Rita Atria, testimone di giusizia

Fra le figure di donne Giuste segnalate dalle scuole nell’ambito della quarta edizione del concorso nazionale “Sulle vie della parità”, la più giovane delle venti selezionate dalla giuria è Rita Atria, appartenente alla categoria delle donne che si sono ribellate alla mafia, hanno lottato contro l’organizzazione e la mentalità mafiosa, hanno rischiato e spesso perso la vita, solo apparentemente sconfitte, in realtà vittoriose contro l’indifferenza, l’omertà e la paura.

Rita Atria, testimone di giustizia, è stata indicata da tre scuole diverse: l’IIS Vaccarini di Catania, l’ITE Bassi e il Liceo Vegio di Lodi; anch’essa è stata poi posizionata, il 10 marzo 2017, all’interno del Viale delle Giuste nella Libera Università di Alcatraz.

Foto 1. Il pannello dedicato a Rita Atria nella Libera Università di Alcatraz

Rita ha 17 anni quando la sua coscienza le impone di denunciare il sistema mafioso che soffoca il territorio di Agrigento, nella cui provincia (Partanna), era nata nel 1974. Aveva solo undici anni quando suo padre, Don Vito, un boss il cui compito consisteva nel mantenere “la pace” fra i vari clan locali, era stato ucciso in un agguato. Dopo sei anni era venuta la volta di suo fratello, Nicola, a cui Rita era molto legata. Dal fratello, “pesce piccolo”, che girava sempre armato e con una grossa moto, aveva appreso importanti informazioni relative agli affari criminali del paese: Rita scrive tutto ciò che sa e che le accade sul suo diario, col quale si sfoga e parla di una vita che non le piace. In quell’ambiente malavitoso, era stata allora sua cognata, Piera Aiello, ad aprire la strada della ribellione e a decidere di mettersi dalla parte della giustizia, denunciando alla polizia gli assassini che aveva visto con i suoi occhi. Grazie alle sue rivelazioni, vennero arrestati diversi mafiosi.

La scelta della denuncia comporta per Rita una terribile solitudine. In quel mondo è ritenuta un’infame, tutti l’abbandonano, anche sua madre, che le ripete: “Rita, non t’immischiare, non fare fesserie”. Quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione, non le perdonava di aver “tradito” l’onore della famiglia. L’abbandona anche il fidanzatino, Calogero, un giovane del suo paese, troppo spaventato per poter rimanere legato a chi vuole scontrarsi con i capi mafia. Ma lei non desiste.

Dopo l’incontro con il giudice Paolo Borsellino, che all’epoca era procuratore di Marsala, nel suo animo fiorisce la speranza che la giustizia possa fare il suo corso. Si fida di quell’uomo che diventa per lei come un padre. Gli rivela particolari che tra l’altro consentono di avviare un’indagine sul sindaco di Partanna, Vincenzino Culicchia, esponente della Democrazia Cristiana.

Rita Atria si trasferisce a Roma con la cognata, sotto protezione, ma quando nell’estate del 1992 apprende la notizia dell’assassinio di Paolo Borsellino, in preda alla disperazione si lancia nel vuoto dal settimo piano del palazzo di viale Amelia, in cui viveva in clandestinità, sotto falso nome. Dopo la sua morte viene considerata come una “fimmina dalla lingua longa e amica degli sbirri” e per questo al suo funerale non si presenta nessuno, nemmeno la madre, che l’aveva già ripudiata in vita, e che distruggerà, mesi dopo, a colpi di martello il marmo tombale e la fotografia della figlia. Per 20 anni la sua tomba è rimasta in stato di abbandono.

Foto 2. Intitolazione a Roma. Foto di Barbara Belotti

Le classi hanno riconosciuto in Rita una Giusta, una giovane donna libera, che ha la legge morale dentro di sé e la fa valere ovunque, contro uomini e donne che vogliono spegnere la dignità e la gioia di vivere liberi. È stata vista come un’eroina per la sua capacità di rinunciare a tutto, persino all’affetto della madre. Hanno scritto: “È dovere di tutti noi ricordare la figura di Rita, noi che viviamo in un Paese dove la mentalità omertosa la fa ancora da padrona.”

A lei sono stati dedicati tanti libri, spettacoli teatrali e film. A lei sono state dedicate tante vie e beni confiscati alla mafia, come per esempio il capannone di Calendasco, in provincia di Piacenza, inaugurato il 12 maggio 2018 alla presenza di Enza Rando per l’associazione Libera e don Luigi Ciotti, che di lei ricordò queste parole: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta».

Foto 3. Intitolazione a Pontefelcino (PG). Foto di Paola Spinelli




Da Trani a Fasano: Maria Teresa Stella e le altre

Il 4 giugno 2011 l’Amministrazione comunale di Fasano (BR), nei festeggiamenti del 150° dell’Unità d’Italia, scopre la targa in marmo di notevoli dimensioni, in memoria di Anna Teresa Stella, eroina fasanese:

Il 27 aprile 1799 qui cadde barbaramente assassinata dalla canaglia reazionaria borbonica

Anna Teresa Stella

creatura eccelsa glorioso vessillo di libertà e giustizia sociale

1. Fasano. Targa in memoria di Anna Teresa Stella

Anna Teresa Stella, originaria di Trani, diventa cittadina di Fasano dopo il matrimonio con il possidente fasanese Lorenzo Goffredi: da Trani a Fasano sono solo 100 chilometri ed entrambe le cittadine si affacciano sul mare Adriatico. 

Per capire cosa sia successo e il perché di questa dedica così particolare bisogna andare indietro nel tempo. 

Siamo nel 1799. Il 21 gennaio, a Napoli capitale del Regno, viene dichiarata la Repubblica napoletana. Re Ferdinando e Regina Carolina sono già fuggiti a Palermo il mese prima con il tesoro della corona, e a Napoli viene piantato dalle truppe francesi l’albero della libertà con la sua portata di idee giacobine. Per diffondere i nuovi ideali repubblicani e gli avvenimenti del nuovo corso esce, il 2 febbraio, il primo numero del “Monitore Napoletano”, periodico bisettimanale, di cui è direttrice Eleonora De Fonseca Pimentel, patriota, politica e giornalista.

Nel contempo, a Fasano, Anna Teresa, di idee repubblicane si distingue per leggere in pubblico le lettere dei liberali napoletani. Le legge in piazza, nel luogo dove è stata posta la targa, la stessa piazza che prenderà il nome di Ignazio Ciaia, anche lui fasanese, anche lui patriota, che fu membro nel primo governo provvisorio repubblicano del 1799.

