Emilia, la mamma di Alessandro

Tra pochi giorni sarà proclamato il libro vincitore del Premio Strega 2018. Nella cinquina dei finalisti appare il nuovo romanzo di Lia Levi, Questa sera è già domani, in cui è narrata la storia di una famiglia ebraica a Genova, durante gli anni del fascismo e poi delle leggi razziste. La storia di due sorelle, Emilia e Wanda, dei loro mariti, Marc e Osvaldo, del vecchio padre delle sorelle, Luigi, e del protagonista, Alessandro, il figlio di Marc e di Emilia.

Marc Rimon, belga di nascita, trapiantato in Olanda, di passaporto inglese, di madrelingua francese, intagliatore di diamanti, trasferitosi a Genova, racchiude in sé alcuni caratteri tipici dell’ebreo d’Europa, poliglotta e capace di racchiudere dentro di sé lingua, culture, modi di vivere diversi, elementi ai quali senza ch’egli, non religioso, non osservante, mostri di averne consapevolezza, dà unità l’identità ebraica, che, malgrado il suo distacco dalla tradizione, vive tuttavia in qualche modo dentro di lui.

Emilia non ama quel marito dall’humoursottile, educato e gentile. Il loro è stato un matrimonio combinato, ma non è questo, un’usanza diffusa, che procura disagio a Emilia, piuttosto è il fatto ch’egli sia uno straniero, cosa che le comunica un fastidioso sentimento di differenza, così come pure non aver parenti di lui da poter presentare, malgrado apprezzi di tenere lontane persone che potrebbero darle fastidi, come la suocera, che vive in Olanda. Nei primi anni del matrimonio, Emilia, più per noia che per reale ostilità, cerca il conflitto col marito, ma la calma incrollabile di lui, se da una parte le fa credere di aver a che fare con un debole, le infligge frustrazione, l’impressione di urtare contro un muro che non può essere attraversato.

La noia e la separatezza fra moglie e marito subiscono però un’improvvisa scossa quando il piccolo Alessandro, a soli quattro anni, rivela doti eccezionali, legge e scrive correntemente sia in italiano che in francese e quando viene iscritto a scuola, ben presto le maestre convocano i genitori, perché il bambino è straordinariamente avanti rispetto ai suoi coetanei, così, su loro impulso, viene iscritto a due classi successive. Il mondo pare cambiare per Emilia, che si dice come la sua vita è stata fino ad allora piena di buchi neri ed ora qualcuno, forse Dio, vuole ripagarla con quel figlio genio, nel quale si compiace per alcuni anni, divenendo meno rancorosa verso il marito e da allora quasi “correndo per mano a lui” insieme a quel figlio eccezionale.

Il tempo mostra, però, come Alessandro non è un genio, è stato solo molto precoce, così, a partire dai primi anni del ginnasio, comincia a incontrare alcune difficoltà, al punto che per alcune materie deve seguire lezioni private. La madre reagisce negativamente alla delusione e da allora riserva al figlio un rancore, un’ostilità, un certo disprezzo, che seppure, espressi in rare occasioni, il ragazzino sensibile avverte senza dubbi e via via che cresce sente aumentare il suo distacco affettivo dalla madre, che giudica cattiva. Riconosce invece l’amore del padre, che lo guarda attento e con silenziosa comprensione; l’amore del nonno, che, vedovo di una moglie colta, tenta sui ricordi delle parole di lei, di comunicare al nipote elementi dell’ ebraismo, dal quale tuttavia la famiglia si sente lontana; l’amore degli zii che, privi di figli propri, riversano sul nipote un affetto parentale. E nella dolce zia Wanda, Alessandro finisce per vedere la madre che avrebbe voluto, la madre buona.

Gli anni che trascorrono precipitano però la famiglia nel buco nero delle leggi antiebraiche, con i disagi, le umiliazioni, le fratture, l’esclusione che esse comportano. Marc ha passaporto inglese e comincia a valutare la possibilità che si trasferiscano in Inghilterra: quel che avviene in Germania, in Cecoslovacchia, in Austria non gli pare offrire adito a dubbi, anche se molti continuano a resistere all’evidenza. Dopo qualche tempo tutti i parenti, decine di cugini, zii, nipoti, e poi nonni, cognati, si riuniscono insieme per alcuni giorni in una grande villa del fratello di Osvaldo. Vengono prese decisioni diverse. Alcuni intendono partire per i luoghi più lontani, Singapore, Cuba, l’America latina, e si stabilisce di creare un fondo di aiuto per chi, volendo andar via, non ne abbia le possibilità economiche, ma altri decidono di restare, credono di poter superare la tempesta. Fra loro è Emilia, che non vuole lasciare l’Italia per l’Inghilterra, né per altri luoghi, non vuole separarsi dal padre, dalla sorella, da ciò che conosce. E Alessandro pensa di nuovo che la madre non l’ama, che non vuole salvarlo e glielo grida, non ottenendone che brevi frasi di disprezzo, che sembrano però al lettore piuttosto una difesa contro quello che appare troppo orrendo per essere guardato, ma Alessandro è troppo giovane e troppo spaventato per comprenderlo e si approfondisce in lui l’ostilità verso la madre.

Saranno gli eventi a trasformare ancora una volta i sentimenti, insieme alla vita. Scoppia la guerra e la famiglia sente il pericolo sempre più vicino: Mussolini potrebbe decidere di seguire l’alleato tedesco nell’avventura che appare all’inizio così facile, coronata da successi rapidissimi e schiaccianti. Ma ancora Emilia resiste a partire, e il marito non sa contrastarla, anche in lui trova spazio la tentazione di abituarsi al sempre peggio, a scendere insensibilmente quelli che uno dei personaggi, non a caso una ragazzina, chiama “i molti gradini dell’inferno”. I giovani appaiono infatti, più volte nel romanzo, dotati di maggiore consapevolezza del pericolo, forse per la loro maggiore vitalità, per la forza animale che li spinge con violenza a voler vivere, a volersi salvare. Presto l’Italia entra in guerra e per Marc, col suo passaporto inglese, è il confino, una condanna che, in un oscuro paesino marchigiano, si rivela una parziale oasi di tranquillità, ma ambigua e incerta. Alessandro che, come la madre, è italiano, non è tenuto a restare al confino, e dopo qualche tempo viene mandato dai genitori presso gli zii, perché possa continuare gli studi alla scuola ebraica, dopo l’allontanamento dal ginnasio pubblico.

E arrivano i giorni del settembre 1943. Dopo un’illusione brevissima di pace vicina, la situazione per gli ebrei precipita, arrivano, ora dopo ora, notizie terribili. Emilia continua a opporre resistenze a una fuga ormai difficilissima: in Italia c’è il papa, i tedeschi non oseranno spingersi oltre.  Stavolta, però, sono le sue parole a cadere nel vuoto, bisogna andar via. Il nonno, ormai morente, viene trasferito sotto falso nome nell’ospedale, dove come ebreo non potrebbe essere ammesso, Wanda e Osvaldo, con un breve discorso, consumano il loro distacco dai parenti: ognuno dovrà tentare di salvarsi per sé. È questo un annuncio inatteso, che delude e rattrista Marc ed Emilia, che però rapidamente si procurano documenti falsi, in cui hanno un cognome non ebraico, Ferrari, e prendono accordi con certi contrabbandieri, che attraverso le montagne, cercheranno di farli passare in Svizzera. Al momento della partenza, Alessandro, malgrado i genitori si raccomandino affinché non trattenga nulla che possa identificarli come ebrei, ha un moto violento di ribellione: porterà con sé a qualunque costo la stella di Davide d’oro e smalto regalo della nonna, che ha serbato fin da piccolissimo. Qualcosa avviene in Emilia, che osserva Alessandro come vedendolo improvvisamente in un modo nuovo. Con gesti dai quali emerge una strana umiltà verso quel figlio, che ha sempre curato, ma che per molto tempo aveva smesso di rispettare, scuce la manica della giacca di lui, vi inserisce il ciondolo amato, poi la ricuce con punti attenti, piccolissimi.

Il passaggio sulle montagne avviene in modo drammatico e, durante una sosta piena di affanni in una vecchia baita, i tre fuggiaschi incontrano una donna ebrea, che il marito e i figli hanno lasciato indietro, perché per una caduta si è spezzata una gamba. La cosa sconvolge Alessandro, che non sa trattenersi dall’esprimere alla donna un giudizio di rimprovero per quelli che l’hanno abbandonata. Ma la donna li difende: è stata lei a obbligarli, minacciando di spezzarsi da sola l’altra gamba se non avessero proseguito. Alessandro si chiede se sua madre avrebbe fatto un tale sacrificio per lui, e immediatamente, senza comprendere ancora cosa significa quella risposta si dice, che sì, anche sua madre avrebbe fatto lo stesso per lui.

Dopo altri incidenti, la famiglia arriva al confine svizzero. Purtroppo, i loro documenti falsi, ma perfetti, fanno sospettare ai frontalieri che essi mentano e non siano ebrei. Spiegano che troppi chiedono asilo e non si possono accogliere persone che rischino meno degli ebrei e dei perseguitati politici, come chi scappa ‘solo’ dalla guerra e dalla fame. Inutili gli interrogatori ai quali i tre sono sottoposti separatamente: ognuno di loro dice le stesse cose, senza contraddizioni, ma può essere una falsa versione concordata. Non sono creduti, devono andar via, saranno riportati in Italia. Alessandro si ribella nuovamente, stavolta con violenza centuplicata, come centuplicato sente il pericolo: si aggrappa al piede della scrivania dell’ufficio in cui si trovano, non si riesce a staccarlo. L’ufficiale comandante è colpito, lo calma. Accetta di dar loro un’altra possibilità, tuttavia hanno bisogno di una prova. Marc chiede che controllino la sua cittadinanza inglese, ma l’ufficiale, dice che non c’è tempo, ci vuole una prova irrefutabile subito, e inutile era già stato l’accenno di Marc alla circoncisione, tanti non ebrei sono circoncisi. Alessandro, ch’era rimasto seduto a terra, si alza con occhi fiammeggianti, toglie la giacca chiede delle forbici, i soldati temono che voglia minacciare di uccidersi, ma è Emilia a capire, a ricordare subito. Prende la giacca, con calma chiede un paio di forbici, le ottiene e di nuovo scuce la manica, estrae la stella di Davide, che il figlio afferra e, sollevandola alta, la mostra, luminosa, splendente nella luce. Sono salvi. I frontalieri li portano in auto in un piccolo paese vicino, al centro di smistamento. Nell’ufficio in cui entrano, intravedono figure sparse, nella penombra, sedute. Un piccolo gruppo più compatto è in piedi, in un angolo. Discutono.? No… pregano. “Il Lehà Dodi li raggiunge improvviso: “Vieni mio amato, incontro alla sposa, accogliamo lo Shabbàt” da secoli c’è qualcuno che continua a cantarlo. Adesso è già sabato. Sono in pochi, non hanno raggiunto di sicuro il minian. Alessandro si è mosso, la madre lo segue”.

