggiamento filofrancese dei feudatari padani e ricerca l’amicizia e la protezione di Carlo V, cui dedica cinque sonetti. Il suo passaggio da un orientamento filofrancese a uno filoimperiale si colloca sullo sfondo di forti spinte centrifughe, il definitivo tramonto dell’universalismo medievale, la scissione della Cristianità, determinata dalla Riforma protestante, e la minaccia turca. L’imperatore le appare dunque come l’unico garante dell’ordine e baluardo della tradizione e della fede, colui che “duo mondi ha vinto”, ovvero la Francia di Francesco I e i Turchi. Veronica spera inoltre che Carlo V si adoperi per il reintegro dei Gambara nei loro possedimenti di Brescia, confiscati dalla Serenissima. Il suo feudo riceve una nuova investitura dall’imperatore nel 1520 e la restituzione dei possedimenti agognati nel 1532.

4. Roma. Foto di Barbara Belotti

Nella politica familiare l si appoggia ai potenti fratelli per consolidare le sorti dello Stato attraverso la scalata a cariche prestigiose. Con l’obiettivo di non dividere l’esiguo patrimonio, destina il primogenito Ippolito alla successione e lo fa avviare al mestiere delle armi, mentre Girolamo viene indirizzato alla carriera ecclesiastica. Quando nel 1528 il Papa Clemente VII nomina Uberto Gambara governatore di Bologna, Gerolamo viene inviato presso lo zio per impratichirsi nei maneggi diplomatici, e Veronica stessa, alla fine dell’anno, si trasferisce a Bologna, occupando una posizione di primo piano grazie alla stretta parentela con il governatore, che le consente di godere di un rango prestigioso in occasione dell’incoronazione imperiale di Carlo V da parte del Papa e a ottenere una condotta per Ippolito nell’esercito imperiale. Per l’occasione si recano a Bologna molti nobili e uomini di cultura, tra i quali Francesco Guicciardini, Pietro Bembo, Francesco Maria Molza, Gian Giorgio Trissino, Francesco Berni, e la reggente di Correggio coglie l’opportunità di rinsaldare i suoi legami con il mondo delle lettere e dare  vita a un ben frequentato salotto nella città emiliana. La corte di Correggio, del resto, proprio grazie a Veronica, è un centro di rilievo nel panorama culturale del Rinascimento e vanta ospiti eccellenti quali Lodovico Ariosto, Pietro Bembo, Pietro Aretino, Bernardo Tasso e Carlo V, che si reca a Correggio in due occasioni, nel 1530 e nel 1533. 

Al fine di concentrare nelle mani del figlio le sorti patrimoniali e dinastiche del piccolo stato, inizia le trattative per il matrimonio di Ippolito, con Chiara di Correggio, figlia ed erede universale del cugino Gianfrancesco. 

Dagli anni Quaranta il governo del feudo passa nelle mani di Ippolito e dunque Veronica può concentrarsi maggiormente sull’attività letteraria, da lei mai davvero trascurata. 

È del 1549 il suo ultimo viaggio, a Mantova, per le nozze del duca Francesco III con Caterina d’Asburgo; muore, infatti, il 13 giugno 1550.  

Secondo il letterato correggese Rinaldo Corso, sarebbe stata sepolta con un ramo di ulivo e in bocca uno di lauro, a simboleggiare l’indole pacifica e il culto delle Muse.

5. Viterbo. Foto di Maria Pia Ercolini

Della sua produzione letteraria ci restano le Rime, molto amate dai lirici contemporanei e da poeti successivi come Giacomo Leopardi, e le Lettere, dalle quali emerge una figura capace di reggere il confronto con le grandi donne del suo tempo, prima fra tutte Isabella d’Este con cui condivide la vivace partecipazione alla vita culturale e politica del primo Cinquecento.  

Numerose sono le intitolazioni stradali in tutta Italia, da Milano a Roma, da Palermo a Brescia, dove esiste anche un liceo con il suo nome, e un premio del Museo Musicale, conferito a donne che si sono distinte nella valorizzazione e promozione culturale in città.

In copertina: Milano, foto di Paola Bortolani




Brescia alle urne, fra allineamenti e controtendenze

Due dati emergono con nettezza dai risultati delle elezioni amministrative del 10 giugno 2018 a Brescia: la più bassa partecipazione al voto mai registrata nella storia cittadina (57,44%) e la vittoria al primo turno della coalizione di centro-sinistra che ha guidato la città negli ultimi cinque anni. Il sindaco Del Bono viene riconfermato con il 54% dei consensi dei votanti, mentre al PD va il 35% dei voti. Il primo dato, abbastanza anomalo per una città di solito piuttosto massicciamente partecipe alle urne, è sostanzialmente in linea con le tendenze a livello nazionale, mentre il secondo appare più in continuità con la tradizione locale e in decisa controtendenza con l’andamento nazionale.

Al successo della coalizione di centro sinistra hanno contribuito sia lo scarso peso politico a livello locale del Movimento 5 stelle – completamente escluso dalla sfida per l’elezione del primo cittadino e in flessione non solo rispetto alle politiche di marzo ma anche alla precedente tornata amministrativa – sia l’exploit del PD cittadino. Oltre al PD, si sono schierate con il sindaco eletto due liste civiche e due liste guidate da donne, entrambe di ispirazione latamente  socialista. Fuori dalla coalizione è rimasta la sinistra “dura e pura” di Potere al popolo e il  PCI.

La campagna elettorale

La campagna elettorale, svoltasi sullo sfondo degli esiti delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, ha visto il confronto tra due candidate (una per la coalizione di centro destra e una per Forza Nuova), e sei candidati alla carica di sindaco, sostenuti da diciotto liste. Partita senza grande slancio propositivo, soprattutto a destra – i primi grandi cartelloni elettorali della coalizione guidata successivamente da Paola Vilardi consistono in un annuncio alla ricerca di qualcuno che “mandi a casa” il sindaco uscente Emilio Del Bono – è stata poi martellante e aspra, non priva di attacchi personali.

Nonostante la candidatura di Emilio Del Bono sia stata supportata da leader nazionali quali Graziano Del Rio e Maurizio Martina, che lo ha definito “il miglior sindaco che la città abbia mai avuto” , il sindaco uscente ha incentrato la sua campagna sulla realtà locale, tenendosi a debita distanza dalla realtà nazionale e separando  la dimensione amministrativa da quella parlamentare. Del Buono ha avuto un approccio alquanto pragmatico e concreto, vicino alla sensibilità locale, e, se un tocco di personalismo vi è stato, si è manifestato nell’uso dei social e nei frequenti incontri con la cittadinanza, da quelli organizzati con gli abitanti dei diversi quartieri, a quelli estemporanei e informali con singole persone, nelle strade e nelle piazze. In questo il primo cittadino uscente riprende una consolidata tradizione locale, iniziata con il democristiano Bruno Boni, sindaco di Brescia dal 1948 al 1975.

La presenza fisica nel tessuto urbano del “corpo del sindaco” è metafora plastica della capacità di Del Bono e della sua coalizione di iscriversi nella tradizione nella città, caratterizzata dalla presenza di un solido cattolicesimo democratico, quello di Martinazzoli sul versante politico e di un ricco e variegato mondo dell’associazionismo e del volontariato su quello sociale, e del dialogo tra mondo cattolico e comunista.

Foto 1. Emilio Del Bono

La sua ricerca del consenso si è basata su due punti: l’illustrazione degli effetti del suo buongoverno e la promessa di attuazione di altri interventi già deliberati. Con la sua giunta Brescia negli ultimi cinque anni ha registrato l’abbattimento del cromo esavalente nell’acqua, la raccolta differenziata al 65% (+ 27%), l’incremento del 50% del presidio della Polizia locale sul territorio e di quasi 13 milioni di utenti sul trasporto pubblico locale, il 113% in più di visitatori nei musei della città, il restauro e la riapertura della Pinacoteca, chiusa da nove anni. Restano ancora da fare la bonifica del sito industriale della Caffaro, azienda chimica che ha iniziato a inquinare i primi anni del Novecento, la realizzazione di un grande parco tematico, il taglio delle imposte comunali, l’istituzione del nucleo di Polizia locale di quartiere, il trasporto pubblico a zero emissioni, il doposcuola gratuito per bambini e bambine dai 6 ai 13 anni, la candidatura di Brescia a capitale italiana della cultura nel 2022.

Analisi del voto

Un dato significativo su cui riflettere è quello dell’elevato e crescente astensionismo, rispetto al quale nessuno può, né dovrebbe, cantare vittoria. Alle amministrative dell’aprile 2008, abbinate alle politiche, aveva votato l’84,7% degli aventi diritto, alle politiche del 4 marzo 2018 il 74,37%, alle amministrative del 10 giugno solo il 57,44%. L’unico partito che è riuscito a conservare il proprio zoccolo duro è il PD. Sia a sinistra, sia a destra si è registrato un insuccesso dei partiti minori, schiacciati dalle due coalizioni.

Secondo alcuni, il forte astensionismo, nonostante la buona affermazione della Lega (24,71%) avrebbe danneggiato la coalizione di centro destra, il cui  programma si è incardinato su cinque parole chiave – sicurezza, ambiente, famiglia, lavoro e futuro – non specificamente legate alla realtà locale, ma sostanzialmente una sorta di  passepartoutper Matteo Salvini, unico leader nazionale recatosi a Brescia a sostenere Paola Vilardi.

