La Psicoterapia è veramente accessibile?

Da alcuni anni a questa parte, in concomitanza con la crisi economica del decennio scorso, e in alcuni casi anche prima, si è diffusa a macchia d’olio nella comunità italiana di psicologhe e psicologi la pratica della psicoterapia accessibile o sostenibile o sociale. Una miriade di piccoli gruppi organizzati intorno a qualche centro o scuola di formazione che permettono l’accesso a pazienti meno abbienti a tariffa sostenibile e talora simbolica.

Tale pratica in realtà, si è ormai reticolarmente diffusa anche tra moltissimi singole/i

colleghe/i del privato professionale, probabilmente la maggioranza, ciascuna/o disponibile per una piccola parte del proprio tempo professionale ad accogliere pazienti a tariffa sociale.

Tale impegno nella sua dimensione ubiquitaria, al di là delle personali sensibilità, assume chiaramente un carattere sociologico in quanto risposta riflessa e automatica al disagio della nostra società e al progressivo impoverimento delle fasce socio-economiche medie e medio-basse, come tutte le statistiche degli ultimi anni dimostrano.

Ma tutto questo non basta, è solo una goccia nell’oceano e la domanda di cura e benessere psicologico tracima da ogni parte e si fa più pressante senza trovare alcuna sponda.

Dunque, di fatto oggi in Italia, migliaia di colleghe e colleghi ospitano migliaia di pazienti a tariffe simboliche o ridotte, ma tale impegno si confina e rimane invisibile purtroppo nelle quattro mura degli studi privati e non assume la giusta rilevanza presso l’opinione pubblica tale da sollevare interrogativi circa la mancata assunzione da parte del Servizio Sanitario Nazionale della domanda di cura e benessere psicologico esistente.

Sarebbe opportuno non solo che questo impegno invisibile e sommerso venisse alla luce del giorno e svelasse ciò che ogni addetto/a ai lavori sa e cioè che la salute e la prevenzione psicologica in Italia è praticamente lettera morta ed è troppo raramente appannaggio del SSN.

Se ci spostiamo nel Regno Unito, dove la programmazione sanitaria e l’epidemiologia hanno lunga tradizione e dove hanno calcolato impatto e costi sociali dell’ansia e della depressione, esiste da alcuni anni un grande progetto governativo (Improving Access to Psychological Therapies), rifinanziato con budget sempre maggiori, pensato per contrastare l’onda montante del disagio psicologico, previsto dall’OMS già nei decenni precedenti, ed i cui primi risultati appaiono molto confortanti.

In Italia non solo le fasce socioeconomiche basse sono tagliate fuori da una seria prevenzione e cura psicologica, ma ormai anche le fasce sociali medie, sempre più impoverite, soprattutto famiglie con figli piccoli e adolescenti, coppie giovani, giovani disoccupate/i e precari/e, persone emarginate sul lavoro, non riescono assolutamente a sostenere le spese di una cura psicologica, in genere necessariamente di lunga durata.

Vorremmo prima o poi assistere a una legislazione che riconosca e preveda il diritto alla cura e l’accessibilità a queste essenziali cure a tutta la cittadinanza.

 

 

 

 




Un disperato bisogno di certezze

In questo periodo nel quale siamo stati tutti inseguiti da un clima politico-sociale violento e disumano (si pensi ai profughi della Diciotti), ci si domanda legittimamente come si possa giungere in larga parte dell’opinione pubblica a ignorare la violenza e la morte di persone in funzione della protezione dei confini nazionali.

Questa domanda trova articolata risposta in due articoli scientifici che, forse non casualmente, mi sono comparsi sotto gli occhi in questi ultimi giorni.