Anna Teresa, con le letture pubbliche, anima la lotta per la libertà, la fraternità, l’uguaglianza, argomenti rivolti più alle persone colte con alti ideali che al popolo contadino, sempre più spremuto, non da ultimo, proprio dalle truppe francesi che pretendono quanto necessita al loro sostentamento. Non si tratta solo di cibo: le truppe si lasciano andare a saccheggi quale “incasso” per la loro prestazione di guerra. D’altronde, Bonaparte per primo ha spogliato palazzi, ville, conventi di opere d’arte, stature, obelischi e pezzi di pareti affrescate che hanno preso la strada di Parigi durante le campagne d’Italia.

I francesi, dunque, sono sì portatori di un nuovo modo di pensare, ma anche di vecchi comportamenti predatori. Quando partono e viene meno un presidio armato in difesa delle nuove idee, Anna Teresa viene catturata e imprigionata. È vedova, e questo molto probabilmente fa la differenza per la crudeltà usatale. Con il consenso delle autorità, il 27 aprile 1799 un gruppo di popolani a lei ostili, aizzati da un giacobino rinnegato, Cataldo De Santis, la preleva dalla cella, la espone alla berlina su di un asino. Viene ripetutamente frustata e poi fucilata nel luogo dove leggeva le lettere. Come se non bastasse, viene decapitata con un coltellaccio. Il cadavere, trascinato per le strade, è fatto selvaggiamente a pezzi e sparso, come monito ai cittadini di idee liberali. 

Il tutto sotto alla statua della Madonna del Pozzo.

È così che a distanza di 212 anni, il Comune di Fasano onora ancora una volta la concittadina che a pieno titolo dovrebbe essere inserita nei testi di storia adottati nelle scuole, insieme a tanti patrioti e patriote che hanno lottato per l’unità d’Italia. 

Anna Teresa Stella ha una strada dedicata sia a Fasano che a Trani (foto di copertina). 

2. Fasano. Via Stella

Nello stradario di quest’ultima cittadina sono presenti tre strade intitolate a donne collegate all’azione predatoria delle truppe francesi e agli avvenimenti del 1° aprile 1799.

Negli anni 1940-1950, il Comune intitola queste tre strade che da via Statuti Marittimi, al porto, vanno verso il centro per ricordare nella toponomastica tranese alcuni nomi di eroine protagoniste di vari episodi luminosi di dignità e sacrificio verificatisi durante i tragici avvenimenti del 1799, quando le truppe francesi comandate dal generale Broussier misero Trani a ferro e fuoco, portando morte e danni ingenti. 

Si tratta di via Felicia Nigretti, vico Maria Ciardi e via Vincenza Fabiano: tre donne che nella loro possibilità di scelta, se così si può dire, tra l’essere preda dei soldati o il sottrarsi all’aggressione a tutti i costi, hanno optato per quest’ultima, gettandosi nelle acque del porto, in un pozzo o in una cisterna trovandovi la morte.

3. Trani. Vico Maria Ciardi

Un’altra intitolazione toponomastica attira l’attenzione, stavolta a Molfetta: via Rosa Picca. Siamo duecentosettanta anni prima del 1799 di Trani, ma troviamo ancora i soldati francesi in azione.

Rosa Picca ha anche una targa a suo nome, posta dal Municipio: A Rosa Picca, che nel sacco di Molfetta presa d’assalto da’ francesi a 18 luglio del 1529 fuggì la violenza d’un soldato precipitandosi volontaria dal tetto di sua casa, il Municipio pose questa memoria nel 1890 per onorare il nome dell’eroica donna a cui più della vita fu cara la pudicizia.

Una storia, forse, come tante altre che la Puglia, però, non ha voluto dimenticare.

4. Molfetta. Via Rosa Picca




Cristina di Francia, duchessa Savoia, prima Madama Reale

Figlia di Enrico IV re di Francia, la fecero sposare al principe ereditario e futuro duca di Savoia Vittorio Amedeo I per rafforzare il rapporto con lo stato a cavallo delle Alpi in funzione antispagnola. Era il 10 febbraio del 1619 e Cristina, sposa bambina, compiva in quel giorno tredici anni. Suo marito ne aveva quasi venti di più.

Nell’austera reggia di Torino le giornate della giovane principessa, abituata alla brillante vita di corte parigina, non dovevano essere troppo allegre. Anche perché tanto era vivace e amante della bella vita lei, quanto taciturno e poco socievole appariva Vittorio Amedeo, che alle feste preferiva la caccia e le passeggiate solitarie ed era di costumi sobri. Eppure, ironia della sorte, fu proprio una sontuosa cena offertagli da un diplomatico francese, il duca di Créquy, a costargli la vita. Probabilmente fu vittima di un’intossicazione alimentare: tutte le persone invitate al banchetto si sentirono male, ma il duca ne morì.

Cristina, che aveva messo al mondo quattro femmine e due maschi, divenne reggente in attesa che i figlioli raggiungessero la maggiore età. Bella, intelligente e intraprendente, Madama Reale  – per sottolineare la propria stirpe regale volle per sé questo titolo, che in seguito fu attribuito anche a un’altra duchessa di Savoia, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours  – si ritrova non ancora trentenne finalmente libera di vivere a modo suo: a corte si mormora che si circondi di amanti e si sia scelta un favorito, il conte Filippo di Agliè, bello, colto e ardimentoso e consigliere di fiducia della duchessa. I due si conoscono dai tempi in cui la famiglia ducale, per sfuggire alla peste, era rifugiata a Cherasco, nel Cuneese, e da allora sono molto amici. I soliti ben informati sostengono che addirittura sarebbe Filippo il vero padre dell’erede al trono. Ma Cristina non è tipo da farsi troppo spaventare dal gossip, tanto più che al potere prende gusto e si rivela una politica di razza, destreggiandosi abilmente tra minacce di ogni tipo. I cognati cercano di strapparle la reggenza, mentre il Cardinal Richélieu, alleato pericoloso, mira ad annettere il piccolo stato dei Savoia alla corona francese. Energica, duttile e astuta, la reggente riesce a liberarsi dei suoi nemici interni e a conservare l’indipendenza del ducato sfruttando a proprio vantaggio la rivalità tra la Francia e la Spagna. Anche quando il figlio superstite assume formalmente il potere, nel 1648, Cristina continua a occuparsi della corrispondenza ufficiale, a ricevere gli ambasciatori, e fino alla morte mantiene nelle proprie mani le redini dello Stato.