I mutamenti demografici, determinati dai fenomeni migratori, che hanno interessato Brescia negli ultimi decenni, si riflettono anche nella composizione delle liste elettorali. Fra gli aventi diritto al voto circa 12.000 sono neo-cittadini di origine immigrata, che hanno chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana, e rappresentano l’8,5% del corpo elettorale, mentre i residenti stranieri in città, al primo gennaio 2017, risultano essere il 18,5%.

In termini di candidature la presenza dei nuovi cittadini è veramente scarsa: sono solo 23 – 12 uomini e 11 donne, di cui nessun/a eletto/a – le candidature a consigliere/a, pari a meno del 4% del totale: certamente poche per una città che è terza in Italia, dopo Prato e Milano, per numero di stranieri residenti.

Una lettura di genere

Su 8 candidati a sindaco 2 sono donne (25%)  – una è la candidata della coalizione di centro destra e l’altra quella di Forza nuova – mentre le aspiranti consigliere costituiscono il 44,8% del totale con una leggerissima superiorità nelle liste del centrosinistra. La lista più “rosa” è quella di Fratelli d’Italia, che forse a Brescia si sarebbe potuta ribattezzare Sorelle d’Italia, con 19 candidate su 32 (59%), mentre fanalino di coda è il Movimento 5 Stelle con il 33% e Brescia Italiana. La coalizione di centro sinistra, presenta 16 uomini e 16 donne in ciascuna lista (50%).

Se si guarda in un’ottica di genere il risultato elettorale la situazione cambia poco. Su un totale di 32 consiglieri 12 sono donne (37,4%), di cui 8 su 20 (40%) nella coalizione di centro sinistra  e 4 su 11 (36,3%) in quella di centrodestra. Nello specifico, la lista civica di Laura Castelletti, Brescia per passione, elegge una donna e un uomo (50%), cui seguono il PD con 7 donne su 15 eletti (46,6%),  la Lega con 3 donne su 7 eletti (42,8%), Forza Italia con una donna su tre eletti (33%), mentre la Civica Del Bono sindaco, Sinistra a Brescia, Fratelli d’Italia e il Movimento 5 Stelle vedono l’elezione di soli candidati uomini.

Conclusioni

In questi risultati elettorali si può leggere l’intreccio tra continuità e cambiamento, il permanere di una tradizione accanto al lento e faticoso emergere dei mutamenti in corso nella società, una certa disaffezione critica rispetto alle imperfezioni della democrazia rappresentativa e contemporaneamente un’apertura di credito per il futuro all’uscente, e riconfermato, sindaco della giunta “del fare”, che ha indicato la propria mancanza di arroganza come una delle ragioni della riconferma della coalizione di centro sinistra.

Sicuramente Brescia, con l’esito di queste elezioni amministrative, conferma la propria anomalia nel panorama politico nazionale, tuttavia è ancora troppo presto per dire se il caso bresciano riuscirà a divenire modello o resterà confinato all’ambito locale.

 




Ansa, regina longobarda

Le regine longobarde sono figure poco conosciute; di loro si sa che sono donne la cui condizione è quella di consorte del re, priva di un ruolo definito sul piano formale, senza poteri specifici, né un particolare cerimoniale specificamente riservatole; uno status però in evoluzione, poiché la cultura longobarda assimila rapidamente il concetto della trasmissione del potere per via femminile, uno dei fondamenti della regalità delle donne, e, già nel corso del suo stanziamento in Italia, nel VI secolo d.C.  questo popolo si caratterizza per la funzione chiave svolta dalle sue  regine in tale ambito. Al consolidamento della pratica potrebbero aver contribuito i notabili romani che accettano di collaborare con la monarchia longobarda, eredi non solo delle tradizioni romane, ma anche di quelle dei Goti, che prevedono la prassi della reggenza del potere da parte della madre; un altro fattore importante è la tendenza all’ereditarietà della dignità regia, che si sovrappone nel tempo al criterio elettivo. Le regine longobarde sono attive in ambito religioso e impegnate a favore dei poveri, una funzione tipica di sovrane e imperatrici, derivante dall’estensione della dimensione materna all’insieme dei sudditi. Il nome della regina appare spesso accanto a quello del re in atti e donazioni, mentre il suo mantenimento viene assicurato dalle rendite di alcune proprietà terriere, le “curtes domnae regiae, situate probabilmente presso la capitale Pavia.

Foto 1. Via Regina Ansa, a Brescia

Ansa, ultima regina longobarda, sarebbe nata a Brescia, tra il 715 e il 720, sotto il regno di Liutprando (712-744). In città la sede del ducato è la Curia Ducis (Cordusio), situata appena fuori le mura romane, tra la Chiesa di Sant’Agata, di fondazione longobarda (tra VI e VII secolo), e la Piazza del Mercato.

Foto 2. Cordusio a Brescia, parzialmente demolito negli anni ’30 e ricostruito negli anni ’70 come grande magazzino, da Brescia Vintage (Ugo Allegri) 

In longobardo Ansa deriva da Ans, un nome di dio, e significa divina. Il padre invece, benché Longobardo, porta un nome latino, Verissimo, ed è uno dei nobili più in vista di Brescia, proprietario di molte curtes, e di una splendida abitazione, nella quale fa impartire una certa istruzione ad Ansa e ai suoi due fratelli. Non ci sono pervenute immagini di Ansa, definita da Paolo Diacono nel suo epitaffio “coniux pulcherrima regis” (bellissima sposa del re), ma pare sia una bella donna, alta e robusta, e sicuramente è molto religiosa, giudiziosa nonché istruita.

Il suo matrimonio con Desiderio è presumibilmente da collocarsi all’epoca di Liutprando (712-744), durante il quale la coppia occupa una posizione prestigiosa nell’aristocrazia bresciana. Nel 753 Desiderio, non ancora re, promuove la fondazione di un monastero, voluto soprattutto da Ansa, della cui comunità femminile diviene successivamente badessa la figlia Anselperga o Ansberga.

Ansa riesce a svolgere un ruolo determinante durante il regno del marito (756-774), operando nel tradizionale ambito del culto religioso. Nel 759 e negli anni seguenti è spesso menzionata nei diplomi del monastero e appare come protagonista di quella politica di provvidenza a favore di enti religiosi destinata a consolidare il regno. In particolare fonda i monasteri di Leno (in copertina frammento del portale) e Sirmione e contribuisce a trasformare la basilica dei Santi Michele e Pietro, a Brescia, nella grande basilica regia di San Salvatore, alla cui giurisdizione viene sottomessa un’intera rete di complessi monastici tra Lombardia, Emilia e Toscana, una vera e propria federazione direttamente controllata dal sovrano. La regina ottiene la traslazione da Livorno delle reliquie di santa Giulia a Brescia, rinominando di conseguenza la basilica.

Foto 3. Le reliquie di Santa Giulia, conservate dal 1969 presso la chiesa parrocchiale del Villaggio Prealpino, nel sarcofago dell’altare maggiore

Presumibilmente la regina riesce a giocare un ruolo non secondario nella politica matrimoniale che rafforza, nel contesto europeo, la posizione della monarchia longobarda. Sono storicamente note altre tre figlie di Ansa e Desiderio, oltre alla badessa Anselperga: Adelperga, sposata ad Arechi, imposto come duca a Benevento; Liutperga, che va in sposa al duca di Baviera, Tassilone, e una terza figlia, il cui nome non è indicato dalle fonti del tempo, che invece convola a nozze con Carlo, non ancora Magno, re dei Franchi. 

Quando Desiderio, assediato a Pavia nell’inverno 773–774, viene abbandonato da molti duchi e si arrende ai Franchi, secondo le cronache sia il re sconfitto, sia Ansa sono condotti prigionieri in Francia e rinchiusi in un monastero, a Liegi o forse a Corbi. Esiste tuttavia una tradizione locale che vuole Ansa sepolta nel monastero di San Salvatore a Brescia, in una tomba decorata da mosaici, posta in un grande arcosolio nella navata laterale destra della basilica.

Foto 4. Presunta tomba di Ansa




Brescia – Memorie verticali (quarta parte)

Piazza Rovetta, contigua a Piazza Loggia, è un grande spazio aperto, incompiuto e conteso, nel quale confliggono plasticamente memorie non pacificate, sanguinano ferite ancora non sanate, e sono esposte in piena luce contraddizioni irrisolte, alle quali finora non si è riusciti a dare una forma.

Il lato nord della Loggia, sul quale sono collocate le lapidi in memoria dei “martiri di Piazza Rovetta” (Arnaldo Dall’Angelo, Guglielmo Perinelli, Rolando Ettore Pezzagno) e dei 186 “Caduti della città di Brescia per la libertà”, si rispecchia, tolta la pensilina della discordia, in un muro color sabbia di 280 metri quadrati, il cosiddetto “muro bianco”, collocato al lato opposto della piazza. Nel 2016 l’amministrazione comunale propone la realizzazione di un murale, del costo di 65.000 euro, sulla facciata vuota di Largo Formentone e intende aprire un bando per selezionare il progetto migliore e trovare un writer incaricato di realizzarlo, ma di fatto viene esclusa dall’operazione. I proprietari dell’immobile, non soggetto a vincolo monumentale, decidono infatti di riempire questo vuoto – secondo il progetto dell’architetto Sergio Togni e dell’artista Adriano Grasso Caprioli – con una meridiana, nelle intenzioni controcanto al cinquecentesco orologio astronomico posto sull’omonima torre nella contigua Piazza Loggia, nel quale le ore vengono battute su una campana di bronzo da due automi in rame, dotati di martello, i cosiddeti Macc de le ure (Matti delle ore), popolarmente noti anche come Tone e Batista (Antonio e Battista). 