La violenza che voleva cancellarli ha fatto sì che Alessandro ed Emilia ritrovassero la propria identità, l’identità di figlio, l’identità di madre, l’identità ebraica. Una nuova vita li attende, piena di consapevolezza e di amore.




Erica, di Elio Vittorini

Erica e i suoi fratelli è un romanzo incompiuto che Elio Vittorini iniziò a scrivere nel 1936, ma che interruppe per lo scoppio della Guerra civile spagnola, alla quale lo scrittore progettò di partecipare tra le file repubblicane, facendo anche propaganda in questo senso, il che gli costò l’espulsione dal partito fascista. L’opera restò dimenticata a lungo e una volta ritrovata, fu pubblicata nel 1954 nella forma incompleta che conosciamo, sulla rivista «Nuovi Argomenti», quindi in volume da Bompiani nel 1956.

Il plot è essenziale e ciò che costituisce il romanzo sono i pensieri dei personaggi, innanzitutto quelli della protagonista, Erica, che ci rivelano la sua interiorità, il suo sentimento dell’esistenza, le sue paure, i suoi affetti, la sua invincibile innocenza, ma anche il sentire contraddittorio del mondo in cui vive, un sentire fatto di episodica capacità di provare una superficiale pietà e più profondi e costanti sentimenti di egoismo, invidia, rabbia, insieme ad avidità e avarizia. 

Erica, intorno ai cinque anni, si trasferisce con i genitori “nella grande città” che resta ignota, una città industriale sul mare, un mare che Erica non vede mai, ma il cui odore arriva forte in estate, come arrivano nelle strade i marinai delle navi da guerra. La famiglia è composta dal padre, operaio montatore in una grande fabbrica, dalla madre, e da due figlie, Erica e Lucrezia, che ha quattro anni meno di Erica. Quando arriverà un maschietto, Alfredo, sarà accolto con gioia dalla sorella maggiore, che sentirà aumentare nella sua vita la compagnia. Da subito sappiamo, infatti, come per Erica sia fondamentale la compagnia, e come tutto, dentro e fuori la casa e la famiglia, sia per lei compagnia. I suoi sogni infantili, pieni di alberi, uccelli che cantano e uva dorata, dentro i cui globi lei si sente entrare e vivere felice, sono compagnia. E compagnia, nella veglia, sono i colori, i gatti, la ferrovia, sì che le sue prime paure di bambina non sono gli orchi, ma che qualcosa possa sparire, che il mondo possa impoverirsi di presenze, fra le quali le cose, gli animali, non sono meno importanti delle persone. Sono per lei belli i primi anni nel nero pianterreno, che affaccia su un cortile di povere case, anni durante i quali la mamma lava i panni e li stende nella stanza dove stanno tutti insieme, mentre aspettano, davanti alla stufa col fuoco luminoso e caldo; si aspetta che il padre torni dal lavoro e la mamma le dice di chiamare altri bambini, perché lei possa raccontare a tutti loro le sue storie. Ma quando Erica ha nove anni, è presa da un terrore nuovo: comincia a temere che i genitori possano abbandonare loro bambini, come i genitori malvagi di Pollicino. Terrore e sfiducia sono suscitati da una serie di segnali, quando Erica comprende che sono poveri e insieme scopre una complicità segreta fra i genitori, che esclude loro piccoli. Quando il padre comincia a star male mentre il salario gli viene diminuito e nel freddo inverno non c’è di che scaldarsi, e infine anche il cibo manca del tutto, Erica fa provvista di sassolini, e continuamente si chiede come salvare se stessa e i fratelli. Un giorno il padre ha un’idea. Lasciare la casa d’affitto, per trasferirsi nottetempo in una casa diroccata e abbandonata a pochi metri, poco più che un rudere, composto da una stanza al pianterreno, con una stufa, e una stanza al piano superiore, non abitabile e raggiungibile attraverso una scala malmessa. Trasferitisi lì nottetempo, Erica, per quell’avventura comune, per quella prima complicità familiare, recupera fiducia e, prima il risparmio dell’affitto, poi la diminuzione della crisi, per tre anni fanno migliorare le cose. La paura dell’abbandono dentro Erica “si asciuga”, per riaccendersi, tuttavia, quando la crisi torna, finché il padre perde il lavoro e decide di partire, di fare una nuova vita, una vita da zingaro dietro il lavoro, una vita nella quale la moglie vuol seguirlo, ma loro sono famiglia, dice il padre, non possono partire. Egli va via e di giorno in giorno, fra le povere rimesse che invia e le lettere in cui spesso lamenta la sua solitudine, Erica sente crescere nella madre il rimpianto dell’uomo e l’odio per loro bambini, sente che la madre è ormai un pericolo, sente ch’ella li odia, che non sono altro per lei che un ostacolo fra lei e l’uomo, così quando decide di raggiungere il marito ammalato, Erica è felice, sollevata e a un tempo triste, più ancora, indispettita che la madre preferisca il marito a loro piccoli, ma poi si dice che finalmente il pericolo va via, che loro bambini restano nella casa, che non sono abbandonati, sono loro famiglia. La casa stessa, come i fratelli, diviene adesso una bambina di cui prendersi cura e famiglia sono pure le provviste di petrolio e carbone, di pasta, di polenta e dadi da brodo, perché sono calore e vita. 

Le vicine disapprovano la madre, e ammirano la piccola che cura i fratelli e la casa, pure, iniziano a guardarla con un astio, con una sorda rabbia, addirittura con invidia. Abbrutiti dalla miseria, in alcuni più morale che materiale, ben presto scoprono le provviste che Erica ha raccolto nella sua camera dei giochi di un tempo, la stanza non abitabile al piano superiore della casa, raggiungibile da una scala posteriore esterna diroccata, la stanza che Erica aveva eletto a suo rifugio dei giochi, con un piccolo giaciglio dal quale guardare il terreno in vendita su cui sporge e che mai nessuno verrà a comprare.  Poco a poco, le vicine la derubano. Erica si accorge della scomparsa del cibo quando è troppo tardi, neppure sospetta il furto, la sua innocenza è assoluta, ma le reazioni cattive, quando si fa sfuggire che non trova più nulla, le fanno comprendere che sì, sono state le vicine ad aver portato via ai fratelli e a lei la possibilità di sopravvivere. Respinge allora, calma e decisa, l’aiuto che le viene offerto, malgrado il senso di colpa, con malagrazia, con rabbia, con una pietà cattiva. Erica vuole sentire che le persone ci sono, che vivono intorno a lei, ma non vuole la loro attenzione, non vuole la loro pietà piena di rancore, come non aveva voluto le cure, piene di odio represso, della madre. Pensa però che è piccola, che per lei non può esserci il lavoro dei grandi, sente che ogni lavoro le sarebbe dato per una malvagia pietà. E allora pensa che deve trovare un lavoro nel quale non ci sia pietà, un lavoro cattivo, un lavoro che sia solo crudeltà, un lavoro che chi lo dà sappia di darlo senza poterle chiedere riconoscenza, un lavoro che, improvvisamente, lei innocente, comprende oscuramente cosa sia. E la parola che per il mondo è insulto, il lavoro cattivo, il lavoro di sfruttamento assoluto, dove la pietà è ignota, quello sarà il suo lavoro.

Erica mette un nastro rosso fra i capelli e si mette alla finestra ad attendere: subito i soldati che verso sera scendono lungo la strada notano la sua bellezza così acerba e il male si compie. Si compie nel suo giaciglio dei giochi perduti, non dentro il letto innocente in cui dorme coi fratelli, non in quello che è casa e calore della casa. Ella non si dice mai io sono…, ma io faccio… E “fa solo tre ore ogni giorno”, quando Lucrezia e Alfredo sono lontani, in strada a giocare. E la ferita che il primo soldato le aperto nel corpo, si riapre più dolorosamente, ogni volta, Erica piange, soffre e trema, e nella moneta liscia e lucente che gli uomini le dànno, sente di stringere tutte le sue lacrime coagulate. Le donne del cortile comprendono e accettano quella nuova sventura come una disgrazia che tocca a loro miseri, e insieme apprezzano che Erica sia tanto discreta, tanto silenziosa. Non sono curiose di quel male, non ne parlano, né fra loro, né coi loro uomini, mariti, figli, amanti. La solidarietà delle donne mostra come quello sfruttamento, altro non è che emblema dello sfruttamento di un’intera classe, la classe operaia, che, come Erica, è massacrata dal lavoro che fa e come Erica è ad esso estranea, alienata.

Ora Erica può comprare il cibo, che è vita per i suoi fratelli e per lei. La prima volta, va al negozio della Cooperativa, con la moneta stretta nel pugno, la getta sul banco e la moneta sembra gridare ”Viva!”, Erica ripete nel suo cuore: “Viva!” e si sente piena di pace. Esita sulla scelta, non sa decidere cosa chiedere, quasi le pare di non aver più fame. Il commesso le suggerisce di prendere una scatola di sardine, poi da sola Erica sceglie ancora qualcosa, caffè. 

“Una donna, della gente ch’era lì a comprare, le chiese:  – Hai ricevuto un vaglia dalla mamma Erica? – Ma no, – Erica rispose – è denaro che ho guadagnato.

Fu una risposta troppo veemente perché la donna potesse chiedere altro, e tutti guardarono Erica andar via, s’accorsero che camminava con le gambe larghe …”

 




Sorrento -Toponomastica femminile al Convegno dell’American Association for Italian Studies

Il 14 giugno scorso, all’Istituto S.Anna di Sorrento, è stato inaugurato il Convegno dell’AAIS (The American Association for Italian Studies) per il 2018, che si è concluso domenica 17 giugno.