Foto 1. Ritratto di Madama Cristina

Non aveva ancora sessant’anni quando morì, e da qualche tempo una conversione religiosa aveva cambiato radicalmente la sua vita: era arrivata a seguire quindici messe al giorno, sottoponendosi anche a penitenze crudeli. La bella donna dal sorriso seducente che i pittori del tempo avevano raffigurato in abiti sontuosi, ornata dei gioielli che tanto amava, ci guarda dall’ultimo ritratto con occhi spenti e malinconici, racchiusa in neri panni penitenziali. Venne sepolta vestita con il saio monacale nella chiesa di Santa Cristina, che lei stessa aveva fatto costruire nell’odierna piazza San Carlo per affidarla alle Carmelitane scalze.

Questo non bastò a evitarle critiche feroci da parte degli storiografi, che non le perdonarono l’ambizione e la libertà di costumi e criticarono il suo programma di spese, considerate eccessive. Eppure Torino conserva ancor oggi non pochi segni del buon gusto della prima Madama Reale, che trasformò la sua città in una elegante e moderna capitale europea.

Foto 2. Ritratto e intitolazione di una via centrale a Torino

In copertina. La piazza torinese

 




Sulle strade genovesi. Il fascino della storia e il bisogno di realtà

Di Francesca Di Caprio Francia

La toponomastica genovese rappresenta non solo un accumulo di memorie passate, ma anche un’operazione culturale di recupero storico realizzata dalla Giunta Municipale poco dopo l’Unità d’Italia. Determinante fu, in tale circostanza, l’apporto di un erudito, Giuseppe Banchero (1815-1874), che esercitava allora l’incarico di funzionario del catasto (catastaro), i cui ideali patriottici chiariscono molte sue scelte. Lo spirito con cui lo studioso propose le nuove denominazioni, infatti, si basava sul recupero di memorie e glorie municipali, in un’ottica di patria esaltazione e di glorificazione di miti nazionali.

Si spiegano così il gran numero di cognomi di antiche famiglie nobiliari, i nomi delle colonie d’oltremare e delle battaglie vinte dai Genovesi, i molti termini legati alle recenti vicende risorgimentali. Banchero creò dunque quel complesso toponomastico di indubbio fascino che ancor oggi dà l’impressione, a chi lo percorre, di attraversare pagine di storia.

Infine, con la proclamazione della Repubblica, si decise di valorizzare episodi e figure della Resistenza e negli ultimi cinquant’anni si incrementò la serie commemorativa, anche con nomi stranieri, di filosofi, poeti, cantautori… il che talvolta induce a proporre personaggi semi-sconosciuti. Sta di fatto che si è andato via via costruendo un immaginario collettivo abitato solo da uomini e, d’altra parte, a mio parere, è forse meglio così piuttosto di vederlo soffocato da anonimi numeri come in uso nelle città d’oltre oceano. Sono però fiduciosa che le cose, con il tempo e la buona volontà, possano e debbano migliorare. È stato così? 

Passeggiando per Genova ci si accorge subito che le strade intitolate alle donne sono ben poche, anche se rimarco la difficoltà di fare calcoli esatti per vari motivi, quali l’uso di riportare negli elenchi cittadini il cognome privo del nome o con la sola iniziale, collocare lo stesso nome sotto lettere alfabetiche diverse (es. Santa Chiara e Chiara Beata); inoltre i nomi di famiglie patrizie possono riferirsi a diverse persone anche femminili (es. via Brignole De Ferrari ricorda le due benefiche famiglie imparentate con il matrimonio di Maria Brignole Sale e Raffaele De Ferrari), alcune strade sono scomparse o sono nuove oppure mutate nell’intitolazione (l’attuale piazza Giacomo Matteotti già piazza della Signoria, poi piazza Nuova, in seguito Umberto I e infine Ettore Muti), per concludere sorridendo con piazza Battistina Rivara a Rivarolo che è invece intitolata… a un uomo, il fondatore del locale asilo, appunto Battistino Rivara!

Nel libro Genova risorgimentale di Leo Morabito risultano inserite solo una decina di donne, incluse quelle ricordate non per la dedica di una via ma per la casa dove vissero, come Bianca Milesi Mojon con abitazione in via Balbi, o Teresina Schenone con bottega in via XXV Aprile.

Nella recente Guida alla toponomastica risorgimentale curata da Nicolò Bonacasa, l’autore presenta, tra gli oltre cento personaggi elencati ai quali Genova ha dedicato una via o una piazza, solo sei donne (Carolina Benettini, Adelaide Bono Cairoli, Anita Garibaldi, Antonietta Mazzini Massuccone, Giuditta Tavani) mentre Maria Drago Mazzini è ricordata con un busto in bronzo e la dedica di una scuola.

Tre sole tra le tante donne presentate nel mio ultimo libro, risultano elencate in uno Stradario di Genova: Santa Limbania, Santa Caterina Fieschi Adorno e Virginia Centurione Braccelli.

Se si considerano esatti i dati forniti dal Comune di Genova esistono a Genova 3800 strade/vie/piazze ecc. delle quali 1507 intitolate a uomini e 136 a donne con il significativo rapporto del 39% di maschi contro il 3% di donne!

Quaranta risultano dedicate alla Madonna e quarantadue a sante e beate, di preferenza scalinate e salite forse con intento figurativo e simbolico; sarebbe bello che analoga finalità suggerisse anche di ricordare, ad esempio, maestre di vita, educatrici, donne impegnate nel sociale che sicuramente hanno indicato la via a molte generazioni.

Tralascio i numerosi altri esempi di sessismo maschilista nella toponomastica perché mi sembra più utile essere propositiva con possibili iniziative, qualcuna già attuata.

È noto che le storie delle donne sono spesso storie frammentarie, storie dimenticate o addirittura rimosse o cancellate: ebbene, per rompere questo velo che le avvolge, si potrebbero raccogliere biografie femminili che possano ispirare ed essere d’esempio; a tal fine si potrebbe anche proporre un concorso, e non solo per scuole – come già fa l‘associazione Toponomastica femminile con il concorso didattico Sulle vie della parità, patrocinato da istituzioni nazionali e giunto ormai alla sua sesta edizione – mirato a individuare e proporre nuovi nomi.

Incontri, conferenze attive, gruppetti di lavoro potrebbero svegliare da una sonnacchiosa indifferenza tante donne facendo loro conoscere, o presentando loro stesse, azioni e opere di semplici donne benemerite, frutto di fatica, ingegno, talento, solidarietà: esse propongono un nuovo modo di stare insieme, un modo che tenga conto della diversità femminile e delle proprie attitudini.