Foto 1. Torre dell’Orologio a Brescia, i due automi

La Torre dell’Orologio di Brescia si ispira a quella di Piazza San Marco a Venezia, realizzata il secolo precedente, in particolare per la presenza degli automi, i cosiddetti Due Mori. 

Foto 2. Venezia. Torre dell’orologio con i due mori

Nel progetto Togni-Grasso Caprioli la meridiana, elemento centrale, è adorna di una serie di figure: i segni zodiacali, Ercole, gli stemmi delle famiglie bresciane, Giuseppe Garibaldi, la Leonessa, un grifone, le prostituite del Carmine, Niccolò Tartaglia, Tito Speri e Arnaldo da Brescia, oltre a Benito Mussolini che guarda il Bigio, gigantesca statua rimossa da Piazza della Vittoria dopo la Liberazione e, in questi ultimi anni, oggetto di una polemica tanto persistente tra favorevoli e contrari alla sua ricollocazione nel sito originario, che alle elezioni amministrative del 10 giugno 2018 si presenta una lista con il motto PRO BRIXIA IL BIGIO, che riporta nel proprio logo un’effigie della contestata scultura. 

L’artista e il professionista avviano addirittura una raccolta di fondi per circa 200.000 euro, a parziale copertura finanziaria del progetto, e Adriano  Grasso Caprioli, rispondendo alle prime critiche, sottolinea che quelle di Mussolini e del Bigio saranno caricature “innocenti”. SEL, l’ANPI, singoli cittadini e perfino una pagina facebook, noallameridianainlargoformentone, in seguito rimossa, si pronunciano assai duramente e si mobilitano contro il progetto Togni-Grasso Caprioli. 

“Se questo progetto venisse attuato […] Brescia si presenterebbe ai suoi abitanti e ai passanti con la faccia di Mussolini dipinta su di un muro grande 280 metri quadrati nel mezzo della città, in un quartiere come quello del Carmine da sempre riconosciuto per la sua vocazione all’accoglienza e per la composizione sociale meticcia e popolare! […] Basta quindi essere proprietari di un muro per decidere l’immagine che la città vuole comunicare agli abitanti e a tutte le persone che passeggeranno per le vie del centro storico”?  si domandano gli estensori del volantino di invito al dibattito pubblico del 17 giugno 2016, per concludere poi che “è bene ricordarsi che non si tratta solo di un muro. Stiamo parlando di Piazza Rovetta, porta naturale del quartiere del Carmine. […]
Stiamo parlando di un luogo che fu teatro delle terribili e infami fucilazioni fasciste del 13 novembre 1943 […] dunque di un muro […] che di sicuro caratterizza una piazza significativa per la città e per i suoi abitanti che quindi dovrebbero essere coinvolti nella progettazione e rivitalizzazione di questo spazio che è di tutti e non si esaurisce in un muro e nei suoi proprietari”.  Il progetto non viene attuato in conseguenza delle proteste suscitate e, soprattutto, di ragioni economiche. Negli anni successivi, fino a oggi, varie proposte si susseguono sulla stampa locale, restando tuttavia inattuate; da quella di un giardino verticale davanti al grande “muro bianco”, dono di un’azienda della Bassa bresciana, la ItalMesh, alla città, che però dovrebbe sostenerne i costi di manutenzione, passando per quella del pittore bresciano Luca Dall’Olio di un grande dipinto di una Brescia “in sintesi”, fino a quella del fotografo Eros Mauroner di una grande Vittoria alata, simbolo della città, riprodotta utilizzando numerosissime mattonelle collocate sul “muro bianco”.

Foto 3. La Vittoria alata

Questa installazione non effimera si troverebbe in linea con la statua originale di bronzo, una volta effettuata la sua prevista ricollocazione nel Capitolium, il tempio romano che prospetta sull’antico decumano massimo, come Piazza Rovetta. 

La Vittoria alata in piastrelle sarebbe visibile con effetto tridimensionale, se osservata da postazioni fisse collocate nella piazza, apparendo in prospettiva come se fosse collocata nella sala di un museo. Inoltre, a garanzia della sostenibilità economica dell’opera, i cittadini potrebbero acquistare singole piastrelle, recanti in piccolo, a richiesta dell’acquirente, il nome di una persona cara. Si ripropone in questo modo una formula analoga a quella già sperimentata con successo nel 2014 dal progetto Una formella per ogni vittima, caratterizzata dal coinvolgimento attivo, anche attraverso un contributo finanziario, dei cittadini nella realizzazione del Percorso della Memoria, dedicato alle vittime del terrorismo. 

Resta un muro color sabbia, anzi un “muro bianco” che prospetta su una piazza che è una ferita, uno squarcio; un muro senza parole che, nel suo silenzio, racconta tante storie, raccoglie tante memorie.




Brescia – Memorie verticali (terza parte)

L’ancora incompiuta Piazza Rovetta continua a essere un nervo scoperto nel cuore della città e delle memorie divise, a causa della sua caotica origine e per essere stata teatro della prima, tremenda, rappresaglia della RSI a Brescia.

Alle 22 del 13 novembre 1943 viene lanciata contro la caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) di via Milano una bomba che esplode, uccidendo il caposquadra Luigi Bertazzoli e ferendo il milite Paolo Tosoni. La rappresaglia è immediata; una squadra delle Brigate Nere va verso Piazza Rovetta, guidata da un comandante che ha in mano l’elenco delle persone da eliminare, attinto da quello, ben più numeroso, di sovversivi e antifascisti da incarcerare in occasione di eventuali visite in città di Benito Mussolini, affinché si svolgano indisturbate, senza alcuna esplicita manifestazione di dissenso.

Foto 1. La targa a memoria delle vittime di rappresaglia

La prima vittima della rappresaglia è Arnaldo Dall’Angelo, che, nato in Svizzera nel 1905, si trasferisce con la famiglia prima ad Artogne, in Valcamonica, poi nel 1913 a Brescia e proprio in città inizia successivamente a lavorare come operaio alla Radiatori, grande fabbrica locale. Iscritto al partito comunista clandestino, viene bastonato più volte, nel 1932 condannato al confino a Ponza e al carcere a Poggioreale. Ritornato a Brescia, dal 1936-1937, accanto a Italo Nicoletto, è uno dei riorganizzatori della Federazione Comunista bresciana. Durante i primi mesi di occupazione nazifascista diffonde la stampa comunista clandestina.  Secondo le note redatte su di lui e riportate nella scheda di Prefettura: “È di carattere impulsivo e capace di provocare disordini. Ha poca educazione, poca cultura e discreta intelligenza. Ha frequentato le scuole fino alla III (sic) elementare. Non ha beni di fortuna e vive del proprio lavoro cui si dedica volentieri. Frequenta compagnie di sovversivi e di pregiudicati con i quali si accompagna spesso in osterie di infimo ordine dedicandosi ai piaceri del vino”[1]. Viene portato fuori con la violenza dalla sua casa tra Corso  Mameli e l’attuale Rua Sovera, nel centrale quartiere popolare del Carmine, per essere tradotto in Questura, e ucciso da una serie di pugnalate e da una raffica di mitra alla schiena, presso l’edicola di piazza Rovetta, e il suo corpo viene esposto sulla strada, senza che i parenti possano intervenire.

Foto 2. Arnaldo Dall’Angelo

I fascisti continuano la loro spedizione al Carmine e vanno a cercare Giuseppe Andrini, operaio, dirigente della Federazione Giovanile Socialista durante la prima guerra mondiale, passato al PCI nel 1921, più volte arrestato e confinato dal 1926 al 1935, e successivamente membro attivo della Resistenza. Le Brigate Nere però sbagliano casa e persona e, al posto di Giuseppe Andrini, catturano brutalmente sulla soglia di casa, in via F.lli Bandiera, Guglielmo Perinelli, di sessantuno anni, fresatore alla OM, che freddano con una raffica di mitra, senza neppure dargli il tempo di declinare le proprie generalità.