L’istituzione statunitense, che ha invitato e ricevuto studiose e studiosi provenienti da ogni parte del mondo, ha presentato una notevolissima serie di panel non solo su discipline letterarie e filosofiche, ma anche su cinema, studi di genere, storia, arti, tecnologie.

Di grande interesse per chi si interessi di studi sul femminile e la sua storia, nei diversi campi, si è distinto, organizzato dalla prof. Cosetta Seno, dell’Università del Colorado, un panel diviso su due sessioni (a destra nella foto sottostante), articolate nel primo dei quattro giorni di lavori, chair Angela Articoni, dell’Università di Foggia e Roberto Risso, dell’Università di Clemson, entrambi pure relatrice e relatore, dal titolo Modelli educativi nella letteratura per le bambine, con sei interventi: sulla contessa Lara (Angela Articoni), su Giana Anguissola (Anna Maria de Majo, associata Tf, dell’Università di Roma, a sinistra nella foto sottostante), su Emma Perodi (Alba Coppola, associata Tf , dell’Università di Salerno), sulla marchesa Colombi (Silvia Palandri, di Toponomastica femminile, che, impossibilitata ad esser presente, ha tuttavia inviato il suo intervento, letto dalla prof. Seno), su ‘pensieri pedagogici’ ottocenteschi di varie autrici (Roberto Risso), sui plutarchi femminili nell’educazione delle ragazze (Loredana Magazzeni, dell’Università di Bologna). 

(foto)

Dalle letture degli interventi e dalla discussione che ne è seguita, sono emersi, fra gli altri, due punti: l’interesse condiviso tra studiose/i e pubblico sui temi e le autrici e gli autori proposti, non di rado, singolarmente embricati e dialoganti fra loro; l’ampiezza del dibattito che ne è stato suscitato e l’interesse degli approfondimenti richiesti ed offerti, che hanno indotto a pensare alla possibilità di pubblicare gli interventi in un volume collettaneo. Importante anche l’attenzione ricaduta su Toponomastica femminile, della quale la prof. Seno dal 15 giugno è entrata a far parte, manifestando fra l’altro un notevole interesse per ImPagine e per la pubblicazione Le Mille, donatale da Tf, pubblicazione che sta quindi per approdare negli USA. 

Fra altri bei panel, piace segnalare quello organizzato dalle professoresse Marinella Mascia Galateria  dell’Università “La Sapienza” di Roma, e Tristana Rorandelli, del “Sarah Lawrence” College, entrambe anche relatrici, sulla narrativa di Paola Masino, con interventi di grande spessore e sovente condotti sulle carte autografe di una scrittrice originalissima e notevole, mai emersa in vita secondo i propri meriti, e  poi a lungo dimenticata. 

Sia dalla professoressa Cosetta Seno, che dalla professoressa Marinella Mascia Galateria, nuova socia, ella pure di Toponomastica femminile dal 17 giugno scorso, chi scrive si è congedata con promesse reciproche di contatti per e con la nostra Associazione.    

              




Lisa Giua, narrata da Anna Foa

La famiglia F., uscito pochi mesi fa, alla fine del 2017, è un esperimento di ricostruzione storica e narrazione che intreccia la storia di più famiglie, Foa, ma Giua, Della Torre, Luzzati, Agnini e altre ancora, unite fra loro da legami matrimoniali e di sangue, ma pure, e con altrettanta forza, da lotte politiche che si rivelano subito e definitivamente solidali e necessarie ai legami fra le persone, proprio come la carne e il sangue. Donne e uomini uniti, separati, riuniti e separati ancora dallo slancio ideale, da prigioni, da esili, da morti spesso eroiche o tragiche, annunciate o, più sottilmente, prefigurate. Tutte le famiglie coinvolte in questi legami e in questo racconto, che è storico, ma insieme intimo, sono riunite nel titolo, dalla nota studiosa Anna Foa, come famiglia F., con un tratto di nascondimento discreto, ma anche allusivo, probabilmente come a dire che è questa la storia di una famiglia italiana come altre ce ne sono state nel periodo dall’Unità d’Italia alla faticosa fine dei comunismi, o almeno alla fine delle speranze di milioni di uomini e donne su ciò che il comunismo avrebbe potuto realizzare. Ma certo è pure un gruppo familiare che ha avuto un’esperienza intensissima e viva, di primo piano, nella lotta politica italiana e internazionale per più di cento anni.

Fra i tanti personaggi, uomini e donne, desidero soffermarmi su Lisa Giua, madre di Anna Foa e moglie di Vittorio, il grande sindacalista: Lisa, della quale sembra essere indagato e sottoposto al tentativo di scioglimento il mistero non solo suo, ma di un’intera generazione che credette in una generosa ideologia, continuamente contraddetta nella sua attuazione e tuttavia continuamente inseguita e perseguita. E appaiono anche il ricordo affettuoso ed una commozione sempre trattenuta, ma non celata.

Lisetta Giua, poi detta Lisa, nacque nel 1923 a Torino. Il padre Michele, socialista, fu tra i pochi professori universitari italiani a rinunciare alla cattedra per non giurare fedeltà al fascismo, e nel 1935 fu condannato a quindici anni di carcere per attività eversive del regime (nello stesso processo in cui fu condannato Vittorio Foa), condanna che scontò fino al 1943, quando venne liberato. La madre di Lisetta, Clara Lollini, donna austera, rigorosa, piena di forza, condivise sempre le idee del marito e con lui patì la morte del primo figlio nella guerra di Spagna, poi del secondo, molto cagionevole, per malattia e ne condivise i timori per l’attività partigiana nella quale la figlia cominciò a militare giovanissima. 

La piccola, vivace Lisetta di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, la Lisa intellettuale autorevole nel commosso ricordo di Adriano Sofri, nel 2005, alla morte di lei, viene confermata in toto nel racconto che Anna Foa ci consegna. Precoce nelle letture, precoce nella lotta antifascista, incapace di timori per sé e straordinariamente schiva. Comunista con un’evidente vena anarchica, spregiatrice di ogni titolo, di ogni potere personale, di ogni carica istituzionale. Brava a scuola, dove però si annoiava, ironica verso l’accademia, di cui non volle mai far parte, non volle neppure laurearsi. Indifferente al matrimonio come istituzione, sposò Foa un bel po’ dopo la loro unione e dopo la nascita della prima figlia. Così, non si curò di divorziare, dopo la separazione, alla fine degli anni Settanta. Ben presto suo padre le era apparso un uomo superato dai tempi, come storia vecchia le parve sempre il femminismo. Diceva “mia nonna era femminista”. Dopo la liberazione, imparò il russo, viaggiò moltissimo nell’Est Europa, collaborò con Togliatti, tradusse, scrisse per “Rinascita”. Dai fatti d’Ungheria, però, cominciò il suo lungo percorso di ripensamento e critica del comunismo sovietico, fino alla rottura, quasi silente, col PCI, nel 1969, all’ingresso dei carri armati a Praga, ma continuò incessantemente il suo impegno, in varie riviste, e in Lotta Continua dal 1972, aiutando la lotta polacca per la caduta del comunismo sovietico, occupandosi del Vietnam, della rivolta africana contro il colonialismo, aderendo quindi al maoismo, nella cui esperienza iniziale coglieva una vena fantasiosa ed anarchica che le corrispondeva bene e arrivando al punto di indossare per molto tempo la casacca blu dei maoisti cinesi. Anche questa nuova speranza sarebbe caduta. Ma Lisa, infaticabile, passò ad aiutare i profughi bosniaci, con la figlia Bettina approfondì la questione del genocidio dei Tutsi. Dalla fine degli anni Ottanta, si era dedicata allo studio della Shoah, questione che, ammise con Anna, “avevamo trascurato”.

Anche il cancro aggressivo e doloroso, che l’avrebbe uccisa, fu da lei affrontato con serenità e con un distacco dolce e fermo, con l’eleganza anche interiore che pare essere stata la sua cifra essenziale.

Una donna vissuta di idee e per le idee, che aveva subito la detenzione, nel 1944, nella spaventosa Villa Triste di Milano, mentre era incinta, catturata con un’amica, pure incinta, dalla banda Koch. I fascisti chiesero al CNL di trattare la liberazione di alcuni fascisti in cambio di quella delle due donne, offerta che, con la sua sollecitazione ed approvazione, il Comitato rifiutò, e, particolare davvero atroce, ma, oso dire, sublime, Vittorio Foa fu tra coloro che decisero contro la trattativa. Fu il cardinale Schuster a salvare la vita alle due prigioniere, dietro richiesta dei partigiani, segnalando quella prigione irregolare ai nazisti, che la smantellarono, dopo aver fatto portare le donne in ospedale, dove erano piantonate, ma da cui si riuscì a farle fuggire.

Lisa fu pure una moglie che consumò il suo distacco dal marito perché la loro posizione politica si era sempre più divaricata, fra il socialismo anticomunista di lui e la ricerca di un comunismo dal volto umano di lei. E fu una madre che mescolava ironia e tenerezza, come nel rapporto con Anna, da lei considerata con qualche ironia per il suo lavoro nell’Università, ma che anni prima aveva guidato in una delle prime manifestazioni di protesta studentesca, dove era improvvisamente apparsa in aiuto della figlia che era con un’amica francese, perché le due ragazze sfuggissero alle cariche della polizia e agli arresti.

Come della fanciulla fuggevolmente narrata da Primo Levi in Se questo è un uomo, di cui non è detto il nome (ma che sappiamo essere Vanda Maestro), viene da chiederci se siamo dinanzi ad un personaggio completamente storico, che per nessun aspetto tocca il territorio della letteratura. Anche per lei sembra di poter rispondere che la narrazione storica, ove assuma un aspetto di modello esemplare, può sconfinare nella letteratura, se letteratura è narrazione di sogni e desideri umani. Un segnale in questo senso pare trasparire anche da alcune parole con le quali questo breve articolo si congeda da Lisa. Un ricordo di Anna: “[…] Ritorna, attraverso Beethoven, il filo conduttore dell’eroismo che mi ha accompagnata da bambina e da ragazza. Quando Lisa morì, la mattina in cui sapevo che sarebbe stata cremata ascoltai l’Eroica.”