Al Convegno nazionale, indetto annualmente da “Toponomastica femminile”, si potrebbe aggiungerne un incontro a carattere regionale o locale; mostre fotografiche, anche itineranti, sul lavoro delle donne nel passato e nel presente; un premio che valorizzi la loro creatività espressa attraverso la rete lodando accuratezza e approfondimento dell’informazione; dopo Roma, Terni, Palermo, Versilia, Pistoia, Albano Laziale, Valdinievole (già realizzati direttamente dalle associate a Toponomastica femminile o con un loro diretto contributo),  nuovi itinerari lungo i luoghi che mantengono ricordi e tracce di donne protagoniste (il nostro centro storico con i suoi immediati dintorni ne è particolarmente ricco); dialogo aperto con le Amministrazioni per proporre e sostenere nuove intitolazioni… Queste e tante altre iniziative di toponomastica femminile possono essere proposte poiché in continuo divenire in quanto si arricchiscono di volta in volta con ulteriori progetti, suggerimenti, spunti, collegamenti, tenendo ben presente che la quantità non vada a scapito della qualità. E non si venga a dire che non ci sono donne genovesi, di ieri o di oggi, cui dedicare una via, una piazza o comunque un luogo che rappresenti il loro ricordo: maliziosamente posso far presente che i libri, come il presente, ci sono anche per questo…




Le balie della Valdinievole

Con il riordino e l’apertura al pubblico degli Archivi storici della provincia di Pistoia, nel 1995, è riemersa una realtà a lungo tempo dimenticata, quella delle balie che dalla Valdinievole emigravano per vendere l’unica cosa preziosa che possedevano: il loro latte.

Il baliatico è una questione esclusivamente femminile, “marginale” nell’interesse degli storici: è un lavoro sommerso, talvolta ignorato dagli stessi discendenti delle protagoniste. Le donne hanno sempre parlato malvolentieri di questo mestiere anomalo, di breve durata e legato alla quantità e qualità del latte prodotto: non solo testimoniava lo stato di miseria, ma riportava alla mente il doloroso distacco dal proprio figlio neonato.

Il fenomeno si può circoscrivere in un periodo abbastanza preciso: dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta del XX secolo, in qualche caso anche dopo la Seconda guerra mondiale. I luoghi di espatrio erano essenzialmente: la Francia del Sud e la Corsica, talvolta anche la Tunisia, l’Algeria, la Svizzera, la Germania.

Foto 1. Gruppo di balie della Valdinievole in Francia, inizio Novecento. (Biblioteca comunale di Chiesina Uzzanese)

Le donne che partivano erano casalinghe, contadine, bisognose di dare un contributo economico alla famiglia, e per farlo lasciavano a casa la loro creatura appena nata, che veniva allattata da una vicina o una parente. La mortalità infantile dei figli delle balie era più alta della norma perché erano privati del latte materno e affidati a donne non sempre sane o poco attente alla cura e all’igiene dei piccoli.

Anche il viaggio verso un luogo sconosciuto dove avrebbero trovato una nuova lingua e un ambiente ben diverso dal proprio, costituiva un sacrificio, ma l’esperienza poteva rivelarsi utile da vari punti di vista: erano ben nutrite e ben vestite, si occupavano esclusivamente del bambino loro affidato, mangiavano a tavola con i padroni, in estate si trasferivano in bellissimi luoghi di villeggiatura, sottoscrivevano un regolare contratto che prevedeva una visita medica e un salario stabilito, potevano ricevere doni, vivevano una sorta di emancipazione e di autonomia economica, instauravano rapporti anche belli e duraturi con i loro “figli di latte ”, frequentavano ambienti che mai più nella vita avrebbero conosciuto. In Valdinievole mancavano le industrie, si viveva di agricoltura e del poco che offriva l’area palustre del Padule: il latte appariva dunque una risorsa da sfruttare, preferibile a una vera e propria emigrazione familiare.

Le donne locali erano molto richieste perché godevano fama di essere pulite e attente all’igiene, diventavano madri in giovane età, molte sapevano leggere e scrivere e parlare un buon italiano, dato essenziale per ricche famiglie che vivevano all’estero ma desideravano insegnare la lingua d’origine alla prole.

Esistevano, sul luogo, delle “procaccine” che curavano il rapporto domanda-offerta; verificavano lo stato di salute delle future partorienti e le prenotavano per i propri clienti; dopo il parto veniva controllata l’abbondanza di latte, si firmava il contratto e si partiva verso l’ignoto, di solito con un accompagnatore di fiducia, in treno o in nave.

Per tutto l’Ottocento e oltre, in assenza di latte artificiale, il baliatico al proprio domicilio non era affatto raro, e si praticava anche negli ospedali.

Foto 2. Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala

In Toscana due casi emblematici sono l’Ospedale degli Innocenti di Firenze e l’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena dove molte donne (di solito madri nubili o vedove o madri cui era morto il neonato), legate con regolare contratto, allattavano i trovatelli (fino a cinque ognuna), per un periodo che poteva arrivare fino a diciotto mesi, finiti i quali erano impiegate come balie “asciutte”.

Foto 3. Il pannello della mostra di Toponomastica femminile “Donne e Lavoro”

 

 

 

 




L’identità multiculturale di Palermo

Di Grazia Mazzè

Pan e Hòrmos, tutto porto: Palermo non ha mai rinnegato l’identità multiculturale contenuta nel suo nome. Porto accogliente, approdo naturale, la sua storia è un crocevia senza pari di civiltà.

I secoli di cultura e tolleranza li troviamo stratificati tra le particolarità del centro storico, come le grandi targhe marroni usate per la toponomastica cittadina, in cui i nomi di piazze e vicoli sono impresse in caratteri bianchi nelle lingua italiana, araba ed ebraica

(Foto 1-2-3-4).

Palermo è multietnica, accogliente, in lei si fondono culture, filosofie e religioni diverse.
La sua immagine è singolare, la sua apertura all’immigrazione controcorrente, soprattutto nell’attuale momento storico e politico in cui la chiusura razzista raccoglie consensi.

Nella città capitale della cultura 2018, nella sede di Manifesta 12, del Festival della Letteratura migrante, nel Centro di cultura araba e del Mediterraneo, l’immigrazione è sentita come un bene comune, anche con le sue difficoltà, irregolarità, con il disagio e i tentativi di integrazione.

Il primo cittadino di Palermo, riferendosi agli ultimi avvenimenti dei naufraghi bloccati sulla nave Aquarius a largo dell’isola di Malta, ha condannato la chiusura dei porti italiani imposta dal Governo. 629 donne, bambine/i, uomini, non solo naufraghe, 629 persone sulle quali si è giocata una partita di rimpalli che ha il sapore più della propaganda che della politica.

Ha protestato contro la scelta, il Sindaco, ha aperto alla possibilità di accogliere la nave dell’ONG nel porto di Palermo, sostenendo la disponibilità con l’origine e l’attitudine naturale della città alla mescolanza e alla convivenza. Che affermi l’esistenza di una sola razza non ci stupisce, non stupiscono neanche le sue parole dure, usate senza timore verso chi non riconosce l’essere umano nelle persone migranti.