La terza vittima è Rolando Ettore Pezzagno, natoBrescia nel 1886, che, a causa del suo carattere ribelle e impulsivo, unito alle convinzioni anarchiche, da giovane finisce in riformatorio. Successivamente incarcerato per reati minori, nel 1915 è condannato per insubordinazione e diserzione. Ha una bancarella di merceria in Piazza Mercato e, in seguito alla sua partecipazione alle prime azioni contro i fascisti bresciani che vedono come epicentro proprio il popolare quartiere del Carmine, viene nuovamente arrestato e inviato al confino a Ustica. Liberato, dopo il 25 luglio 1943 torna a Brescia.  Viene trascinato fuori dalla sua abitazione in via Maraffio, oggi Rua Sovera, e massacrato in mezzo alla strada, in via San Faustino.  I cadaveri di Arnaldo Dall’Angelo, Guglielmo Perinelli e Rolando Ettore Pezzagno sono lasciati diversi giorni sul selciato della centrale Piazza Rovetta; a Brescia sono loro i primi tre “monumenti di una diffusa pedagogia funeraria”[2], che segnano in città “il passaggio dalla morte celata alla morte ostentata”[3]. Lo stato fantoccio della RSI “è costretto dalla sua debolezza a regredire verso queste antiche forme di ostentazione della propria capacità di punire”[4]  e “i cadaveri dei fucilati tenuti esposti per giorni nei luoghi della socialità cittadina sono il nuovo modo di tenere la piazza: i discorsisenza più parole”[5]. Risponde invece con parole durissime un volantino circolante in città il giorno successivo: “Bresciani, l’infame rappresaglia effettuata dai fascisti sui poveri innocenti deve essere inesorabilmente punita. Il sangue di queste vittime della feroce bestialità fascista chiede vendetta. Ogni cittadino scolpisca nella mente questi delitti” [6]. Mentre la lapide dei “martiri di Piazza Rovetta” viene collocata a cura dell’ANPI e del Comune nel 1988, quarantacinque anni dopo l’eccidio, i venditori ambulanti di Brescia e provincia ne collocano una nella vicina via San Faustino, già nel secondo anniversario della rappresaglia, il 13 novembre 1945, per ricordare Rolando Pezzagno.

Foto 3. In memoria di Rolando Pezzagno

L’ultimo dell’elenco di quella sera è Mario Donegani, operaio alla Togni; nato nel 1900, inizia a partecipare alla vita politica e sindacale come socialista e nel 1920 prende parte all’occupazione delle fabbriche. Entrato nel PCI nel 1921, nel 1925 viene condannato per reati politici a tre anni di carcere; subito dopo la scarcerazione è nuovamente arrestato e confinato a Lipari, da cui torna nel 1933, per essere poco dopo arrestato e incarcerato per tre mesi a Brescia, a causa della sua militanza antifascista clandestina. La notte tra il 13 e il 14 novembre del ’43 le Brigate Nere lo feriscono al torace e al braccio sinistro; credendolo morto, prima lo prendono  a calci e poi lo abbandonano sul selciato, come le altre loro tre vittime. Svenuto per il dolore, dopo un’ora Mario Donegani rinviene e riesce a trascinarsi e nascondersi sui Ronchi, zona collinare della città, per poi recarsi in ospedale a farsi curare. Denunciato durante la degenza, una volta guarito viene spedito in un campo di transito a Oneglia per quattro mesi, ma riesce a fuggire durante il trasferimento in Germania e si unisce alle formazioni partigiane in Valle Sabbia. Il 26 ottobre 1944 è gravemente ferito durante un rastrellamento; le Brigate Nere lo portano in un fienile e lo ardono vivo. Il suo nome compare nell’elenco dei 186 caduti bresciani per la libertà, riportati su una grande lapide posta in Largo Formentone sul lato destro di Palazzo Loggia, poco lontana da quella che ricorda le vittime dell’eccidio del 13 novembre 1943. I caduti per la libertà sono suddivisi in differenti categorie: caduti nella Resistenza, ovvero partigiani, patrioti e antifascisti (94), internati militari (IMI) che comprendono caduti nei lager e dispersi (65), deportati politici e civili (10), appartenenti al Corpo italiano di liberazione (CIL), il contingente di truppe italiane regolari, costituito il 18 aprile 1944, cobelligerante con gli Alleati contro i Tedeschi (6), militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia (9) ed ebrei (2).

Foto 4. La grande lapide di Largo Formentone

In termini percentuali i caduti nella Resistenza costituiscono il 51% dei caduti per la libertà, gli IMI il 35%, i deportati politici e civili il 5%, gli appartenenti al CIL il 3%, i militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia il 5% e gli ebrei l’1%; un dato, quest’ultimo, coerente con la limitatissima presenza ebraica che, secondo l’elenco trasmesso dalla Prefettura di Brescia della RSI ai Tedeschi il3 novembre del 1943, sarebbe costituita da novanta persone in tutta la provincia. I caduti nella Resistenza e gli IMI insieme costituiscono ben l’86% del totale e confermano, anche a livello locale, l’importanza decisiva, anche sul piano militare, della scelta controil fascismo, comune a chi ha preso le armi e a chi si è rifiutato di prenderle nell’esercito di Salò giurando fedeltà a Mussolini, in tutto oltre 600.000 militari italiani, che, a costo di marcire o addirittura morire nei lager, privano la RSI della possibilità di avere un vero e proprio esercito. In termini di generazioni, fra gli uomini, è quella fra i ventuno e i trenta anni la più colpita: ottantasei caduti su un totale di 186, di cui sei uomini di età ignota, dunque ottantasei su 180, ovvero una percentuale media del 47,7%, che sale al 49,6% se si escludono le donne dal computo del totale, con picchi che vanno dal 55,6% dei deportati politici e civili, al 70,4% degli IMI, fino a raggiungere il 75% dei militari della Divisione Acqui caduti a Cefalonia. Le donne sono pochissime, sei, ovvero poco più del 3% più o meno come gli appartenenti al CIL, e tutte cadute nella Resistenza; se però si considera che per ragioni di genere non possono essere parte degli IMI, del CIL e neppure della Divisione Acqui trucidata a Cefalonia, e si somma ai caduti nella Resistenza il numero dei deportati politici e civili e degli ebrei, fra i quali ci potrebbero potenzialmente essere donne, si ottiene la percentuale più realistica di quasi il 6% sul totale e di oltre il 6% fra i caduti nella Resistenza. La classe di età più colpita fra le donne è quella fra i quarantuno e i cinquanta anni, che costituisce l’1,2% sul totale, ma ben il 33,6% delle donne, il che si spiega, probabilmente, col fatto che sono vittime di rappresaglie o proiettili che hanno sbagliato bersaglio durante scontri a fuoco. In realtà l’esiguo numero di “cadute per la libertà”, che non erano peraltro partigiane, non dà conto della significativa partecipazione delle donne alla guerra civile contro la RSI e i Tedeschi; esiste infatti “la difficoltà di rendere completa giustizia alle donne che hanno partecipato alla Resistenza bresciana”,[7]  a causa di un diffuso atteggiamento di antiretorica autosvalutazione che emerge dalle testimonianze raccolte fra le resistenti bresciane. Carla Leali, attiva collaboratrice, insieme alla madre e ad altre donne della Valsabbia, della brigata “Perlasca” dichiara: “non abbiam fatto la guerra noi; no, abbiam fatto le donne, …abbiam fatto solo le donne […] Assistevamo i vivi, onoravamo i morti, cercavamo di lavare i feriti, si curavano gli ammalati, si dava da dormire e da mangiare ai rifugiati e poi ci si trovava […] e si facevano anche le nostre riunioni… più o meno intellettuali”[8]e secondo Maria Pippan “Gli uomini racconteranno delle grandi imprese, opere, non so, che hanno fatto, e noi […] Voi volevate delle grandi cose, ma son tutte cose…; va beh che con le piccole cose si fanno le grandi”.[9]Le “piccole cose” non sono poi così piccole; basti solamente pensare al ruolo fondamentale delle staffette, che, affr0ntando grandi rischi, garantiscono il collegamento fra la città e le formazioni partigiane nelle valli e “Che lo sapessero o no, che in seguito lo abbiano o no raccontato, i partigiani dipendevano da loro, per il cibo e per il vestiario”.[10]Poi, finita la guerra, le partigiane tornano alla solita vita “da donne”, e quando si costituiscono le commissioni, tutte maschili, per il riconoscimento, molte di loro neppure si presentano, non solo a Brescia, anche in tutte le regioni italiane coinvolte nel movimento resistenziale. Non solo, il loro “desiderio di raccontare fu bloccato immediatamente, capirono benissimo, le donne, che le loro “avventure”, trascorse in mezzo a giovani maschi, non erano gradite; cosa avevano veramente fatto? Le donne sono sempre sospette”.[11]

Lidia Boccacci di diciassette anni, sua madre Emma Ceretti di quarantanove e Teresa Gnutti, sarta di cinquantatré anni, sono vittime civili di una rappresaglia. Il 25 aprile 1945 un milite tedesco è ucciso dai partigiani nel quartiere cittadino di Mompiano, in cui ha sede la sezione di Brescia del Poligono di tiro a segno nazionale, presso la quale lavora come custode, risiedendovi con la moglie Emma e Lidia, l’unica figlia, in un alloggio di servizio, Giuseppe Boccacci. L’uomo, artigiano armaiolo, opera in collegamento con il gruppo dei partigiani dell’OM, cui fornisce munizioni e informazioni. Il giorno successivo i Tedeschi tornano per compiere una rappresaglia; i partigiani sono già partiti e la famiglia Boccacci, insieme a altre persone, è asserragliata al primo piano della propria abitazione. Lidia, molto esperta di armi, vorrebbe lasciar salire i Tedeschi dalle scale per accoglierli con una raffica di fuoco a distanza ravvicinata, ma ne viene dissuasa. L’intera famiglia Boccacci, una coppia di loro parenti, Teresa Gnutti e Valerio Mazzoleni, e altri quattro uomini rifugiatisi presso la loro abitazione (Aldo Bonincontri, Franco Omassi, Leonardo Più e Ugo Zagato) sono condotti tutti in cortile, fucilati nel Poligono di tiro e poi barbaramente finiti con il calcio dei fucili. Solo Valerio Mazzoleni, creduto morto e confuso tra i cadaveri, riesce a sopravvivere. Lidia Boccacci, Emma Ceretti e Teresa Gnutti sono ricordate, insieme alle altre vittime dell’eccidio, anche in una lapide posta sul piazzale del Poligono di tiro in località Mompiano.