                                                                              




Angela, di Gina Lagorio

Nel 1977, Gina Lagorio (1922-2005) pubblica La spiaggia del lupo, un romanzo di formazione, col quale in quello stesso anno vince il Premio Campiello. 

Tra Oneglia, nella Liguria della sua infanzia, e Milano, la città cui approdò dopo la morte del primo marito, Lagorio ambienta la storia di Angela, che incontriamo bambina, quando, con la mamma e il nonno, vive in una piccola casa sulla spiaggia, sovrastata da un grande scoglio, che a lei pare avere la forma di un lupo, ma un lupo benevolo e protettivo, che nella notte difende la sua casa dalle insidie del mare tempestoso. Anni prima, il padre di Angela, di una ricca famiglia che lo aveva rinnegato per aver voluto egli seguire la carriera di pittore, si era ammalato di tubercolosi in conseguenza delle difficili condizioni che aveva dovuto affrontare, ed era morto quando Angela aveva pochi mesi. I nonni paterni, che non avevano mai voluto conoscere la nipotina, l’avevano esclusa dal testamento. Per un sentimento di giustizia offesa, e nel tentativo di assicurare alla figlia un avvenire più sicuro di quello che la sua povertà le prospetta, la madre di Angela ha intrapreso una causa per l’eredità, ma tutto sommato con scarsa determinazione, e assistita gratuitamente da un anziano, buffo e distratto avvocato, ben più impegnato, però, a scrivere una vastissima e dotta Antropologia dello sbadiglio, che a curare le cause affidategli. Tuttavia, nella modesta casetta sulla spiaggia, nulla manca di quanto i suoi abitanti desiderano: i libri, innanzitutto, che Angela legge avidamente, alimentando la sua fervida fantasia, il suo cuore puro e la sua lieta, ricercata solitudine, (ella non comprende i discorsi e la visione del mondo delle sue coetanee, disinteressate all’interiorità); i dischi, soprattutto di musica classica, che la madre ascolta nelle ore libere dal lavoro e che la riportano al tempo e all’atmosfera del suo breve tempo con marito; anche il semplice cibo che prepara il nonno, pescatore e giardiniere.

L’incipit del libro dichiara il mistero di Angela, un mistero che l’accompagna sempre “La bella Angela, non era bella. Ma tutti dicevano ch’era bella, quando parlavano di lei. Non era un giudizio, era un’abitudine, dei ragazzi prima degli uomini poi […]”. Gli uomini, dunque, la guardano con desiderio fin da quando è solo una bambina. Eppure, quanto c’è a volte di torbido in quel loro desiderio viene sciolto o frenato dall’inconsapevolezza di lei, dalla sua innata e definitiva innocenza, dalla naturalezza con cui vive tra gli altri, immersa in un mondo tutto suo, quasi incomunicabile ad alcuno, se non, in parte e quand’è bambina, al nonno, cui da piccola racconta le sue storie fantasiose, prima di scivolare fiduciosa nel sonno, appoggiata al suo petto. Ma il mondo di Angela non è fatto solo dalla veglia, ma pure dai suoi sogni, da quelli infantili, con sontuosi palazzi marini, abitati da esseri di favola, a quelli di ripetizione, ossessivi, sulla ricerca di una casa a lei adatta, nei primi, faticosi mesi dopo che si sarà trasferita a Milano.

Prima di ciò, però il romanzo narra l’improvviso fiorire di Angela, dopo un breve periodo disarmonico e difficile della prima adolescenza. Adesso la giovane ha diciotto anni, non è bella, le ripete la madre, ma il suo corpo è forte e pieno di vita, con la pelle dorata di pesca intatta, generoso e sano, un corpo dalle sporgenti scapole alari, che quando Angela corre sulla spiaggia e poi si slancia fra le onde, nuotando fra pesci e gabbiani, che volano a pelo d’acqua, la fa sembrare una creatura non terrestre, fra uccello e pesce.

Un giorno, risalendo sulla spiaggia dal bagno non trova il suo gattino, Mimì, ad aspettarla come al solito, preoccupata, lo cerca e quando, dopo poco lo trova, le appare ferito e spaventato. Un ragazzo le si avvicina. Mimì e il suo cagnolino, un minuscolo carlino, hanno ingaggiato una lotta, uscendone malconci entrambi. Angela, nella sua casa medica le due bestiole e subito nascono simpatia e confidenza affettuosa col giovane, Vladimiro, detto Vladi, che è lì in vacanza. Da quel momento i due non si separano per l’intera estate. Angela non vede più altri che lui. Fanno l’amore con naturalezza, con tenero, totale abbandono, e poi parlano di tutto. Una sera di fine estate Vladi le appare pensieroso e triste e le dice che l’indomani si vedranno più tardi. Ma, il giorno dopo, dopo una lunga attesa, un ragazzino porta una lettera ad Angela, che nel leggerla sviene. Vladi è tornato a Milano, è sposato, e per un giuoco del caso, con la figlia di un fratello del padre di Angela. Vladi intende sistemare la situazione, e la attende Milano, dove saranno di nuovo insieme. Dopo il primo urto, la giovane decide di raggiungerlo, mentre scopre di lì a poco di essere incinta, e informa il nonno e la madre. Terrà il bambino, raggiungerà Vladi e, come desiderava da tempo, si iscriverà all’accademia di Brera. Di fronte alla sua fermezza, la madre e il nonno comprendono di non poter opporsi. 

Gli anni in cui Angela arriva a Milano sono quelli di poco successivi al Sessantotto, ma come già a Oneglia, nelle manifestazioni che frequentava col nonno, vecchio socialista, deluso e amareggiato dagli scandali della politica e da un nuovo linguaggio ch’egli non comprendeva più e di cui diffidava, anche nella grande città, nel pieno dello sviluppo, non sono il fermento e la speranza del nuovo a mostrarsi, piuttosto il fallimento, la violenza, l’odio e l’incomunicabilità insanabili tra il mondo operaio e la proprietà. Vladi, che dirige un’azienda di proprietà del suocero e che ha voluto tentare un’esperienza di cogestione della fabbrica, è fatto oggetto di un attentato in cui viene ferito gravemente e in cui perde la vita un funzionario della fabbrica che lo appoggia. Nulla si saprà del bombarolo, che, viene detto, è in realtà approvato dagli operai che non si fidano dell’esperimento, e dai padroni, che temono l’aggressione al principio di proprietà capitalista. Appare qui la singolare lucidità di Lagorio che, per bocca di un personaggio comprimario, indica la fine delle ideologie e la sconfitta di quella più generosa del Novecento, mentre quel che resta è solo la vittoria della società del consumo selvaggio e insaziabile. Sono pochi a quell’altezza di tempo ad aver compreso questo esito amaro: Lyotard, Calvino, qualche anno prima Pasolini.   

La città appare estranea e aggressiva ad Angela, col rumore costante degli aerei, delle sirene delle fabbriche e col suo traffico convulso. Solo Brera, che mantiene ancora, in quei primi anni Settanta in cui è ambientata la vicenda, una dimensione pre-industriale, con poche botteghe artigiane sopravvissute ai nuovi negozi dalle chiassose insegne al neon, con qualche piccola strada chiusa al traffico, una dimensione che le dà conforto, così come la conforta lavorare, attenta e accanita, ai suoi disegni in Accademia, mentre le sembra di sentire dentro sé respirare insieme il bambino che attende e il giovane pittore del quale non ha ricordi, suo padre, di cui sa in fondo molto poco, se non quella passione, che lo aveva fatto crudelmente disconoscere dalla propria famiglia. Ella, inoltre, ripiegata su una dimensione di attenzione più all’intimo che al politico, si tiene istintivamente lontana tanto dalla militanza, quanto dai numerosi giri di giovani post sessantottini, più attratti dalle droghe che dalla politica. Intanto, malgrado l’amore tra Angela e Vladi duri, il legame si allenta fino a spezzarsi. È proprio Angela che comprende di non amarlo più, per la delusione che le provocano il vittimismo e la pavidità di lui, incerto a lasciare la moglie, che pure non ama, Così, quando egli, che sente di stare per perderla, le propone di lasciare tutto per recarsi loro due e il bambino lontano, “nel terzo o quarto mondo” Angela rifiuta, consapevole che quella di lui non è un’assunzione di responsabilità, ma una fuga. Nel suo percorso, però, per la prima volta, la giovane donna ha scoperto la dimensione dell’amicizia con i propri coetanei, lei, che fino allora come amici aveva avuto a lungo solo il nonno e una vecchia saggia, anche lei incompresa ai più nella sua profondità, creduta da tutti solo l’originale, misantropa e tirannica “regina” della riserva naturale di Oneglia.  Con i nuovi amici, Angela scopre il reciproco sostegno e la possibilità di godere insieme di semplici piaceri, condividere una cena, un discorso, qualche volta la casa, in una notte in cui si è fatto tardi e sembra sconsigliabile avventurarsi da soli nella città, l’essere ‘compagni’ in una dimensione esistenziale e solo latamente politica. Tornata a Oneglia per un periodo, ha una breve, intensa relazione col suo maestro di pittura, un uomo anziano e amaro, col quale però conosce un’intensità sessuale, possibilità della carne che non aveva immaginato nel tenero amore con Vladi. Anche da questo amante però si stacca, sente di non averlo amato e di non voler legarsi, la vita, altre possibilità, lontane da lì, chiamano. Lo lascia triste, per la perdita di quell’ultimo fuoco, forse mai sperimentato tanto intenso, pure nella sua esperienza di molteplici relazioni, ma l’uomo maturo l’aiuta, con una generosità estrema, ch’ella comprende, a non provare sensi di colpa, perché nei richiami della vita sta il diritto di scegliere d’essere liberi.     

Seguendo il destino solitario matrilineare, determinatosi per la madre in seguito alla morte del padre, per Angela a causa di consapevole dignità e libertà, ella chiede una volta per tutte alla madre di interrompere la causa per la propria eredità. Tornerà a Milano con suo figlio Carlo, a vivere, a studiare. Il nonno e Rachele sono morti, il gatto Mimì, dopo la sua prima partenza, offeso nel suo amore esclusivo, è tornato randagio. La madre di Angela è ancora abbastanza forte da poter recarsi, almeno qualche volta, presso di lei. Nel treno che da Oneglia li porta tutti e tre a Milano, sente che la adesso la città è sua, come sua e tutta aperta è la vita che le sta davanti.                   