Negli ultimi anni la città ha lavorato molto sull’integrazione straniera, proponendosi come esempio per l’Italia e l’Europa. La Consulta delle Culture non è uno specchio di attrazione mediatica: è fatta di sostanza, di politica della differenza tra cittadine/i della comunità e non. La Carta di Palermo è la sfida, sintetizzata in un documento, per l’abolizione del permesso di soggiorno, per il diritto alla mobilità come diritto della persona umana.

La città negli ultimi anni ha dato la cittadinanza a circa 3000 stranieri, circa la metà sono di origine asiatica; le etnie si mescolano, si concentrano per quartieri, alcune comunità sono più precarie, altre più inserite, gli uomini sono più delle donne. Sono invece moltissime le bambine e i bambini stranieri nati a Palermo, radicati come seconda generazione nella vita scolastica e professionale della città, esempi concreti di percorsi di integrazione e identità portati a compimento.

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Tutte le comunità possono esprimere la loro forma di credo, addirittura in una delle chiese cattoliche cittadine si celebra la Messa in tredici lingue; l’altare a forma di barca avvicina il sacrificio di Cristo a quello dei tanti esseri umani inghiottiti dal mare, si eleva a simbolo dell’unione tra Gesù e le persone migranti.

Palermo dissente e questa opposizione si avverte nell’aria, tra le vie, sui muri. Ancora più dirompente appare un messaggio che viene dal mondo dell’arte. Igor Palminteri usa lo spazio pubblico per gesti di accusa: con le sue opere rappresenta il pensiero critico della cittadinanza palermitana, innalzando ancora una volta questa città a simbolo di un’integrazione ben radicata nelle coscienze.
L’artista ha realizzato, nel cuore di Ballarò, un murale raffigurante San Benedetto il Moro, il frate nero figlio di schiavi arrivato dall’Africa sulle nostre coste nel 1500, che Palermo celebra come uno dei suoi Santi Patroni. Nel grande dipinto il suo viso ha un aspetto fiero, imponente e bello.

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Igor non vuole dimenticare neanche l’uccisione di Socko Soumaila, avvenuta in Calabria alcuni giorni fa. Lo fa decorando una barriera antiterrorismo in cemento con una scena capace di richiamare l’attenzione, sollecitare la sensibilità e favorire la riflessione di chi passa per il centro storico. L’arte diviene, secondo una missione che le è propria da tempo immemorabile, portatrice di messaggi alti, quelli dell’unità razziale, religiosa e culturale, in grado di demolire i pensieri stereotipati e i tanti e diffusi luoghi comuni.

Palermo, con la sua toponomastica e le sue forme di arte, è qui a dimostrarlo.




Flavia Giulia Elena: da stabularia a imperatrice, da concubina a icona del cristianesimo

Nata nel 248 o nel 250 in un centro della Bitinia, probabilmente Drepanum che in suo onore successivamente venne rinominato Helenopolis dal figlio, l’imperatore Costantino, Flavia Giulia Elena proveniva da una famiglia di umili origini. Il padre era pagano e proprietario di un’osteria con annessa stalla (stabulum) per dare ricovero agli animali. Le fonti la definiscono stabularia, termine che potrebbe essere inteso in due modi: addetta alla pulizia e alla manutenzione della stalla, oppure locandiera che si occupava di servire i clienti e di intrattenerli. In entrambi i casi le fonti, soprattutto quelle cristiane, non forniscono  indicazioni univoche sulle origini della futura imperatrice; solo Ambrogio, vescovo di Milano, sottolinea il fatto che fosse una bona stabularia, cioè che svolgesse al meglio le mansioni affidatele.

Flavia Giulia Elena conobbe Costanzo Cloro, il padre del futuro imperatore Costantino, probabilmente nel 270 durante una campagna militare alla quale lui partecipò, organizzata dall’imperatore Aureliano per piegare le spinte autonomiste del Regno di Palmira. Tra i due si instaurò un legame molto forte, ma la differente condizione sociale, lei plebea, lui graduato dell’esercito romano, non permise loro di sposarsi, sebbene le fonti cristiane parlino di un legame matrimoniale che, in base al costume dell’epoca, risulta alquanto improbabile. I due convissero per 23 anni in una condizione di concubinato e Flavia Giulia Elena dette alla luce un figlio maschio, Costantino, nel 274. 

Costanzo Cloro però dovette abbandonarla per sposare una donna altolocata, Teodora, figliastra dell’imperatore, quando Diocleziano lo nominò Cesare nel sistema tetrarchico da lui ideato. Esso prevedeva la divisione dell’impero in quattro parti, due ad Occidente e due ad Oriente, ognuna affidata a un Augusto e un Cesare; con questo espediente si voleva evitare le lotte per la successione, che avevano determinato più di cinquant’anni di anarchia militare (ogni Cesare avrebbe dovuto subentrare automaticamente al suo Augusto), e amministrare meglio il territorio mediante un’oculata suddivisione dei compiti tra Augusti e Cesari. 

Per ragioni di stato, quindi, Costanzo Cloro fu costretto a rinunciare a quella donna che gli era stata fedele compagna per più di un ventennio e che lui portò sempre nel cuore, se è vero che in punto di morte ne pronunciò il nome. Ma lei fu costretta non solo a rinunciare all’uomo di cui era innamorata, e al quale rimase fedele per sempre visto che non ebbe altre relazioni, ma anche al figlio dal quale venne allontanata, poiché l’ordine dell’imperatore era che l’erede di Costanzo Cloro crescesse alla corte imperiale e ricevesse un’educazione degna del suo futuro regale: Flavia Giulia Elena non vide più il figlio dal 293, anno del matrimonio fra Costanzo Cloro e Teodora, fino al 306, quando Costantino venne nominato imperatore.

Il profondo legame che univa Costantino alla madre, sottolineato anche dal biografo dell’imperatore Eusebio di Cesarea, non venne compromesso dalla distanza. Non appena ebbe libertà d’azione, il nuovo imperatore si riavvicinò alla madre invitandola a risiedere nel palazzo di Treviri; ma lei rifiutò, vista la riluttanza della matrigna di Costantino a vivere sotto lo stesso tetto con la donna che l’aveva sempre resa invisibile agli occhi del marito, rimasto profondamente innamorato di Elena fino alla morte. 

Foto 1. Flavia Iulia Helena ai Musei Capitolini

Flavia Giulia Elena dal punto di vista religioso fu inizialmente vicina all’arianesimo, una corrente interna al cristianesimo, che venne successivamente dichiarata eretica, in base alla quale la natura di Cristo doveva essere intesa non in chiave divina, ma umana. La conversione di Elena al cristianesimo è molto controversa: alcuni sostengono che fu il figlio a convincerla, altri propendono per il contrario. Quello che sappiamo con certezza è che Costantino non si battezzò e la sua redenzione in punto di morte non è per nulla accertata; al contrario Flavia Giulia Elena ricevette il sacramento del battesimo.