Foto 5. La targa al Poligono di tiro

Altra vittima di una rappresaglia è Teresa Braga, casalinga di trentasette anni, colpita a morte da una scarica di arma automatica sparatale da un fascista, il 26 aprile 1945.  Il 25 aprile 1945 la dattilografa Lucrezia Girelli di quarantatré anni viene uccisa nel corso di uno scontro tra partigiani e militari tedeschi in piazzale Cremona. Fine analoga tocca il 26 aprile 1945 a Maria Bonassi, una casalinga di non ancora ventitré anni residente nella frazione cittadina di Sant’Eufemia della Fonte, colpita a morte nel suo quartiere durante uno scontro a fuoco tra un reparto alleato e truppe tedesche in ritirata.

 

[1]Scheda Prefettura di Brescia su Arnaldo Dall’Angelo in http://www.qui.bg.it/vedit/15/img_eventi/Anpi_Cpr_ArnaldoDallAngelo_Scheda_PrefetturaBs_1938-1943.pdfconsultato 10.04.2018

[2]Mario Isnenghi, L’esposizione della morte in Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 337

[3]Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, p. 153

[4]Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 436-437

[5]Mario Isnenghi, Ibidem, pp. 336-337

[6]In http://www.cgilbrescia.org/sito_cgil/public/file/101118piazza%20rovetta.pdfconsultato 26.04.2018

[7]Luisa Passerini, Introduzione. La molteplicità dell’universo femminile nella Resistenza: fatti, simboli, enigmi, in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 11

[8]Gianni Sciola, Società rurale e Resistenza nelle vallate bresciane, in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 48

[9]Mariarosa Zamboni, Il linguaggio della violenza,in Rolando Anni, Delfina Lusiardi, Gianni Sciola, Maria Rosa Zamboni, I gesti e i sentimenti: le donne nella Resistenza bresciana, Brescia, Comune di Brescia, Assessorato alla Cultura, 1990, p. 159

[10]Marina Addis Saba, La scelta. Ragazze partigiane, ragazze di Salò, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 128

[11]Ibidem,pp. 132-133




Brescia – Memorie verticali (seconda parte)

Proseguendo lungo via Sant’Urbano si trovano altre lapidi, fra cui una, collocata in occasione del centenario delle Dieci Giornate che ne ricorda con fierezza i combattimenti che hanno visto protagonisti gli abitanti dello storico rione, e un’altra apposta nel decimo anniversario della Liberazione, sull’edificio nel quale il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) locale emana il 26 aprile 1945 il suo primo atto ufficiale.

Foto 1. Targa nel centenario delle Dieci Giornate

Ridiscendendo lungo la strada tracciata dalle formelle delle vittime del terrorismo, si raggiunge nuovamente Piazza della Loggia, punto d’inizio del Percorso della Memoria. Esattamente di fronte al punto in cui è esplosa la bomba il 28 maggio 1974 si trova il Palazzo Comunale, sotto il cui ampio portico una serie di lapidi, risalenti a epoche differenti, celebra i caduti per la libertà nel Risorgimento e nella Resistenza, intrecciando memorie diverse. 

Foto 2. Palazzo Loggia

In Largo Formentone, su un lato del Palazzo della Loggia, in ideale continuità con il portico del palazzo, nel 1988 viene collocata una lapide in marmo per ricordare i caduti del primo eccidio che si consuma a Brescia per mano fascista, proprio in quella piazza. 

La lapide è censita nell’ambito del progetto nazionale Pietre della Memoria, messo a punto dal Comitato regionale umbro dell’ANMIG (Associazione Nazionale dei Mutilati e Invalidi di Guerra), che appunto censisce, cataloga, fotografa e rende pubblici i dati e le iscrizioni relative a monumenti, lapidi, steli, cippi commemorativi delle due guerre mondiali e della guerra civile del ’43-‘45. L’ANMIG, sorta già durante la prima guerra mondiale, a Milano nell’aprile 1917 e a settembre dello stesso anno a Brescia, inizialmente con fini solidaristici e assistenziali, nel febbraio 2002 costituisce una propria fondazione per “conservare la memoria storica di lotte, di sacrifici e di conquiste che hanno consentito all’Italia di crescere nella libertà, nella democrazia e nella giustizia sociale”. 

Foto 3. Lapide di Largo Formentone ai Caduti per la libertà

Piazza Rovetta, cuore popolare della Brescia storica situata a nord di piazza della Loggia, è il risultato di una serie di diversi sventramenti tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Nelle piante di Brescia del 1826 e del 1852 la zona tra piazza della Loggia e via S. Faustino è occupata da una serie di fabbricati che si affacciano direttamente sul corso del fiume Garza. Fino al 1865 esiste una contrada Ruetta che trasferisce il nome a una piazzetta Ruetta ricavata dalle demolizioni degli edifici posti lungo l’attuale via S. Faustino. Il nome deriva dal diffuso toponimo rua (strada) poi rova e quindi Rovetta (piccola strada). In conseguenza della completa apertura del tratto sud di via San Faustino, la piazzetta scompare e si apre invece un primo slargo a nord della Loggia che assume il vecchio toponimo di piazza Rovetta. Ulteriori interventi demolitori si verificano nel 1904, con l’abbattimento del caseggiato su vicolo Cogome (caffettiere nel dialetto locale, dal latino cucuma), nel 1906 e nel 1939. Con quest’ultimo sventramento si libera completamente il lato nord del palazzo della Loggia, sfrattandone gli abitanti e relegandoli nelle periferie, per procurare la superficie necessaria alla costruzione di un edificio che ospiti gli uffici comunali, finalizzata alla ridefinizione della morfologia di buona parte del quartiere e al completamento della nuova immagine della città, iniziata con la realizzazione di piazza Vittoria. In questo modo scompare definitivamente la suggestiva gola urbana, al cui fondo scorre, scoperto, tra antiche case, il torrente Garza. Le progettate costruzioni non vengono realizzate poiché nel 1940 l’Italia entra in guerra e la realizzazione dei progetti urbanistici cede il passo alle esigenze belliche e piazza Rovetta mostra ancora oggi la sua origine caotica con la parete cieca a nord e l’informe quadro urbano sul quale continuano a esercitarsi numerosi progettisti. 

Nel 2001, durante l’amministrazione di centrosinistra guidata da Paolo Corsini, vengono installate nel lato sud una serie di panchine in pietra  bianca sui sedimi delle epoche precedenti e, sul lato nord, tra via Rua Sovera e via San Faustino, una struttura metallica, sotto la cui copertura, sorretta da colonne alte 8,42 metri, trovano posto le bancarelle degli ambulanti. 

Foto 4. La pensilina

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Si vuole in questo modo ricreare il profilo dei volumi degli edifici demoliti, limitandosi a suggerirne il volume e lasciando libero spazio alle tradizionali attività della piazza. Il costo dell’intervento ammonta a 270.000 euro e la pensilina suscita una serie di polemiche. Nel 2008 si insedia in città la nuova amministrazione di centrodestra di Adriano Paroli , la quale subito  propone di eliminare da piazza Rovetta, ribattezzata piazza Kabul, le panchine in pietra bianca,  “diventate un bivacco di perdigiorno”, frequentato soprattutto da cittadini extracomunitari,  suscitando non poche reazioni e polemiche da parte di diverse associazioni di supporto agli immigrati, sindacati e forze politiche,  che organizzano iniziative di protesta contro la decisione della Loggia. A dicembre, dopo che le panchine “contestate” sono state rimosse, durante una manifestazione di protesta alcuni attivisti del Magazzino 47, espressione della “sinistra antagonista”, sfidando la decisione di Palazzo Loggia, fissano al terreno tre panche in legno e ferro, che vengono però prontamente rimosse. L’anno successivo, il 2009, dall’altro lato della piazza spariscono prima i banchi dei commercianti, destinatari di un contributo comunale di oltre 100.000 euro, e poi, nel 2010, la pensilina. Smontare la copertura metallica e rimontarla al parco Pescheto comporta un pesante onere per le casse comunali: per smontarla e trasferirla nei magazzini comunali vengono spesi 80.000 euro; 22.000 euro per studiarne la ricollocazione al Pescheto; 51.000 euro per le opere di carpenteria necessarie a erigerla nel parco di via Corsica; 185.000 per le opere edili richieste dal progetto;  complessivamente 338.000 euro, che, sommati al contributo agli ambulanti, diventano oltre 438.000. La pensilina viene prima trasferita momentaneamente nei magazzini comunali e solo due anni dopo, nel 2012,  rimontata al parco Pescheto. Nel 2010 viene bandito un concorso d’idee da cui esce vincitore il «Cubo bianco» o aula studio (con un premio di 12.000 euro all’ideatore, 8.000 al secondo classificato e 6.000 al terzo), ma l’opera, che sarebbe costata 1,4 milioni,  non viene realizzata. Alla fine del 2012 si decide di allestire un teatrino di burattini destinato a spettacoli per bambini, rapidamente abbandonato a se stesso (40.000 euro). 