 




Isabella e Margot, di Rosetta Loy

È noto che Rosetta Loy, nata nel 1931, di cultura cattolica profondamente vissuta, ritiene fondamentale nella sua riflessione esistenziale il tema della shoah, che ha trasposto, con un’angolazione molto originale, in uno tra i suoi più noti romanzi La parola ebreo, uscito nel 1997. Attraverso la vicenda della persecuzioni degli ebrei italiani, di persone a lei ben note e care, mette soprattutto in evidenza l’assenza di solidarietà di coloro che dalla persecuzione non erano toccati, e che, se e quando la solidarietà scattò, per molti era ormai tardi, per tutti la vita era drammaticamente, incomprensibilmente cambiata e segnata da dolori immedicabili.

E, nello stesso 1997, Loy pubblica un altro romanzo, Cioccolata da Hanselmann, che narra l’amore di due sorelle, Isabella e Margot, per Arturo Cohen, un professore universitario ebreo, collega del marito di Isabella e assiduo frequentatore della loro casa.

La vicenda, che inizia poco prima della promulgazione delle leggi razziste in Italia, ha un’articolazione complessa, a partire dal narratore esterno che nella prima parte del romanzo, mostra gli eventi, dal punto di vista della piccola Lorenza, prima figlia di Isabella e di Enrico.

Frattanto, Margot vive in Svizzera, fra Ginevra e la montagna, in una grande e ricca residenza, con l’autoritaria madre, la signora Arnitz, anziana, ma ancora attraversata da desideri, dopo una vita di molte, per lo più fuggevoli, relazioni e di due matrimoni, dal primo dei quali ha avuto Isabella e Alberto, morto in Africa di una misteriosa infezione, dal secondo, Margot. Lorenza per alcuni mesi è ospite della nonna, per riprendere le forze dopo essere stata malata, lì oltre la nonna svizzera, che tutti in famiglia chiamano “mamigna”, e Margot, c’è Marisetta, la figlia adolescente di Alberto, e la sua amica inseparabile, Vivia, quindi Eddy, figlio del secondo marito di mamigna, e della donna ch’egli ha sposato dopo il divorzio da Arnitz. Da qui, ma non definitivamente, il narratore esterno racconta da un punto di vista tradizionale, senza preferire il punto di vista di un personaggio o di un altro.

Eddy e le ragazze trascorrono i giorni in montagna sciando e passeggiando, mentre vivono fra loro rapporti attraversati da cameratismo, ma pure da affetti ambigui, mentre i pochi personaggi estranei a quel nucleo, come un corteggiatore di Margot che spera di sposarla, restano marginali. Non privo di mistero è il rapporto tra Eddy e Margot, spesso sbilanciato verso un inizio di relazione amorosa, con lui che la ama e lei che gli vuole un bene che la induce a consentire ad alcuni baci, a qualche carezza di qualche intimità.

Quando Lorenza torna a Roma, riprende la vita consueta. Arturo continua a frequentare la loro casa e poco dopo la bambina comprende che fra lui e la madre c’è una relazione. Enrico ne è quasi certamente consapevole, ma manifesta un’accettazione priva di rancore. Ama la moglie e nutre per l’amico un’ammirazione profonda, in cui, verrà accennato molto più tardi, ha parte non irrilevante proprio il sapere che Isabella lo ama, forse anche il fatto che ne è l’amante. Non sembra farsi mai domande, né mai indaga in quella vicenda, che subisce un’improvvisa, brusca interruzione quando Arturo è costretto dall’incalzare degli eventi a lasciare Roma e a tentare di raggiungere la Svizzera. Trascorre ancora tempo, è il 1941, il cerchio intorno agli ebrei d’Europa si stringe, ma tutto ciò che riguarda la guerra giunge ovattato nella grande casa di montagna della nonna, Un giorno arriva Arturo, annunciato da una lettera di Isabella, che ne parla come di un amico suo e del dottor Zurhaus, un anziano medico, nel quale la signora Arnitz ripone gran fiducia: è uno studioso francese di alghe, ce ne sono anche nei laghi, il suo cognome è Colin. Isabella chiede alla madre di ospitarlo. La prima iniziale diffidenza dell’anziana signora per quell’uomo che ha pochissimo denaro ed è senza bagaglio, vestito poveramente, si dissolve presto, di fronte alla sua naturalezza nei rapporti, alla discrezione disinvolta della sua presenza, alla sua conversazione interessante, e anche per il suo fascino virile, a un tempo trattenuto ed evidente, che seduce la donna, la quale, sia pure in una dimensione ormai per lo più contemplativa, continua a essere attratta dall’altro sesso. Quel che mamigna non comprende è che Margot si è immediatamente innamorata di Arturo, e fra loro è nata una relazione di cui tutti nella casa, tutti tranne lei, mamigna, sono consapevoli. E in futuro ella si chiederà, senza pace, come abbia potuto essere stata del tutto cieca e poi, con ira, come abbia potuto lasciarsi ingannare da Margot e da tutti gli altri, i ragazzi, la servitù, e naturalmente da Isabella, e l’ira si trasformerà in un risentimento che non deporrà mai più.

Una sera Eddy, ingelosito, ha una colluttazione con Arturo, dopo la quale esce a precipizio, da lui inseguito, e quella notte stessa anche Margot andrà via da casa per sempre. Per mesi, del destino dei tre fuggiaschi non si saprà nulla, fino al ritrovamento del corpo di Eddy, a una breve inchiesta sulla sua morte, archiviata, seppure con qualche dubbio come incidente, mentre un dubbio atroce attraversa la signora Arnitz, che frattanto ha appreso dalle ragazze rimaste nella casa non solo della relazione tra Arturo e Margot, ma anche che Arturo è ebreo. In seguito a questa circostanza, a lungo la vecchia signora viene ricattata da una cameriera della casa, che vende, mentre Marisetta si trasferisce in un pensionato e la sua amica va via. Finalmente, la guerra finisce. È il 1945: Lorenza e Marta, sua sorella minore, coi genitori, ricevono la visita di Margot e Arturo, che si sono appena sposati. Le ragazze sono cresciute, Margot così snella una volta, è un po’ ingrassata, ma sempre bella e scattante, appare felice, la vita sorride e promette di nuovo, Arturo e Isabella, invece, mostrano qualche tratto di incipiente invecchiamento, si guardano l’un l’altra a tratti con qualche insistenza, a tratti i gesti fra loro sono scivolati, quasi indifferenti. Margot e Arturo partono per Napoli, poi per Capri, verso una vita tutta aperta e libera davanti. Prima di andar via, Margot confida a Isabella di essere incinta. In quello stesso anno, Margot e la madre si incontrano in Svizzera. Le due donne si vedono in un caffè, la vecchia ordina alla famiglia di lasciare l’ebreo, l’uomo che ha certo ucciso Eddy. Margot si ribella. Dopo la fuga di Eddy, Arturo l’ha inutilmente cercato ed è tornato nella notte a riprenderla per fuggire insieme: Eddy aveva scoperto la vera identità di Arturo e, al colmo della gelosia, era uscito per andare a denunciarlo. Era morto certo per un incidente, scivolando per il ghiaccio nel fiume.

Il tempo trascorre veloce e in pochi mesi un male violento e incurabile porta via Isabella. Per sfuggire al dolore immobilizzante in cui si chiudono il padre e la sorella Marta, Lorenza si mette sulle tracce del passato di sua madre, ne cerca brandelli di vita, prima attraverso le fotografie che Isabella aveva raccolto, poi attraverso il suo diario. La sua investigazione la porta a incontrare la nonna, che la sconvolge con le sue accuse a Isabella, di aver rovinato le loro vite mandando da loro quell’uomo, quel suo amico, ma no, dice rabbiosa, quel suo amante. Non nomina Margot, troppo grande il suo rancore, solo, conclude la conversazione osservando amara quanto siano deludenti i figli. Lorenza non si ferma, ritrova Margot. Ella è tornata dagli Stati Uniti, dove Arturo aveva vinto una cattedra universitaria e dove era nato il loro bambino, bellissimo, morto in pochi mesi per una malattia inesorabile. Dopo nulla era più stato lo stesso. Il dolore, che avevano creduto potesse unirli di più, aveva scavato un abisso fra loro, un abisso che aveva preso presto la forma dell’orrendo sospetto di Margot che sua madre avesse ragione, che Arturo avesse ucciso Eddy. Stretto da lei, Arturo aveva ammesso di averlo fatto. Il ragazzo lo avrebbe denunciato e lui non poteva accettare di essere vittima, non era solo la sua vita per la vita dell’altro, era la Giustizia contro coloro che in Europa avevano perseguitato, catturato, torturato, ucciso vecchi donne e bambini ebrei. Margot non aveva saputo accettare quelle spiegazioni, aveva rifiutato di ammettere che Eddy l’avrebbe davvero denunciato, aveva respinto definitivamente Arturo, non era la Giustizia in giuoco, aveva sostenuto, ma la Pietà e gli aveva lanciato contro una frase definitiva: “Non posso capirti. Io sono cattolica”.

Presto si erano separati, lei era tornata dagli Stati Uniti, in seguito lui aveva sposato una sua precedente amante francese, Marie, con la quale, prima di incontrare Margot, aveva salvato un bambino ebreo. Dopo il matrimonio, si erano trasferiti ad Haifa. Margot racconta alla nipote di aver sentito che per lei il tempo dell’amore era finito, finito il tempo di avere di fronte un uomo. Si era ritirata in Svizzera, in montagna e aveva acquistato la povera casa in cui la nipote l’ha trovata. Per mantenersi, fa tappeti e li colora, li vende ai turisti. Il suo aspetto adesso è quello di una montanara, solo qualcosa resta della ragazza bella e sensuale di un tempo, il modo di gettare indietro la testa mentre ride, le piccole mani sottili – ma quanto rugose adesso! – e le braccia snelle.