Il primo articolo, del centro di ricerche sociali IPSOS l’Italia è la nazione con la percezione più distorta della realtà (https://www.ipsos.com/ipsos-mori/en-uk/people-italy-and-us-are-most-wrong-key-facts-about-their-societynel quale appare evidente come la nostra nazione, più di altre, ha una dispercezione dei fenomeni interni che alimenta un allarme del tutto esagerato. Di particolare interesse il dato che riguarda la percezione dell’immigrazione nel nostro paese, davvero fuori misura rispetto al dato reale.

Il secondo articolo, in realtà un saggio scientifico, di tre ricercatori americani, I differenti pregiudizi sulle negatività sono alla base delle variazioni nell’ideologia politica (John R. Hibbing, Kevin B. Smith, John R. Alford, Behavioral and Brain Sciences,Volume 37, Issue 3June 2014, pp. 297-307 – https://www.cambridge.org/core/journals/behavioral-and-brain-sciences/article/differences-in-negativity-bias-underlie-variations-in-political-ideology/72A29464D2FD037B03F7485616929560/core-reader), spiega, attraverso una meta-analisi degli studi precedenti di differente estrazione (psicologici, neurocognitivi, sociali), l’esistenza di una significativa differenza psicologica, fisiologica, neurale, sociale, tra persone che votano a destra e persone che votano a sinistra. Le prime avrebbero una maggiore reattività agli stimoli negativi di natura sensoriale, sociale, morale rispetto ai secondi, confermata anche dalla maggiore attivazione dell’amigdala. Aspetto questo che condurrebbe i votanti di destra a preferire soluzioni conservatrici e protettive piuttosto che soluzioni di apertura al cambiamento. Un bisogno di certezze e sicurezze così emotivamente radicato che a quanto pare spesso sopravanza l’analisi di realtà tanto da far prevalere una percezione palesemente distorta, ad esempio, della situazione dell’immigrazione nel nostro paese. L’allarme acceso dagli stimoli negativi attiva quindi una serie di bias cognitivi, cioè valutazioni errate, che impongono una reazione di difesa.

Ordunque, mettendo insieme questi due articoli, si comprende molto bene che una parte considerevole di noi risponde al clima sociale, mediatico e politico, attivando una serie di risposte emotive, cognitive ed infine anche politiche, che sono la risposta coerente al disordine, al disgusto, alla paura e alla rabbia connessa, distorcendo di fatto le informazioni che riceviamo o, molto più probabilmente, mostrandoci particolarmente sensibili e reattivi (anche neurologicamente, chi più, chi meno) alle campagne politico-mediatiche perennemente attive nel nostro paese e al loro penetrante storytelling. Campagne mediatiche oggi sempre più affinate da strumenti di analisi di mercato al servizio di questo o quel politico emergente in grado di vampirizzare e manipolare l’opinione pubblica (per approfondire, leggi il mio recente articolo: La banalità de La Bestia. Politica e vampirismo – http://www.psychiatryonline.it/node/7565).

Può un clima politico-mediatico dirottare così fortemente il consenso elettorale verso un’area politica anziché un’altra? In condizioni di particolare disagio sociale, evidentemente sì. Più che altro può chiamare a raccolta e reclutare esattamente quella reattività emotiva sottesa e sottotraccia nella società che ad un certo punto, come un fiume carsico in piena, trova voce e riferimento in certi modi spicci che molti di noi in certe condizioni di disagio vorremmo usare per liberarci dall’oppressione emotiva, non importa se causata però da ben altre condizioni e cause. E se il disagio sociale è forte (e lo è) e si incanala, come confermano le ricerche, in domanda di sicurezza, il consenso di molti si direzionerà verso colui, politico o capopopolo, saprà rispondere sui registri emotivi giusti e corrispondenti alle aspettative.

Sottovalutare o peggio ancora irridere questi fenomeni sociali, che sono trasversali che si collocano in una vasta area di osservazione che va dalle neuroscienze alla politica (neuropolitica), come se fossero soltanto forme di primitivismo o rozzezza umana di una parte dell’elettorato (anche se la forma apparente che assumono è proprio questa), non permette di cogliere il lato strutturale-fisiologico di essi, direi il lato specie-specifico, che le stesse ricerche sembrano confermare a più riprese.