Foto 5. Il teatrino

(dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

In sintesi: 270.00 euro per fare, oltre 504.000 per disfare, in totale oltre 774.000 euro di denaro pubblico. Nel 2013, con la giunta di Emilio Del Bono, Brescia, dopo la sua unica amministrazione di centrodestra, torna a una di centrosinistra, che, nel dicembre 2013,  smonta il teatrino per far spazio alla pista di ghiaccio per il pattinaggio,  allestita durante il periodo natalizio. 

Foto 6. La pista di pattinaggio

 (dal Giornale di Brescia online, 30 marzo 2016)

Nel gennaio 2014, il Giornale di Brescia, uno dei quotidiani locali propone, consultati i propri lettori, una piazza alberata con tavolini e bancarelle sotto i tigli. Nel 2015 la vicesindaca Laura Castelletti propone di trasformare la facciata spoglia di Largo Formentone in una palestra d’arrampicata, ma non se ne fa nulla. 

In copertina:

Piazza Rovetta alla fine degli anni ‘40




Brescia – Memorie verticali (prima parte)

Le parole sono pietre, secondo il titolo di un libro di Carlo Levi, e Brescia è ricca di lapidi (dal latino lapis) sui suoi muri, ovvero parole incise su pietre; pietre che si fanno parola, parlano, dialogano, confliggono, intrecciando e sedimentando passato e presente, pietre dalla memoria di ferro che si fanno testimonianza plastica di memorie condivise e memorie ancora divise.

Sul lato sud della centrale Piazza della Loggia si trova il cosiddetto Lapidario, voluto nel 1480 dal Consiglio della città, che dà avvio alla tutela dei resti storici, recuperando antiche iscrizioni della città per fare di Piazza Loggia il nuovo foro di Brescia.

FOTO 1. Particolare del lapidario romano

Colti eruditi del tempo sovrintendono alla disposizione delle vecchie pietre, accostandovi nuove iscrizioni a imitazione di quelle di età romana, per  creare un rapporto di emulazione e continuità con l’antica Brixia. Le lapidi sono inserite a vista nella tessitura muraria in pietra di Botticino delle facciate delle Carceri, del Monte Vecchio di Pietà (1489-1491) e del Monte Nuovo di Pietà (1599-1601), a formare un museo pubblico, tra i primi, se non il primo, in Europa.

FOTO 2. Monte vecchio di Pietà. Foto di Lara Trombini

In totale sono murate ventitré pietre di età romana, fra cui numerosi epigrafi, e cinque lapidi del V secolo. Fra le undici epigrafi di età romana, alcune sono decorate a rilievo ma prive di testo, mentre quelle con iscrizione sono prevalentemente dediche; in particolare sono interessanti quella a Lucio Antonio Quadrato, soldato della XX legione, probabilmente di stanza a Brescia, e quella collocata al di sopra dell’arco centrale della facciata, risalente alla seconda metà del 44 a. C, recante un’iscrizione incompleta che riporta come soggetto il giovane Ottaviano, pontefice dal 48 a. C. e futuro Augusto, ovvero C(aius) IVLIVS CAESAR PONTIF(ex). Due iscrizioni quattrocentesche celebrano invece la fedeltà di Brescia alla Repubblica di Venezia durante l’assedio di Niccolò Piccinino (1438), paragonandola a quella degli abitanti di Sagunto, in Spagna, verso Roma durante la seconda guerra punica (218-201 a. C.).

Sempre da Piazza della Loggia, luogo della strage del 28 maggio 1974, partono le formelle che ricordano le vittime del terrorismo e raggiungono il Castello attraverso un percorso che si snoda principalmente lungo Contrada Sant’Urbano, una strada in acciottolato, anticamente nota come Via delle Consolazioni. Nel tratto iniziale la via è contigua alla piazzetta, un tempo detta dell’Albera, successivamente intitolata a uno dei protagonisti dell’insurrezione antiaustriaca, Tito Speri, con al centro una sua statua collocata su un alto piedestallo. A ventisette anni, nel 1853, viene giustiziato, insieme agli altri “martiri di Belfiore”, in totale centodieci patrioti, mandati a morte tra il 1852 e il 1855 per avere cospirato contro l’Austria.

Proprio all’inizio della strada, all’angolo con via dei Musei, l’antico decumano massimo, si trovano alcune lapidi. Nella prima, collocata per decreto municipale nel 1918, si ricordano il “carnevale di sangue” di Gastone di Foix, nel 1512, e le Dieci Giornate del 1849, occasioni durante le quali le truppe francesi prima e quelle austriache poi, irrompono in città dal Castello, riuscendo a stroncare la resistenza della popolazione e facendone strage.

FOTO 3. Targa all’inizio di Contrada Sant’Urbano. Foto di Claudia Speziali

Nella seconda, collocata in occasione del primo centenario della seconda guerra di indipendenza, sono elencati i civili residenti nel rione trucidati dalle truppe asburgiche il 1° aprile 1849, alla fine delle Dieci Giornate, nel momento in cui la soldataglia, fiaccata la resistenza degli insorti, si dà al saccheggio e alla violenza.

FOTO 4. Lapide delle vittime del 1849. Foto di Claudia Speziali

Oltre a dare un nome alle ventinove vittime, l’elenco fornisce un interessante spaccato sociale del quartiere. Di queste ventiquatro sono uomini, di cui quattro sotto i vent’anni, undici tra i venti e i cinquant’anni, sette sono ultracinquantenni, e di due non si conosce l’età[1]. I diciannove uomini di cui è indicata la professione, con l’eccezione di un maestro elementare e di uno studente quindicenne, svolgono prevalentemente attività legate all’artigianato, al piccolo commercio, alla produzione manifatturiera in via di sviluppo, alla ristorazione e a quelli che oggi definiremmo servizi, lavorando fino a un’età decisamente avanzata,  considerando anche l’inferiore aspettativa di vita dell’epoca. A sessantasette anni Pietro Carobi e Francesco Locatelli fanno ancora rispettivamente il tornitore e il tagliapietre e a settanta Gio Batta Vicentini il calzolaio. Oltre a loro figurano un pittore, un orefice, due falegnami, un tintore, un sensale, due definiti genericamente “lavoranti”, un armaiolo, un arrotino, un lattaio. Ben tre vittime sono collegate all’Osteria del Frate, ancora oggi esistente;  il proprietario e gestore Bortolo Peroni, di sessantuno anni, e il figlio Pietro, di ventisette, che, martoriati e feriti, sono gettati dalla finestra del quarto piano della propria abitazione dai soldati, i quali prima la saccheggiano e poi la incendiano, e la stessa sorte tocca al loro garzone, lo svizzero Alberto Gherber, diciannovenne. Le donne uccise nel rione il 1° aprile 1849 sono cinque; due hanno tra i venti e i cinquant’anni,  mentre altre tre sono ultracinquantenni. Serena Radici[2], di quanrantadue anni, moglie del direttore del collegio Guidi, sola nell’abitazione con la suocera Teresa Zambelli[3], di settantatre anni, viene con lei massacrata. Anche le donne, come gli uomini, lavorano fino alla terza età; Margherita Anderloni a settant’anni fa ancora la cucitrice. Fra le professioni delle vittime, oltre a quella di cucitrice svolta da due di loro, vengono indicate, per due donne, quella di vedova  e, per un’altra, quella di madre di famiglia.

 

[1]In realtà, Carlo David, una delle vittime prive dell’indicazione della propria età sulla lapide commemorativa, avrebbe avuto, nel 1849, quarantasei anni, secondo l’elenco tratto da Storia della rivoluzione di Brescia dell’ anno 1849.

[2]Cesare Correnti, I dieci giorni di Brescia. Con una introduzione di Luca Beltrami, Milano, Libreria d’Italia, 1928, p. 158

[3]Ibidem, p. 15




Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte terza)

Elemento costitutivo e caratterizzante dell’arredo urbano di Piazza della Vittoria, concepita nel progetto di Marcello Piacentini come “foro” dell’era fascista”, è l’installazione, circa a metà del lato ovest della piazza, di un’opera monumentale: una fontana esagonale, dal cui basamento emerge, straripante di vitalismo, un colosso alto circa sette metri scolpito dal carrarese Arturo Dazzi, che raffigura un aitante giovane nudo, leggermente proteso in avanti. La statua, ufficialmente intitolata “L’Era Fascista” e alternativamente “Alla giovinezza d’Italia”, ma popolarmente nota come il “Bigio”, diminutivo dialettale di Luigi, non è unanimemente apprezzata dalla cittadinanza, tanto che il Caffè Impero, cui la scultura dà le terga, è per questo motivo ribattezzato Bar de le ciàpe, mentre il vescovo proibisce al clero di passare davanti all’oscena nudità dell’opera. Piazza della Vittoria “interpreta […] il nuovo ordine fascista” ed esprime “fisicamente la pervasività dello Stato fascista”; viene usata soprattutto per manifestazioni del regime e le sue “adunate oceaniche”, ma, come il Bigio, non incontra il favore della cittadinanza e non riesce a diventare il “foro” dell’era fascista, il nuovo centro alternativo a tutte le altre piazze. 