Nell’ultima parte del romanzo, il cerchio si chiude con una narrazione che non è chiaro se sia ricostruita ancora – ma come? – da Lorenza, o se sia la voce narrante di nuovo esterna e solo adesso onnisciente. Con un nuovo salto indietro nel tempo ci rivela che nel 1945, appena conclusa la guerra, già unito a Margot, Arturo era andato a Roma per incontrare Isabella, che ancora l’amava, che lui amava ancora, avevano fatto l’amore e a lei sola lui aveva detto il suo segreto: l’assassinio di Eddy, la sua difesa, la sua giustizia, non come vendetta, ma per il rifiuto di essere vittima, per rompere il destino di capro espiatorio del suo popolo. Proprio per raccontarle questa vicenda era tornato. Isabella si era stretta a lui e, “cercando di non soffrire”, aveva chiesto se Margot sapesse, quando lui aveva detto di aver taciuto – Margot non avrebbe potuto accettarlo – si erano trovati d’accordo. Presto si erano incontrati ancora, ancora uniti, ma non avevano fatto l’amore, come per una sottolineatura della fine della loro relazione, senza nostalgia, senza rimpianto.

In una parte di sé, ognuno di loro apparterrà per sempre all’altro, in uno spazio arcano e intangibile, oltre l’amore che forse Isabella ha sempre nutrito per Enrico, oltre l’amore che certo Arturo nutre per Margot.

E ancora la voce narrante compie un salto indietro, fino al primo incontro fra Isabella, giovanissima, e Margot, appena adolescente, col piccolo Eddy, condotto dal padre di Margot e di Eddy, a incontrare loro e la signora Arnitz. Il bambino, nel bere la sua cioccolata nel bar Hanselmann, con un gesto irrequieto, mentre non riusciva a staccare l’attenzione da Margot, aveva fatto cadere la tazza, sporcando i pantaloni, il pullover.  Le due ragazze lo avevano aiutato a pulirsi e per consolarlo Margot l’aveva stretto a sé e in quel momento Isabella aveva visto con chiarezza il colore identico del loro incarnato, del taglio degli occhi, la fronte eguale, appena bombata, uguali i piccoli denti bianchi e serrati. Un sùbito amore, dai confini difficili da definire, li aveva presi, un amore che, malgrado ancora nessuno potesse allora immaginarlo, avrebbe deciso un giorno il destino di entrambi.

Il romanzo narra, dunque, di due sorelle innamorate dello stesso uomo, ma innamorate di amori diversi: l’amore di accettazione e non giudicante di Isabella, l’amore di Margot, condizionato da una visione morale che porta al giudizio e alla condanna della differenza dell’altro. Un amore che giudica e un amore che non riesce a perdonare, un amore che dura per sempre e un amore che il giudizio uccide. Torna, forse in questa seconda rappresentazione, il problema che la cattolica Loy si pone anche nell’altro suo romanzo sulla shoah: quello dell’incapacità, diffusa tra i cattolici, di sentire la persecuzione degli ebrei come persecuzione dell’intera umanità, e la tendenza prolungata a non sentirsi toccati dal pericolo e dal dolore che ricadeva su quelle vite d’altri.

 




La ragazzina del Ghetto

Lo scialle andaluso, di Elsa Morante, raccoglie dodici racconti, scritti tra il 1935 e il 1963, alcuni già pubblicati prima dell’uscita del volume per i tipi di Einaudi, altri inediti, distesi dunque su un lungo periodo dell’esperienza umana e intellettuale dell’autrice. Sono storie che hanno in comune una fitta presenza di bambini, spesso protagonisti, magari anche voci narranti, e di adulti che conservano tratti fanciulleschi molto accentuati, ma alla cui età, o personalità, non corrisponde un’interpretazione del mondo immatura, o infantile nel senso che comunemente diamo al termine. Al contrario, questi personaggi hanno uno sguardo, insieme realistico e fantasioso sugli esseri e sugli eventi, che può arrivare fino alla visionarietà profetica, a volte a linguaggio antico, solenne e terribile.

È in particolare il caso, nel primo racconto, L’uomo dei lumi, il più antico della raccolta, ma pubblicato per la prima volta solo in essa. L’Io narrante, femminile, il cui nome resta ignoto, ci racconta situazioni e fatti di pressoché cinquant’anni prima, quando ella era una ragazzina di circa sei anni, ma la Narratrice ancora non sa se era poi proprio lei stessa l’Io di cui si ricorda, malgrado ormai, dopo più di cinquant’anni, dovrebbe ormai saperlo. E cosa? La misera, sudicia strada del Ghetto in cui abitava, con la madre, triste e violenta, col padre gobbo, con la sorella bella, grande, bella e distante, con la nonna sorda e avara, e in fondo alla strada il Ghetto con le vetrate colorate e le sue luci rosseggianti nella notte, e ricorda la sua paura del buio. Ma al centro del ricordo sono due antichi peccati: il primo, quello del custode del Tempio, Jusvin, bello e solenne come un angelo o un profeta, che aveva rubato l’olio alle lampade dei morti, lasciandoli in un buio che li rendeva inquieti, e che era stato punito dal Signore con la malattia il cui nome spaventoso, col rimando “alla feroce fauna marina e ai tropici africani”, lo aveva colpito sulla lingua, consumandolo rapidamente e facendolo morire tra urla senza parole. E subito la Narratrice aveva sentito la gente dire e lei stessa aveva compreso, che i sei figli di Jusvin, per sfamare i quali egli aveva peccato, erano definitivamente segnati dalla colpa paterna, privi anch’essi di giustificazione, bellissimi e laceri, esposti alla Vendetta.

Il secondo peccato era stato commesso dall’Io narrante stesso, poco dopo quello del custode del Tempio. Un giorno, suo padre le aveva dato una moneta perché la giuocasse al lotto. Distratta dalla vita intorno a lei, la piccola aveva perso il biglietto e l’aveva colta lo sgomento per la sua distrazione colpevole. Singhiozzando, aveva vagato in cerca del biglietto, frugando nella polvere delle strade misere e squallide, finché, giunta presso il Tempio, s’era addossata ai suoi muri mentre la notte scendeva. Piangeva la piccola, non poteva tornare a casa: il padre l’avrebbe picchiata, la madre, come sempre quando lei disubbidiva, l’avrebbe maledetta con solenni parole in ebraico, col viso sciupato rivolto verso il Tempio. E la Narratrice, ora anziana, con terrore rinnovato, ricorda ancora: di aver pensato di uscire dal Ghetto e andar via da tutto e morire, perché aveva peccato, come Jusvin aveva peccato, come Jusvin, che ora era in presenza del Signore e che non poteva parlare, non poteva giustificarsi, chiedere perdono. E stava muto davanti a Lui, il senza-forma, anch’egli muto, il cui silenzio diceva a Jusvin -Tu, ladro-. Ed ecco – il ricordo continua – i morti erano usciti dalle mura del Tempio, pallidi, muti, laceri, trascinando i piedi pesanti, alcuni ella aveva riconosciuto. Tutti tendevano le labbra come a chiedere acqua, brancolanti a cercare la luce, tolta loro dal guardiano infedele.  Risaliti sulla terra per ritrovarla, avevano scoperto che solo i vivi avrebbero potuto dargliela o togliergliela, questa la volontà del Dio silenzioso, che castiga i vivi e chiude i morti nella terra.

Così era il suo Dio, dice la Vecchia. E quella ragazzina forse era lei, o forse sua madre o forse sua nonna, poiché ella è nata e morta molte volte, e ogni nuovo inizio è un processo incerto. Eppure il passato non è finito: laggiù, nell’ombra, la ragazzina che, forse, lei è stata, ancora trema nella paura e nel dubbio, in un mondo e davanti a un Dio incomprensibili.

Ma, sua o di un’altra, la comprensione, o meglio, la rivelazione sul mondo ricevuta nella prima età è stata definitiva, non per una fissazione sull’infantile, bensì per la ‘visione’ che le è stata data del destino umano, tremendo in vita e in morte.




La madre di Alice

Col romanzo del 2016, Era mia madre, Iaia Caputo, nata a Napoli nel 1960, trapiantata a Milano, continua la narrazione e la riflessione sul mondo femminile e, sia pure qui lateralmente, su quello maschile e sui rapporti fra i due sessi, già intraprese con alcuni fra i suoi scritti precedenti, d’invenzione o d’indagine, come Di cosa parlano le donne quando parlano d’amore (2001), Dimmi ancora una parola (2006), Il silenzio degli uomini (2012). Ma l’operazione dell’ultimo romanzo è più articolata, pur concentrandosi particolarmente sui rapporti tra madri e figlie, non solo su quello della madre che Alice, l’io narrante, ballerina precaria di trentacinque anni, racconta, ricorda, scopre, ma anche su quello tra la nonna materna, Sinforosa, e la figlia, unica tra le figure del romanzo di cui non viene mai detto il nome, qualificata com’è dai suoi ruoli, quello di madre, innanzitutto, già presente nel titolo, ma anche quello di moglie, di intellettuale femminista, appassionata docente universitaria, amante, amica generosa e, si è detto, di figlia di Sinforosa: donna intelligente, sensibile, perspicace, saggia, che, poco scolarizzata, in più occasioni, mostra di aver provato qualche timore verso quella figlia tanto colta, connotata da tratti di severità nel carattere di intellettuale.

L’azione comincia a Parigi, dove Alice al momento vive. Ella accompagna la madre verso il treno che deve riportarla in Italia, a Napoli. La madre sorride nel guardare qualcosa che ha attratto la sua attenzione e cammina con la testa voltata verso quel qualcosa, quando cade e appare subito priva di conoscenza. In ospedale, Alice, che ha creduto a uno svenimento determinato dalla caduta, apprende con sgomento la diagnosi: una devastante emorragia cerebrale, dovuta a un aneurisma. Dopo poco più di due mesi, in seguito a un ulteriore peggioramento, accertata l’impossibilità di una ripresa, i medici consentono il trasferimento a Napoli in una struttura per lungodegenti. Nei sei mesi successivi, fino alla morte della madre, Alice vivrà nella casa dei genitori, dalla quale si era allontanata molto presto, e passerà da una scoperta all’altra, non solo su fatti, eventi, circostanze prima ignorati, ma su pensieri e sentimenti della madre. In questo percorso, che segna in realtà il passaggio da una adolescenza mai valicata all’entrata consapevole nell’età adulta, è determinante un fascio di lettere che la madre aveva scritto perché Alice le leggesse dopo la sua morte, ma che le vengono consegnate dal padre appena giunti a Napoli. Arturo è il padre che ella ha smesso di amare molti anni prima, in seguito alla delusione cocente del suo coinvolgimento in Tangentopoli, attraverso un importante ruolo politico da lui ricoperto, e per la vergogna della sua carcerazione, dopo la quale Alice aveva lasciato la famiglia per seguire una carriera estremamente precaria di ballerina.   