Quando Costantino si stabilì a Roma, lei lo seguì e venne insignita del titolo di Augusta, ma anche questa volta preferì non risiedere con il figlio e la corte imperiale, trasferendosi presso il fundus Laurentus, nella parte sud-orientale della città, dove sorse anche un palazzo, il palatium Sessorianum, e una chiesa dedicata ai santi Marcellino e Pietro che lei stessa fece edificare. Oltre al titolo, ricevette dal figlio altri onori, fra i quali essere raffigurata sulle monete dove la sua immagine simboleggiava la Securitas, la sicurezza dello Stato.

Tra il 326 e il 328, alla veneranda età di ottant’anni, Flavia Giulia Elena si recò in pellegrinaggio nei luoghi del Santo Sepolcro. Le ragioni che la spinsero a intraprendere un viaggio tanto lungo e faticoso sono sconosciute, ma sappiamo che in quegli anni l’immagine dell’imperatore venne macchiata da un omicidio e da una morte sospetta. La seconda moglie di Costantino, Fausta, sorpresa in atteggiamenti compromettenti con il figlio di primo letto dell’imperatore, Crispo, accusò quest’ultimo di averla importunata. Costantino, travolto dalla gelosia, ordinò la morte del figlio, condannato anche alla damnatio memoriae, e Fausta morì misteriosamente affogata nel suo bagno. La notizia fece il giro dell’impero e contribuì a gettare ombre su un imperatore molto discusso anche per il suo atteggiamento ambiguo nei confronti del cristianesimo: aveva promosso la tolleranza verso quella religione e l’aveva riconosciuta come predominante nel suo impero, ma sulla sua effettiva conversione non c’erano prove. Forse fu proprio la necessità di riabilitare l’immagine del figlio tra i cristiani che convinse Elena a intraprendere un pellegrinaggio il cui itinerario sarebbe diventato una costante durante il medioevo. 

Foto 2. Il ritrovamento della Croce, di Jan Van Eyck 

A questo punto Flavia Giulia Elena diventa protagonista di una leggenda che contribuirà a renderla un’icona del cristianesimo cattolico, ma anche ortodosso: il ritrovamento della Santa Croce. Sono molteplici le versioni di questo importante episodio, la più famosa è quella di Jacopo da Varagine (Varazze), un frate domenicano vissuto nel XIII secolo e autore della Legenda Aurea. Secondo quest’insigne agiografo, Elena sarebbe giunta sui luoghi della passione e della morte di Cristo proprio con l’intenzione di ritrovare le reliquie di Gesù e, venuta a sapere che un abitante di quei luoghi conosceva il punto esatto della crocifissione, lo interrogò; lui non rispose e per convincerlo a farlo, Elena lo fece calare in un pozzo lasciandolo senza acqua e cibo per sette giorni fino a quando confessò. Recatasi sul posto, riuscì a rinvenire tre croci; per individuare quella  sulla quale era morto Cristo, fece deporre un cadavere su ciascuna delle strutture lignee e, sfiorata quella di Gesù, il morto resuscitò. A quel punto l’imperatrice fece smembrare in varie parti la croce, lasciandone una a Gerusalemme. Questo episodio della vita di Elena è un soggetto rappresentato da molti artisti. Nell’abside della Basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma esiste un affresco attribuito ad Antoniazzo Romano, ed è famoso il Ciclo delle Storie della Vera Croce nella cappella maggiore della Basilica di San Francesco ad Arezzo, opera insigne di Piero delle Francesca. Inoltre Elena portò con sé a Roma i ferri con cui Cristo era stato inchiodato alla croce, ritrovati anch’essi sul luogo della passione. Di essi la leggenda dice che uno venne inserito nel morso del cavallo, l’altro nell’elmo di Costantino e poi successivamente collocato al centro della Corona Ferrea conservata oggi a Monza, l’ultimo è presente nella Basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma.

Se il ritrovamento della Santa Croce rimane avvolto nella leggenda, è certo che la madre di Costantino contribuì ad edificare importanti basiliche in Terra Santa, fra le quali spiccano la Basilica della Natività a Betlemme e quelle dell’Ascensione al Monte degli Ulivi e del Santo Sepolcro a Gerusalemme; entrambe vennero riccamente decorate grazie all’intervento dell’imperatore.

Flavia Giulia Elena si spense a Treviri nel 329, poco dopo il ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, con accanto l’amorevole figura del figlio. Per celebrare la madre Costantino fece costruire a Roma uno splendido sarcofago in porfido, e un mausoleo a forma circolare sormontato da una cupola che si trovava sulla via Labicana, nella zona che oggi è chiamata Torpignattara.

Foto 3. Il mausoleo di Sant’Elena 

Sia la chiesa cattolica che quella ortodossa celebrano la figura di questa donna in due date diverse: il 18 agosto i cattolici e il 21 maggio gli ortodossi (in Russia si attende questa data per seminare il lino, affinché diventi lungo come i capelli della Santa). La venerazione di Sant’Elena è molto sentita non solo in Italia, dove è patrona di Pesaro e di Ascoli Piceno, ma anche in Germania, soprattutto nella città di Treviri, e in Francia.

Nonostante la diffusione del culto di questa santa, vi è solo una basilica a lei dedicata, a Quartu in Sardegna: la Basilica di Sant’Elena appunto.

A Treviso è presente una via dedicata a Sant’Elena imperatrice (in copertina, foto di Nadia Cario), in cui si sottolinea l’importanza religiosa e insieme politica di questa donna che, non sposata e addirittura abbandonata dal compagno, è diventata paradossalmente l’immagine del trionfo del Cristianesimo.   




Essere balia nell’Ottocento

Il mestiere di balia è stato tra i lavori che, nel corso della storia, hanno contribuito a garantire la sopravvivenza e la crescita delle nuove generazioni.

Le prime testimonianze di baliatico risalgono al mondo antico e le ritroviamo in tutto il Medioevo e durante l’Età moderna. Il vero e proprio “boom” del baliatico si ebbe però nell’Ottocento, quando, con la Rivoluzione industriale, cambiò completamente il tessuto economico e sociale degli Stati, determinando un’enorme crescita della domanda e dell’offerta di quello che, in un’epoca in cui il latte artificiale ancora non esisteva, era considerato un vero e proprio “oro bianco”: il latte materno.