Al crollo del fascismo, l’amministrazione comunale decide di eliminare dalla piazza bombardata la scultura di Arturo Dazzi, la fontana sulla quale è eretta e gli altri simboli fascisti. La statua è collocata in un magazzino comunale, nel quale rimane per quasi settant’anni, finché l’amministrazione di centro-destra (2009-2013) ne delibera la ricollocazione nella sede originaria. Molte voci di persone di cultura, di esponenti del mondo antifascista e ambientalista si levano contro questa operazione nostalgica, destinataria di un consistente investimento di fondi pubblici, mentre si riducono le risorse a disposizione del welfare per l’assistenza ai cittadini in difficoltà, e divampa una vivace e duratura polemica sulla ricollocazione della statua, che supera gli angusti confini municipali per approdare sulle pagine del Guardian. Di fatto il Bigio/l’Era fascista/Alla giovinezza d’Italia continua a restare in magazzino, poiché l’amministrazione comunale di centro-sinistra, eletta nel 2013, non ha dato seguito alla deliberazione di quella precedente. Alla fine dello stesso anno, in concomitanza con la realizzazione della stazione Vittoria della metropolitana, viene ultimata la generale ristrutturazione della piazza, resa completamente pedonale, con una nuova pavimentazione e la costruzione di una nuova fontana, simile a quella del 1932, al cui centro è posizionato un piedestallo da usare come base di appoggio per opere scultoree. 

Foto 1. La stazione delle metropolitana di piazza Vittoria

Attualmente piazza Vittoria ospita la sede centrale delle Poste, è sede del mercato settimanale del sabato, insieme alle piazze contigue, e del mercato dell’antiquariato ogni seconda domenica del mese, di numerosi eventi pubblici nel corso dell’anno, dalle corse podistiche alle iniziative musicali, dalla fiera del libro alla punzonatura delle auto storiche che partecipano ogni anno alla Mille Miglia storica, dalle estive “cene in bianco” a iniziative di solidarietà come quelle di Viva Vittoria, durante la quale centinaia di donne bresciane hanno rivestito l’omonima piazza con le coperte da loro realizzate per contribuire alla ricostruzione della scuola di Gualdo (MC), danneggiata dal sisma nel 2016. 

Foto 2. Il mercato settimanale 

Foto 3. Viva Vittoria

Nel 2017 l’amministrazione comunale, insieme alla Fondazione Brescia Musei, dà inizio a Brixia Contemporary, un progetto pluriennale che si propone l’ambizioso obiettivo di trasformare la città con uno sguardo, quello di un artista contemporaneo che sveli un nuovo punto di vista sullo spazio urbano del centro storico, mettendo a colloquio Brixia con Brescia, le origini con il tempo presente, attraverso le opere selezionate per l’occasione e i luoghi che le accolgono. L’artista scelto per il 2017 è Mimmo Paladino, le cui opere sono ospitate dal 6 maggio 2017 al 2 settembre 2018 in un percorso che si espande da Piazza della Vittoria al Tempio Capitolino per raggiungere il Museo di Santa Giulia, sito UNESCO.

 

Foto 4. Opere di Mimmo Paladino 

In Piazza della Vittoria sono posizionati ben sei tra i più celebri totem della sua poetica: una riedizione bresciana del Sant’Elmo e lo Scriba, poi il gigantesco Zenith, la scultura equestre in bronzo e alluminio del 1999, alta quasi cinque metri, il grande Anello, la Stella e, a campeggiare sul basamento che fu del contrastato Bigio di Arturo Dazzi, un’imponente figura in marmo nero, realizzata appositamente per l’occasione, che riporta alla tradizione della grande avanguardia del Novecento. Con questa mostra Brescia vuole anche celebrare i novant’anni della Mille Miglia, competizione automobilistica che si svolge dal 1927 e perciò in Piazza della Vittoria i bolidi leggendari sfilano al cospetto proprio delle opere monumentali di Paladino. 

La piazza bresciana è presente anche nella mostra, aperta fino al 25 giugno, Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, curata da Germano Celant, presso la Fondazione Prada di Milano. Il percorso espositivo si snoda in ventiquattro sale, ricostruzioni parziali di sale istituzionali, studi e gallerie private, ottenute dall’ingrandimento in scala reale di immagini storiche, nelle quali le opere d’arte dell’epoca dialogano con progetti architettonici e piani urbanistici coevi. Come esempio degli spazi centrali delle città, ridisegnati dal fascismo a veicolare un’estetica che ne trasmetta il messaggio politico, viene esposto in una delle sale  il modello di Piazza della Vittoria di Brescia nel rifacimento di Marcello Piacentini.

A quasi novant’anni dall’inaugurazione, questa piazza, metafisica come un dipinto di De Chirico, si mostra a pieno nel suo carattere di lenta costruzione collettiva, risultato di differenti apporti individuali e stratificazione di linguaggi diversi, e pare finalmente avviarsi a divenire “il nucleo spaziale ove si realizza l’intersezione di storia civile, movimenti culturali, tendenze artistiche, cultura materiale, immaginazione collettiva, proiezioni simboliche, ritualità consolidate, tradizioni popolari e consuetudini comportamentali”. Paiono esserne inconsapevoli testimoni e attori il costante flusso quotidiano degli utenti della metropolitana, chi sorseggia un caffè o un aperitivo accompagnato da stuzzichini o consuma un pasto veloce in uno dei tanti locali della piazza, le ragazze e i ragazzi che si danno appuntamento in piazza e si siedono sulla scalinata del palazzo delle Poste, accanto a numerosi cittadini di recente immigrazione – il maschile è d’obbligo perché, purtroppo, ancora le donne non compaiono – oppure, ai ritmi emessi da potenti “radioloni” si esibiscono in improvvisate sfide di breakdance nei portici sotto il grattacielo, e chi schizza veloce nella piazza a bordo del proprio skateboard, suscitando talvolta apprensione o fastidio negli umani e spesso uno spaventato abbaiare dei cani al loro guinzaglio. 

Foto 5. Skateboard in piazza della Vittoria

Piazza della Vittoria non è diventata il cuore pulsante di Brescia e, nonostante il masso dell’Adamello in bella vista, labile è il ricordo di una guerra finita cento anni fa; nell’immaginario collettivo locale, sopra tutto di chi è più giovane, Vittoria è semplicemente una stazione della metropolitana, eppure, lentamente, sta trovando posto nel cuore di cittadini e cittadine vecchie e nuove, benché memorie divisive permangano, coesistenti, ma non pacificate, in questa piazza. 

Sotto, insieme al torrente Garza, scorre il fiume carsico di una memoria non detta, ma non per questo meno ingombrante: il ritmo cadenzato dei passi della folla che rimbomba sulla pavimentazione della piazza, i suoi eia eia alalà di dannunziana memoria, il braccio destro teso nel saluto, i suoi applausi ai discorsi retorici degli oratori ufficiali che la arringano dall’arengario in occasione delle “adunate oceaniche”, mentre bandiere e gagliardetti garriscono al vento. Dopo il crollo del fascismo da Piazza della Vittoria la politica e i suoi riti collettivi imposti dall’alto sono rimasti assenti; il luogo della politica come libera partecipazione dal basso, in una parola democrazia, e ritualità civile e civica è Piazza della Loggia, non solo a causa della strage che nel 1974 l’ha, letteralmente, insanguinata.

Foto 6. Festa di laurea in piazza della Loggia




Brescia – Memorie divise, memorie non dette (parte seconda)

A Brescia negli anni Venti del secolo scorso vengono messe in cantiere numerose opere pubbliche per modernizzare la città e si decide di redigere un nuovo piano regolatore, in sostituzione del precedente, risalente al 1897 e scaduto nel 1922. Nel 1927 è indetto un concorso nazionale per un piano di ampliamento del nucleo urbano, che disegni “ un centro degno delle tradizioni artistiche della città, adeguato al suo sviluppo economico e demografico”, secondo le parole del podestà Ugo Calzoni. Le ambizioni dei tredici progetti presentati vengono decisamente ridimensionate dall’amministrazione comunale, che decide di rinunciare al previsto sviluppo di zone periferiche e di concentrarsi esclusivamente sul centro storico, e affida l’incarico a Marcello Piacentini, “architetto del regime” e autore del riassetto del centro di Bergamo. La sua idea di fondo è aprire la città storica per farla attraversare dai nuovi flussi veicolari che ruotano attorno al suo cuore vivo e pulsante, la nuova piazza, in diretto contatto con Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato, e lambita dai nuovi flussi, ma mai attraversata dal traffico veicolare. L’area prescelta per l’apertura è quella dell’antico quartiere delle Pescherie, che sorge nel luogo in cui i Longobardi, dopo aver messo la città a ferro e fuoco, insediano nel VII secolo il loro primo accampamento, a ovest delle antiche mura romane e sulle rive del torrente Melo, rinominato Garza in età medievale, per svilupparsi poi nei secoli a ridosso delle principali piazze cittadine (Piazza della Loggia, Piazza Duomo e Piazza del Mercato) e diventare uno dei principali luoghi del commercio di pesce, formaggio, carne e granaglie in città. Popolarmente noto anche come “serraglio” e ricco di osterie e bordelli, è popolato da oltre seicento famiglie, più di tremila persone, che vivono in case strette e alte fino a 25 metri, affacciate su vicoli oscuri e tortuosi, in condizioni igienico-sanitarie che sono considerate le peggiori della città, tanto che la cultura fascista paragona il quartiere a un tumore da estirpare.