 Questo romanzo, in cui la madre viene rivelata attraverso le lettere, ma pure dalle parole di Sinforosa, da Arturo, nelle difficili conversazioni con la figlia, persino da un giovane e affascinante amante del quale in precedenza Alice nulla aveva saputo, è un percorso in cui Alice scopre inoltre se stessa, le motivazioni delle sue scelte, del suo distacco dai libri, così importanti per la madre, e per esprimersi rifugiarsi nel gesto, faticoso e non accompagnato da parole, della danza. Alice depone lentamente non solo il rancore per la strenua difesa che la madre aveva sempre fatto del padre circa lo scandalo che l’aveva coinvolto, ma pure il rancore per una presenza avvertita come ostacolo le che precludeva l’esclusività dell’amore materno. 

È questo, dunque, un romanzo di formazione. Nei mesi dolorosi di un distacco annunciato, Alice non solo ripercorre la sua vita, ma letteralmente la rifonda, getta cioè le basi per un amore nuovo, stabile, cui aveva in precedenza rinunciato per sfiducia nelle sue possibilità di essere amata e di amare. Il mondo materno, fatto di intellettualità, ma anche di cura della casa, della cucina, dei fiori, del marito, dei propri studenti, della figlia, quella cura per qualcosa da nutrire e far crescere, quel mondo che Alice non aveva prima compreso, che in parte aveva detestato, in parte aveva dato per scontato e definitivo, eterno, quella cura, la persona che quella cura offriva, stanno per andar via per sempre. Il vuoto che minaccia Alice le dà una vertigine che dura tutto il tempo della lunga, silenziosa agonia materna, ma nell’attesa Alice impara. Impara il nuovo corpo, sfiorito e senza forza alcuna, di sua madre, impara a prendersene cura, impara che la nonna Sinforosa, con cui ha condiviso da bambina lo svago e il sogno della danza, attraverso la visione comune di un’ingenua serie televisiva degli anni Ottanta, la nonna di poche scuole e nel cui linguaggio ha forte presenza il dialetto napoletano, è in realtà animata e sostenuta da una visione antica e sapiente del mondo, in cui l’amore per un uomo, da passione fugace e instabile della giovinezza, diviene bene profondo e paziente, come l’amore per la vita, della cui finitezza Sinforosa è ben consapevole, ma che crede vada vissuta andando avanti e avanti, un passo dopo l’altro, come se non dovesse mai finire. Se la conquista di Alice durante l’agonia della madre è soprattutto rilettura del passato e degli affetti, del senso e della costruzione del destino, è solo dopo la morte della madre che più decisa è la svolta nei fatti. Alice sente che il gelo del suo cuore verso il padre è ormai sciolto, che lo ama nuovamente, o è di nuovo consapevole di amarlo, smette di chiamarlo Arturo e di nuovo lo chiama papà, può accettare il nuovo lutto, quello dato dalla morte, annunciata per accenni, della nonna Sinforosa e dopo tre anni, è lei adesso che, come aveva fatto sua madre per tutta la vita, scrive. Ed è a sua madre che scrive e di sua madre, e adesso ha un figlio, lei che prima si era negata al desiderio della maternità. 

La pagina del libro che Alice sta scrivendo, e che troviamo quasi in fine del romanzo, è la stessa che aveva misteriosamente aperto il libro: la storia degli ultimi momenti di sua madre, prima di cadere priva di sensi nella stazione, narrati dalla madre stessa. Ora apprendiamo che è Alice a darle le parole per dire l’improvvisa consapevolezza, un istante “prima che si spegnesse la luce”, che l’immagine che ha in quel momento negli occhi, che l’allieta e la fa sorridere, sarà per lei l’ultima.   

                       

        




Vanda

L’importanza dei personaggi letterari non è definita dallo spazio che occupano nell’opera in cui compaiono, e ciò è immediatamente evidente, per esempio, riguardo all’azione di un romanzo in cui l’assassino appaia improvviso e inatteso sul finale, agisca e si dilegui immediatamente e per sempre. Spesso più sottile da cogliere per il lettore, e a volte, credo, persino per l’autore, è il peso simbolico, ma pure biografico, psicologico, delle creature che, di invenzione o realmente esistite, vivono tuttavia, per un breve tratto o anche solo per accenni, nelle narrazioni. È questo, mi sembra, il caso di un personaggio che viene intensamente, ma brevemente narrato, senza neppure citarne il nome, nella grande opera di esordio di Primo Levi, Se questo è un uomo, ma che, attraverso le notizie e le testimonianze sulla vita dell’autore, attraverso sparsi lacerti e tracce nelle sue opere successive, per accenni nelle interviste dei giorni che precedettero immediatamente la sua tragica morte, e per altre testimonianze, sappiamo essere Vanda Maestro, donna fondamentale nella vita di Primo Levi.

Vanda Maestro, di famiglia ebraica, nacque nel 1919 a Torino, dove suo padre, Cesare, di Trieste, si era trasferito e dove, con la moglie Clelia Colombo, gestiva un negozio. Conseguita la maturità classica a Torino, Vanda si laureò in chimica a Genova nel 1942. A Torino, nella Biblioteca della scuola ebraica, presso il Tempio in via Sant’Anselmo, già da qualche anno aveva stretto amicizia con alcuni coetanei con cui condivideva l’intellettualità, l’antifascismo e l’amore per la montagna, fra questi vi erano Primo Levi, Luciana Nissim, Franco Momigliano, Ada della Torre, Emanuele Artom, Eugenio Gentili Tedeschi, Bianca Guidetti Serra e altri ancora che non furono risparmiati dalle leggi razziali. A partire dal 1942, mentre gli eventi precipitavano, una parte del gruppo si trasferì a Milano, ma continuò a incontrarsi in casa di Ada della Torre. Dopo l’8 settembre, Vanda, Luciana Nissim, Primo Levi con pochi altri amici costituirono una minuscola banda partigiana presso Amay. Arrestati il 13 dicembre 1943, dopo due mesi di carcere ad Aosta, furono portati a Fossoli, dove riuscirono a restare insieme e si riunì a loro anche Franco Sacerdoti, ebreo napoletano, che aveva lavorato a Torino entrando nel gruppo degli amici della Biblioteca, anch’egli salito in montagna, ma con un altro gruppo, e poi catturato. Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”. Dopo un mese a Fossoli, ancora insieme i quattro amici vengono deportati ad Auschwitz-Birkenau. Dopo atroci vicende, Primo e Luciana sarebbero tornati a casa, Franco sarebbe stato fucilato durante una “marcia della morte”, Vanda inviata alle camere a gas nell’autunno del ‘44. 

Poche le parole a lei dedicate in Se questo è un uomo. I prigionieri sono ammassati nei vagoni che li portano verso una destinazione ignota, fra questi Primo e i suoi amici, che non sanno illudersi sula tragicità di quanto sta per succedere. ”Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stato per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura.” 

I due corpi serrati, in una intimità tremenda eppure ancora dolce e confortante, poi l’ora estrema della decisione. Cosa resta da decidere a coloro che erano già destituiti di scelta?, a loro indotti a dirsi cose che i vivi non si dicono? Decidere, forse, se restare umani, decidere se piegarsi o continuare una ostinata, disperata resistenza, ancora più disarmata, ancora più invisibile. Mentre salutano uno nell’altro la vita, cioè il desiderio, l’amore e il futuro, privi di paura, come chi non spera più, loro, le vittime innocenti, sono più vive e vitali dei carnefici. Eppure, Levi lo sa, qualcosa muore allora per sempre in loro. Muore la giovinezza, muore l’illusione antica sull’uomo. Dopo la shoah, per molti muoiono l’arte e la filosofia, muore Dio. Tuttavia, Levi continuerà a vivere e a testimoniare, continuerà a credere che l’uomo può educarsi a fare il bene, e Vanda tornerà ancora nei suoi scritti. Nel 1953, nell’articolo “Testimonianza di un compagno di prigionia”, ritrovato e attribuitogli con certezza da Giovanni Falaschi dal 2001, Levi scrive: “Chi da Birkenau è tornato, ci ha raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di rifiutare i penosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli, le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena lucidità!) verso la camera a gas ed il forno di cremazione”; e ne La tregua riporta la testimonianza di Olga, una compagna di prigionia di Vanda “Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate”. Ne Il sistema periodico, del 1975, fa il suo nome narrando la storia del piccolo, ingenuo gruppo partigiano in cui erano insieme: […] i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti”. 

E certo ancora pensando a Vanda, aveva scritto il 9 gennaio 1946 la poesia 25 febbraio 1944, data della sua entrata a Monowitz) pubblicata poi nella raccolta Ad ora incerta, uscita nel 1984:

Vorrei credere qualcosa oltre,

Oltre la morte che ti ha disfatta.

Vorrei poter dire la forza

Con cui desiderammo allora,

Noi già sommersi,

Di potere ancora una volta insieme

Camminare liberi sotto il sole.

Tornerà ancora Vanda, come un dolore, come un tormentoso rimorso degli ultimi giorni, dolore e rimorso confidati, tra molte reticenze a Giovanni Tesio (si veda per questo l’articolo di G.Falaschi, su “Doppiozero” dell’8 aprile 2016).  

Potremmo chiederci se si può parlare di Vanda come “personaggio letterario”. La materia è storia, atroce e vera. Ma, dal canto suo la letteratura non è finzione, bensì universalizzazione e resa esemplare della vita.     