Nell’Ottocento le balie, come nelle epoche passate, provenivano quasi esclusivamente dall’ambiente rurale. Spesso si trattava di donne di estrazione contadina spinte a diventare balie per contribuire al sostentamento economico delle proprie famiglie, in decenni in cui i contratti agricoli divenivano via via sempre più svantaggiosi e la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici dei campi si aggravava sempre di più. L’attività di balia, sebbene limitata nel tempo, era in effetti molto remunerativa per l’epoca, soprattutto se confrontata con il salario di una contadina o di una domestica, e per questo era spesso individuata dai ceti rurali subalterni come possibile aiuto per superare le difficoltà economiche in cui vivevano.

Le balie erano in molti casi puerpere il cui bambino o bambina era morta nei primi giorni o mesi di vita, ma in altri casi erano donne che, spinte dal bisogno economico, rinunciavano ad allattare la propria creatura per poter essere balie a pagamento.

Divenute balie, la vita delle donne poteva subire grandi cambiamenti, soprattutto quando dovevano risiedere nelle case dei bimbi o delle bimbe da allattare. In questi casi si trattava quasi sempre di famiglie agiate, le quali preferivano tenere i figli e le figlie vicino a sé, da un lato per poter continuare a vederle, dall’altro per poter controllare l’operato e lo stato di salute delle balie.

Per molte donne essere balie presso le case delle famiglie agiate, sebbene lontane dai propri affetti, poteva essere l’occasione per uscire dal luogo natio, sottrarsi al faticoso lavoro nei campi e avere accesso a un’alimentazione e a condizioni abitative migliori.

Diversa era invece la situazione delle balie al servizio delle famiglie cittadine medio-basse. In questo caso molto spesso allattavano figli e figlie di donne lavoratrici – lavoranti a domicilio per la protoindustria o operaie nelle fabbriche sempre più numerose con l’avanzare della Rivoluzione industriale – che, inserite in un sistema lavorativo privo di tutela e diritti per le madri lavoratrici, non potevano permettersi di sospendere il lavoro durante i mesi dell’allattamento, poiché il loro salario, benché basso, risultava fondamentale per il mantenimento delle famiglie.

Le balie potevano stipulare un contratto di baliatico o direttamente con le famiglie cittadine in grado di corrispondere il compenso in denaro oppure, in molti casi, potevano stipulare un accordo con il brefotrofio della città a favore di quelle famiglie che avevano fatto richiesta del baliatico gratuito o che avevano esposto il proprio figlio o figlia alla ruota.

In questi casi, sia quello del rapporto diretto con la famiglia cittadina, sia del rapporto intermediato dal brefotrofio, le balie continuavano a vivere presso la propria dimora nelle campagne. Ciò permetteva alle donne di rimanere vicine ai propri affetti ma nello stesso tempo determinava un aggravamento dei loro compiti, perché all’attività di nutrice si affiancavano la cura della propria famiglia e il lavoro nei campi. Questo comportava evidentemente per le donne contadine e balie un sovraccarico di fatica in un periodo delicato qual era quello subito dopo il parto.

Un ultimo caso è quello delle balie migranti. Nel corso della storia si sono infatti verificate alcune esperienze di donne che emigrarono per essere balie in terre lontane e straniere. Un caso su tutti è quello delle numerose italiane, prevalentemente meridionali, che a cavallo tra Otto e Novecento emigrarono, abbandonando non solo la casa e i propri affetti, ma anche il proprio Paese, per andare a fare le balie presso le famiglie inglesi trasferitesi in Egitto durante i lavori per la costruzione del canale di Suez.

Il mestiere della balia coinvolgeva completamente la vita delle donne, comportava spesso la necessità di spostarsi, di lasciare la propria famiglia, i propri figli, di cambiare casa o addirittura paese, ma poteva anche essere un’occasione unica, per le donne del mondo contadino, di venire in contatto con altre realtà. Non bisogna però dimenticare che per molte donne diventare balia significava soprattutto un aumento delle fatiche e del lavoro con conseguenze negative sulla loro salute psicofisica.

Quello della balia è stato un mestiere fondamentale per tutto il corso della storia e ha contribuito allo sviluppo economico e al susseguirsi delle generazioni, ed è per questo che quelle donne oggi meritano il nostro riconoscimento storiografico.

 

Per approfondire:

  1. Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, Roma, 2016.
  2. Dadà, Partire per un figlio altrui: racconti delle balie nel Novecento, in Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, a cura di D. Corsi, Roma, 1999.
  3. De Marchi, Il mestiere di balia. Assistenza agli esposti, cura dei “figli di famiglia”, ricerca di un salario nella campagna milanese tra Sette e Ottocento, in «Archivio storico lombardo», XIV, 2009, pp. 119-151.
  4. Fildes, Madre di latte: balie e baliatico dall’antichità al XX secolo, Cinisello Balsamo, 1997.
  5. Pignolo, Il baliatico, Pisa, 1973.

 

 




The Mother of the Civil Rights Movement. Rosa McCauley Parks

Alla fine dell’anno scolastico si susseguono molti eventi che hanno lo scopo di far conoscere anche al pubblico di genitori e genitrici, cittadini e cittadine esterne alla scuola le imprese più belle e significative sviluppate da ragazzi e ragazze che non solo si stanno preparando a entrare in società, ma che ne sono già parte attiva e propositiva. Una di queste occasioni è stata a Lodi la ManifestAzione ASL, il 31 maggio scorso, che ha presentato le buone pratiche dell’Alternanza Scuola Lavoro tra presente e futuro.

Lo stand del Liceo Maffeo Vegio – insieme a tanti altri progetti e attività di ASL realizzate nel triennio 2015-2018 in cui gli stage sono diventati obbligatori per legge (la famosa o famigerata 107, detta della “Buona scuola”) – ha presentato l’allestimento della mostra del Viale delle Giuste, che le studenti della classe 3 E del Liceo delle Scienze Umane hanno saputo ben illustrare a chi si fermava a chiedere notizie e informazioni sulle attività. 

Foto 1. La classe all’opera

Tra le tante figure di Giuste rappresentate (per la definizione di Giusta e il progetto di Alternanza Scuola Lavoro attinente vedi https://www.impagine.it/toponomastica/ricerche/4487-2/) ha particolarmente colpito il pubblico una donna forse mai ben identificata come Giusta ma appartenente al popolo e capace di rivendicare diritti fondamentali, come quello della libertà e dell’uguaglianza, senza grandi parole e tuttavia con l’azione silenziosa quanto ferma e decisa.