FOTO 1. Cartolina d’epoca. Piazzetta delle Pescherie, 1929

Con i fondi stanziati dal Regio Decreto n. 787, del 25 aprile 1929, si espropriano oltre duecento fabbricati, sistemando gli oltre tremila abitanti in precari alloggi di periferia, in alcuni casi semplici baracche, in aree che diverranno nei decenni successivi simbolo del degrado urbano, e i cui abitanti, ancora alla fine degli anni Sessanta, sono indicati come “gli sfrattati”, o sbandinell’icastica definizione dialettale, che sintetizza la loro condizione di marginalità e la memoria dell’espulsione coatta. In meno di due anni si completa lo sventramento, che rade al suolo, oltre a laboratori artigianali, botteghe e facciate affrescate, una delle quali, particolare per i notevoli affreschi del ‘500 con scene di storia romana di Lattanzio Gambara, è stata inglobata nell’edificio delle poste; edifici di importante valore storico quali le antiche pescherie, il macello risalente al Quattrocento, la chiesa romanica di Sant’Ambrogio, i resti della curia ducis romana, le fondamenta della cinta urbana tardo-antica, di una torre, di un palazzo ducale di età longobarda, tre resti di ponti sul torrente Garza. Nel 1970, durante gli scavi per la costruzione del parcheggio sotterraneo terminato nel 1974, vengono ritrovati altri  importanti resti risalenti alle età imperiale e longobarda e, nel 2008, durante gli scavi per la realizzazione della metropolitana di Brescia, vengono alla luce le fondamenta di una torre di epoca medievale.

FOTO 2. Particolare dell’affresco di Lattanzio Gambara in via XXIV Maggio lungo una parete dell’edificio delle poste

 

Il progetto di Piacentini è classicheggiante, ricco di volumi squadrati e ricoperti di lucente marmo bianco. La piazza ha una forma a L, cioè quella di un rettangolo con il lato lungo parallelo all’asse nord-sud e, nell’angolo nord-ovest, la rimanente porzione d’area che costituisce la L, richiamando la forma di un’altra piazza cittadina, Piazza del Foro, di età romana, sulla quale si affaccia il Tempio Capitolino o Capitolium (79 d.C.).

Piazza della Vittoria è progettata come spazio solenne per le celebrazioni e, allo stesso tempo, spazio di vita quotidiana.

FOTO 3a. Cartolina d’epoca. Piazza Vittoria

FOTO 3b. Cartolina d’epoca. Piazza della Vittoria dall’aereo

Secondo alcuni studi l’impianto si ispirerebbe, sia pure con alcune differenze, alla disposizione della piazza minore di San Marco a Venezia, quella che, oltre il Canal Grande, guarda alla chiesa di S. Giorgio.Come nella chiesa palladiana infatti il lato meridionale della piazza, su cui si affaccia l’edificio della Banca Commerciale, è l’unico ad avere un prospetto scolpito dalla presenza dell’ordine gigante; l’unico lambito dal “fiume veicolare” che ricorda il canale, mentre la piazza resta chiusa ai mezzi da due pennoni, ora vicini al palazzo delle poste, allineati agli spigoli dei palazzi laterali, anche se poi, già dal 1935, è utilizzata come area di sosta per automobili private, parcheggiate anche in doppia fila.

Come a Venezia il lato sinistroè il più classicoe si chiude sull’angolo retto interno alla piazza con il Torrione; unico edificio in mattoni come il celebre campanile di S. Marco, ovvero il grattacielo di proprietà dell’INA, il primo in Italia e uno dei primi in Europa, una struttura di cemento armato alta 57 metri, che ricalca il gusto eclettico dei primi grattacieli statunitensi, nonostante il regime imponga di definirlo “edificio multipiano” o “torrione”.

FOTO 4. Grattacielo INA

Marcello Piacentini, in effetti, ricicla per Brescia il progetto di grattacielo con cui nel ’22 aveva partecipato, con esito negativo, al concorso americano per la Chicago Tribune Tower. L’intero edificio si discosta dal candore della bicromia marmorea degli altri edifici della piazza e, ad eccezione del porticato e della parte inferiore del fabbricato, è interamente rivestito con mattoni a vista, a richiamare cromaticamente i tetti in tegola delle costruzioni circostanti e inserirsi armonicamente tra le cupole e le torri medievali.  La facciata principale, rivolta verso la piazza, presenta dodici grandi archi, racchiudenti ognuno le finestre di due piani, e una decorazione di dodici bassorilievi in terracotta, realizzati dal ceramista Vittorio Saltelli, che raffigurano le attività produttive tipiche di Brescia. Sul basamento porticato campeggiava un bassorilievo di Arturo Martini, l’Annunciazione, forse distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, forse trafugato, oggi non più visibile. All’ultimo piano, raggiungibile per mezzo di un modernissimo ascensore elettrico, si trovava un ristorante panoramico, poi divenuto lo studio dell’architetto Fedrigolli. Secondo le retoriche cronache dell’inaugurazione, Mussolini avrebbe disdegnato l’ascensore per salire a piedi, “con passo giovanile e rapido”, i tredici piani del grattacielo, raggiungendo per primo la terrazza panoramica, dopo aver seminato chi aveva seguito il suo esempio. L’edificio, archetipo del grattacielo italiano, suscita una vasta eco nella stampa italiana dell’epoca e viene preso a modello per la costruzione di altri simili, in una sorta di “corsa al grattacielo”, bruscamente interrotta allo scoppio della seconda guerra mondiale. Durante il conflitto i suoi sotterranei sono utilizzati come rifugio antiaereo. Affiancato al torrione, sempre sul lato ovest della piazza, si trova il palazzo delle Assicurazioni Generali di Venezia, sulla cui facciata classico-déco spicca un leone alato in bronzo, modellato da Alfredo Biagini, fronteggiato, sul lato opposto della piazza, da un altro simile scolpito sull’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà.

FOTO 5. Il leone alato in bronzo sulla facciata dell’edificio delle Assicurazioni Generali

Sul lato settentrionale della piazza si affaccia la sobria facciata del palazzo delle Poste, con il suo rivestimento in bicromia bianco-ocra; un simbolo civico, in quanto l’edificio sarebbe dovuto diventare il nuovo palazzo comunale, in sostituzione della storica sede di Palazzo Loggia, di cui riprende la triplice apertura, abbandonando però gli archi a favore di tre alti fornici sormontati da architravi. La fitta cortina muraria del lato settentrionale è attraversata da vie pedonali, il quadriportico e una galleria, volutamente allineate alle strade provenienti dalla piazza delle cattedrali per creare un legame con la maglia viaria scomparsa,e a  nord-est della piazza una grande scalinata, che  contorna il Palazzo delle Poste, colma il dislivello creatosi tra Piazza Vittoria e il piano costituito da Piazza della Loggia e via X Giornate.

Unico elemento anomalo nel richiamo ai riferimenti veneziani resta la Torre della Rivoluzione dedicata alla vittoria nella Grande Guerra, una torretta celebrativa piuttosto semplice, con un orologio alla sommità, dalla superficie volutamente liscia, che ospitava le scomparse scritte celebrative del regime e un altorilievo monumentale in bronzo raffigurante il Duce a cavallo, dello scultore Romano Romanelli. L’opera suscita vivaci polemiche già al suo apparire e la critica del tempo “ne disconosce il significato di rimando simbolico fascista e ne sottolinea piuttosto il richiamo a un faro portuale o a una torre comunale, nonché altri edifici palesemente ispirati all’architettura classica”[1]

FOTO 6. La Torre della Rivoluzione

Nel 2014 lo scomparso duce trionfale a cavallo è sostituito dall’istallazione temporanea, realizzata per celebrare il centenario della nascita dell’artista e collezionista d’arte Guglielmo Achille Cavellini, noto anche come GAC.  Sotto la Torre della Rivoluzione resta invece l’arengarioin pietra rossa di Tolmezzo, che fungeva da palco per gli oratori durante le adunanze cittadine,  utilizzato anche da Benito Mussolinidurante la cerimonia di inaugurazione della piazza. È decorato con lastre di marmo lavorate a bassorilievoda Antonio Maraini che raffigurano allegorie della storia di Brescia: dalla Vittoria alata, a ricordo della dominazione romana, al longobardo Re Desiderio, dall’eretico Arnaldo da Bresciaal vescovo Berardo Maggi,dai santi patroni Faustino e Giovitaalle glorie della pittura locale del Cinquecento Romaninoe Moretto, dalle Dieci giornate di Bresciaalla Prima guerra mondialefino all’Era Fascista, recante la scritta, scalpellata via nel dopoguerra ma ancora leggibile, “FASCISMO ANNO X” in riferimento al decimo anniversario dalla nascita del fascismo.

FOTO 7. L’arengario in pietra rossa

Come nella città lagunare, il lato destro della piazza, su cui prospettano palazzo Peregallo, l’edificio della Riunione Adriatica di Sicurtà, il nuovo albergo Vittoria e le sale per le contrattazioni commerciali volute dal Consiglio provinciale dell’economia, contrappone alla monocromia del sinistro il colore, ma del bianco e del verde della scacchiera che impreziosivano le facciate ora resta solamente un labile alone.

Servizio fotografico di Maria Paderno

Cartoline d’epoca dal sito www.bresciavintage.it

 

[1]Paolo Corsini e Marcello Zane, Storia di Brescia. Politica, economia, società 1861-1992,Bari, Laterza, 2014, p. 257