Anche Luciana Nissim ci racconterà della prigionia di Vanda ad Auschwitz, vissuta con lei in larga parte, ma non fino in fondo, prima in una testimonianza del 1946 e poi più diffusamente nel suo tardo libro di memorie Ricordi della casa dei morti e altri scritti, del 2008, in cui si spingerà a parlare anche dei sentimenti di Primo per Vanda, ma è una storia diversa che sarà utile, doloroso e necessario, raccontare in un’altra occasione.




La partigiana Agnese

Scrittrice precocissima, Renata Viganò, classe 1900, aveva partecipato alla Resistenza da staffetta partigiana e infermiera, ma pure come collaboratrice della stampa clandestina, insieme al marito Antonio Melluschi, anch’egli giornalista e scrittore. Per Viganò, il successo, non duraturo (oggi è poco letta e di lei di rado ci si ricorda) ma significativo, giunse col primo e più riuscito tra i suoi scritti sulle vicende resistenziali, il romanzo che nel titolo, a un tempo, indica la protagonista e ci fa dolorosamente certi della sua sorte, L’Agnese va a morire. Pubblicato nel 1949, conquistò il secondo posto al Premio Viareggio di quell’anno e fu riconosciuto come un frutto maturo del Neorealismo, e vibrante, luminosa testimonianza della lotta partigiana, degli ideali che l’avevano ispirata, della generosità e dell’abnegazione al bene comune delle donne e degli uomini che insieme l’avevano sostenuta, spesso fino a sacrificare la vita stessa per la libertà e la pace che avevano così donato agli altri senza poterne essi stessi godere. Nel 1976, Giuliano Montaldo dal romanzo trasse un film col titolo omonimo (foto di copertina).

Valli di Comacchio, dopo il 25 luglio del 1943. Agnese, donna in età più che matura, fa la lavandaia. È forte e lavora duramente per mantenere se stessa e il marito, Palita, di salute cagionevole, che sta a casa e intreccia vimini da cui ricava ceste. Sono insieme da tanto tempo e si vogliono un bene profondo e sereno, lui sembra più giovane di lei, che lo protegge con un affetto che è anche di madre. Non hanno figli e quando Palita attende Agnese gli fa compagnia una gatta nera, affettuosa e dolce, che fa le fusa tutto il giorno. Un giorno, un soldato italiano che cerca di tornare a casa, dopo la rotta dell’esercito, chiede loro aiuto. Agnese e Palita gli danno da sfamarsi e lo fanno dormire a casa loro per una notte. Ma i tedeschi sono sempre allerta e hanno informatori, fra i quali i vicini di casa di Agnese, marito, moglie e due ragazze che si accompagnano ai fascisti e ai soldati tedeschi in cambio di cibo e di denaro. Avvertita, Agnese riesce a far fuggire il soldato, ma Palita insieme a molti altri uomini viene portato via dai tedeschi. Da subito Agnese non vuole illudersi e si dice che il marito non tornerà. Quando poco dopo arrivano lettere dai rastrellati, Agnese non riceve nulla. Ha sempre disprezzato i fascisti e odia i tedeschi, ma la sua consapevolezza del male di cui essi sono portatori si fa sempre più lucida, più vigile. Appena andato via Palita, i partigiani compagni di Palita vanno a trovarla, le dicono quanto loro fosse prezioso per loro. Da quel momento Agnese entra a far parte del loro gruppo e viene impegnata dal Comandante in operazioni di staffetta. Col suo corpo grosso e pesante, ma forte e resistente, percorre decine e decine di chilometri al giorno in bicicletta, portando ordini, armi, materiali esplosivi per le azioni partigiane. Di giorno Agnese, umile, inconsapevole del proprio coraggio, che i partigiani apprezzano silenziosamente, compie azioni sempre più impegnative, con modestia, quasi timorosa, stupita e imbarazzata da se stessa, dà consigli e propone soluzioni, che vengono sempre accolte. Di notte sogna Palita, che la incoraggia, la rassicura. Palita sta bene, è contento di lei. Le si siede vicino e le parla. Agnese non crede ch’egli viva in una dimensione in cui potranno rivedersi, non pensa che mai si ricongiungeranno, ma trae conforto da quei sogni ed è felice solo quando il sonno giunge con la sua pace e coi sogni. Smette di fare la lavandaia, per se stessa ha a sufficienza da vivere e non vuole lavorare per i tedeschi, lavare i loro panni; quando dal comando la chiamano per offrirle lavoro, si dice ammalata. Dopo alcuni mesi, il giovane figlio di un compaesano, deportato con Palita, riuscito a fuggire, raggiunge la casa di Agnese, racconta il loro trasporto su un treno merci per la Germania insieme a prigionieri ebrei, durante il quale Palita, subito ammalatosi, è morto. La notizia sconvolge Agnese, che comprende di aver segretamente sperato che malgrado tutto il marito si sarebbe salvato. Quando un soldato tedesco uccide la sua gatta, che Palita le aveva affidato mentre lo portavano via, e poi ubriaco si addormenta nella cucina di Agnese, ella, col calcio del mitra di lui, gli fracassa la testa, poi abbandona la sua casa, che vede da lontano bruciare, sente le urla dei tedeschi, grida di donne (saprà poi che i tedeschi hanno ucciso i suoi vicini per ritorsione). Attraversa le paludi e raggiunge i partigiani, che l’accolgono come una madre e lei da madre comincia a prendersene cura, preparando cibo e dando loro come un’idea di famiglia recuperata con la sua presenza forte e silenziosa; prosegue tuttavia e anzi via via incrementa la sua lotta partigiana attiva. Tra sofferenze, pericoli, azioni in cui rischia continuamente la vita e in cui muoiono tanti che ormai le sono carissimi, Agnese continua in realtà un nuovo percorso di appropriazione del mondo iniziato dalla deportazione di Palita. Comprende nuove cose, i pensieri in lei si fanno più facili e fluidi, pensa al futuro che con i suoi compagni sta costruendo, un futuro che forse lei e altri non vedranno, ma che altri ancora resteranno a ricordare, quando la libertà sarà arrivata. E, mentre con la lana che ha filato prepara calze ai “ragazzi”, pensa, ricorda i pranzi domenicali sereni e silenziosi con Palita. Adesso avrebbe da dirgli tante cose, adesso potrebbero parlare di tutte le domande senza risposta che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi. Perché alcuni hanno le cose, la sicurezza della vita, la protezione e altri poco o nulla? Ora capisce. Capisce che i ricchi vogliono tutto e lo tolgono agli altri e capisce che i fascisti li sostengono nella loro prepotenza, Capisce che cosa intendevano tanti uomini e tante donne che non avevano paura e che dicevano che le cose andavano cambiate e che doveva esserci pane per tutti e non solo pane, ma anche il resto, poter divertirsi ed essere contenti. E Agnese lavora le calze e pensa ai ricchi per i quali lavava i panni che la tenevano sull’uscio della porta, al timore di sbagliare, di fare o dire qualcosa che li irritasse, che li spingesse a non darle il lavoro, a toglierle il pane. E pensa ai compagni “gente istruita, che capisce, e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: – Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa? E prima di andar via dice: – Buona notte e buon Natale, mamma Agnese. Questo era il partito e valeva la pena di farsi ammazzare”.

La lotta partigiana continua, mentre gli Alleati si muovono con troppa lentezza; più volte nel romanzo viene sottolineata anche l’irragionevolezza, l’inutilità di certe azioni. Agnese ha avuto una radio dai compagni e ascolta le notizie sui diversi fronti, il grande avanzamento a est del fronte, le incertezze a ovest. Ma poi arriva la svolta. Anche a ovest si procede più veloci, forse non ci sarà un altro inverno di guerra. E i tedeschi si fanno più feroci. La paura e la morte che li incalzano li rendono più violenti e spietati, un’azione terribile stermina quasi tutto il gruppo partigiano di Agnese. Lei e pochi altri sono rimasti, ma altri compagni arrivano, di partigiani più ne muoiono e più ne arrivano, dice Agnese. Le azioni dei tedeschi e dei fascisti si fanno più spietate e quando viene rubato un camion tedesco tutti quelli che si trovano sulla strada vicina al furto vengono sequestrati per alcune ore in un grande stanzone. Agnese è fra loro. C’è chi piange, una donna dice che la colpa è di chi provoca i tedeschi, che altrimenti non sarebbero cattivi. Agnese le ricorda aspramente i morti che hanno fatto in paese, le case distrutte, ma ancora la donna inveisce contro i “ribelli”, è a causa loro che i tedeschi reagiscono contro la popolazione. Agnese ripensa ai compagni perduti, li rivede, “compagni, partigiani, combattenti non ‘ribelli’” e interviene e grossa, alta, severa, incombe sulla donna. Un uomo le si avvicina, la riconosce, le fa un cenno d’intesa, le fa segno di lasciar stare la miserabile. Agnese si scosta, si allontana fra due file d’occhi che la guardano fisso. Poi si volta, dice che il momento della paga è vicino. Ai tedeschi non resta più nulla. Anzi, gli resta la paura. Passa ancora tempo. Poi la porta dello stanzone si spalanca, la gente viene fatta uscire, tutti corrono, si affollano, Agnese va verso l’uscita, pensa che anche stavolta non si muore, esce e un volto le si fa incontro, deformato da un urlo: è il soldato che credeva di aver ucciso in casa sua. Anche il maresciallo la riconosce, le dà due ceffoni furibondi. Poi le spara quattro colpi, negli occhi, sulla bocca, nella fronte. Tutti fuggono urlando. Il maresciallo sorride. “L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve.” Quasi lo stesso Viganò scrive della gatta nera di Palita, quando il soldato tedesco l’ammazza col mitra: “Sembrò uno straccio nero buttato via”. Ma ci accompagna, dopo la lettura, il senso dell’umile grandezza di Agnese, la lavandaia che si fa partigiana, che non ha mai paura per sé, ma teme e lotta per quelli che ama e per quelli che difende, un intero popolo, che donne e uomini come lei, sconosciuti ai più, hanno liberato.

Foto. Ferrara, foto di Maria Pia Ercolini

È questo un romanzo importante, fra i primi a uscire sulla lotta resistenziale, tra i pochi a narrare la Resistenza dagli occhi di una donna.

Su questa linea Viganò, occorre ricordarlo, scrive anche Donne della Resistenza, che esce nel 1955, la storia di ventotto partigiane, cadute nella lotta antifascista.