Foto 2. Il pannello della mostra dedicato a Rosa Parks

Rosa McCauley era una sarta, che si guadagnava da vivere lavorando in un grande magazzino di Montgomery, in Alabama, dove risiedeva. Allora, nei primi decenni del ‘900, non c’erano molte alternative per una donna, figuriamoci per una donna nera! Chi apparteneva alla cosiddetta razza inferiore, poteva a malapena stare negli stessi luoghi degli altri: dappertutto vigevano minuziose e intransigenti leggi che ponevano i bianchi a un livello superiore rispetto ai neri.

Nel 1932 sposa Raymond Parks, un attivista del movimento dei diritti civili, e frequenta la Highlander Folk School, un centro educativo per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza razziale, negli anni in cui Martin Luther King lottava per far valere i diritti dei neri, che nel XX secolo, venivano ancora oppressi dai bianchi.

Montgomery, 1° dicembre 1955: Rosa McCauley sta tornando a casa in autobus. Sale, prendendo posto dietro alla fila dei bianchi, nei ‘posti comuni’. Un bianco, invece, rimane in piedi. Il conducente se ne accorge e le ordina di cedergli il posto. Rosa non si muove: è un silenzioso segno di ribellione, un NO determinato, pronunciato sommessamente. Il conducente ferma il pullman, chiama gli agenti di polizia: Rosa è imprigionata per comportamento improprio e per non aver rispettato le leggi cittadine.

Il gesto di Rosa però non rimane senza conseguenze: si verifica infatti un effetto a catena e, grazie a lei, si accende la voglia di lottare per la libertà e l’uguaglianza di tutti. La notizia della sua carcerazione, la notte stessa, porta decine di organizzatori e capi delle comunità afroamericane a dare inizio a una rivolta. Da allora è conosciuta come The Mother of the Civil Rights Movement. Guidata da Martin Luther King, la rivolta provocata dal coraggio di Rosa è “l’espressione individuale di una bramosia infinita di dignità umana e libertà”, come ebbe a dire lo stesso pastore protestante, che organizzò dal pulpito della sua chiesa il boicottaggio pacifico delle autolinee di Montgomery. La comunità nera di Montgomery non userà gli autobus per ben 381 giorni.

Nel 1956 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, dopo essere stata informata dell’episodio, ordinò, all’unanimità, che la segregazione sui pullman pubblici dell’Alabama fosse, da quel momento, considerata incostituzionale.

Foto 3. Genova Voltri. Intitolazione a Rosa Parks. Foto di Daniela Domenici

Dare visibilità a questa donna e raccontare la sua storia è stato un grande piacere per le studenti del Vegio. Il pubblico della ManifestAzione ha ringraziato le ragazze e ha apprezzato il lavoro svolto da tante classi di tutta Italia che hanno partecipato alle due edizioni scorse del concorso “Sulle vie della parità”, indetto dall’Associazione Toponomastica femminile.

In copertina. Sedile di un autobus a Miami. Foto di Luciana Grillo




Napoli, città rifugio

Un porto del Mediterraneo è aperto per definizione all’arrivo di genti da ogni dove. 

Napoli stessa è una città fondata da migranti. Il suo nome di “città nuova” è tale rispetto all’Acropoli di Lindos, madrepatria dei Rodii, giunti dal mare Egeo, che qui vollero stabilirsi.

Le presenze di tanti popoli di ogni origine e nazione si affollano e sgomitano: tanto numerosi da ricordare, se non in maniera arbitraria e casuale. 

Lungo il decumano maggiore si incontrano via e piazzetta Nilo, rimembranze del Vicus alexandrino, quartiere egizio, e a San Ferdinando  via Serapide, divinità egizia. 

Foto 1

La santa Patrizia, co-patrona di Napoli, che nella chiesa di via San Gregorio Armeno, straniero lui pure, regala il miracolo dello scioglimento del sangue ogni martedì, giunse da Costantinopoli: dopo aver donato i beni ai poveri scampò alla tempesta che la conduceva verso la Terra Santa e qui trovò rifugio. 

Foto 2

E molte altre sante straniere si fermarono qui: Brigida di Svezia, “che si prende il disturbo di venire a salvare Napoli”, o Maria Lorenza Longo, catalana di Lleida, fondatrice del complesso degli Incurabili. 

Tante vie del centro antico raccontano delle innumerevoli presenze e dei continui nuovi arrivi a Napoli dall’antichità a oggi.

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Le strade raccontano degli scambi commerciali: loggia dei Pisani, la rua (lemma catalano per strada) Francesca frequentata dai francesi e poco distante proprio la rua Catalana. 

Dei diversi regni e governi che portarono con sé l’autorità e il dominio straniero, ma anche l’inevitabile commistione di usi tradizioni e culture diverse, ci restano viale degli Svevi, via Aragonesi e i” Quartieri Spagnoli”, i Fondaci di San Paolo, dei Bianchi, di San Sossio e Severino, Speranzella rivelano la loro origine orientale fin dal nome fondaco – dal funduq arabo per albergo, acquartieramento. 

E poi i nomi di rifugiati famosi in città: Michelangelo Merisi da Caravaggio e la portoghese Eleonora Pimentel de Fonseca, che a lungo abitò in via Santa Teresella degli Spagnoli. E ancora, i residenti illustri: i pittori della scuola fiamminga, Anton van Pitloo e la famiglia di architetti e artisti van Vittel più conosciuti come Vanvitelli, gli studiosi polacchi in città, tra cui i Gustaw Herling genero di Croce, lo scrittore ungherese Sandor Marai che abitò a Posillipo, le famiglie svizzere e viennesi di pasticcieri tra cui spiccarono Caflish e van Houten. E si potrebbe non finire mai. 

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Napoli ha un sindaco, Luigi de Magistris, che conosce bene la toponomastica cittadina, e che condivide la stessa battaglia culturale della sindaca di Barcellona, Ada Colau. Le due città, in controtendenza rispetto a un sentimento di chiusura diffuso in tutta Europa, sono città rifugio per i migranti. 

Lo scorso 19 gennaio 2018, un protocollo d’intesa promosso dal Comune di Napoli e firmato dal sindaco – con la Comunità di Sant’Egidio, gli atenei Federico II e l’Orientale di Napoli, gli Ospedali AORN Santobono-Pausillipon e l’Ospedale evangelico Betania, la Fondazione Pausillipon, la GVC onlus e l’Associazione “Chi rom… e chi no”, la Fondazione evangelica Betania, la Chiesa cristiana del Vomero e la Chiesa metodista di Napoli – ha stabilito l’elaborazione e la sperimentazione di un nuovo modello di accoglienza che punta sull’autonomia delle persone ospitate, rendendo Napoli un porto e un approdo sicuro. 

Napoli resta ancora una porta spalancata sul Mediterraneo.

http://napoli.repubblica.it/cronaca/2016/12/13/news/citta_rifugio_da_napoli_il_progetto_umanitario_per_aleppo-154028012/