Uno dei motivi principali per cui assistiamo a questo inasprimento del clima sociale è questa difficoltà di chi non partecipa di questa reattività neuropsicologica (l’elettore di sinistra per intenderci) a comprenderla fino in fondo e a rispondere alle preoccupazioni sottostanti molto seriamente. Si crea un divario antropologico che non ha senso e che richiederebbe da parte di tutti una sospensione del giudizio e una maggiore riflessione sulla base degli studi delle scienze sociali che, come illustrato qui, già raccontano una storia molto diversa da quella che siamo abituati ad ascoltare.




“Se stiamo insieme ci sarà un perché”. Il cantiere sempre aperto della coppia

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi capita sempre più spesso di incontrare sia persone singole alle prese con relazioni complicate, sia coppie in crisi che tentano di salvare il salvabile.

Tutti i dati statistici parlano chiaro: separazioni e divorzi aumentano con una certa inesorabile progressione da circa quarant’anni e tutti gli indicatori psicosociali vanno nella stessa direzione: la coppia come architrave del sistema-famiglia è sotto assedio ed è un sottosistema in grandissima crisi identitaria. Personalmente non conosco coppia che non attraversi o non abbia attraversato crisi significative nel corso della propria storia.

La stabilità relativa che caratterizzava le strutture socioantropologiche di coppia e famiglia del recente passato potevano contare su un’organizzazione sociale ed economica completamente diversa  e su una suddivisione dei ruoli e funzioni per la quale alle donne era totalmente delegata la funzione di custodia dell’intero sistema all’altissimo prezzo di una evidente subordinazione sociale e politica. Non c’è da essere nostalgici di un’epoca storica che chiedeva un sacrificio insostenibile di più della metà della popolazione, c’è piuttosto da comprendere cosa possiamo fare da oggi in poi per rendere il sistema più stabile senza creare disuguaglianze inaccettabili.

Ma la transizione da una società stabile ma iniqua a una società stabile ed equa rispetto all’organizzazione delle relazioni di coppia e famiglia evidentemente è lunga e laboriosa e prevede passaggi intermedi di grande confusione durante i quali si perdono del tutto le coordinate dell’essere insieme e soprattutto si confondono e si affastellano caoticamente criteri stabilizzatori precedenti con quelli più recenti. 

Ad esempio chi si trova all’interno di una coppia stabile e di lunga durata, magari con figli e matrimonio, si accorge ben presto che diversamente dalle generazioni precedenti per le quali il matrimonio e la formazione di una famiglia erano di per sé elementi di indissolubilità (e psicologicamente di sicurezza), non sono più sufficienti le procedure simboliche dell’epoca appena precedente socialmente sovraordinate, ma la “manutenzione” del sistema coppia, ricaduta sotto il dominio dei singoli membri della coppia, s’è maledettamente complessificata in misura tale da essere totalmente fuori controllo.

La coppia non ha più l’ombrello simbolopietico del sociale e una donna che, ad esempio, trascura sessualmente un compagno o marito, o un uomo che pensa più al lavoro o a se stesso che alla sua compagna o moglie, non può più fare appello alla stabilità sociale della propria unione, ma dovrà confrontarsi con una endemica crisi interna che, come sappiamo, in molti casi sfocia in una separazione. Non si può più contare sulla “sopportazione” socialmente garantita e se si vuole stare insieme oggi, la coppia è un cantiere costantemente aperto.

Ciò che rende stabile una coppia oggi è delegato all’inventiva e alla capacità di manutenzione dei singoli membri della coppia che spesso non solo non immaginano nemmeno lontanamente di doversi occupare di tale manutenzione come di qualcosa di fragile da accudire e sostenere, ma di fronte ai compiti specifici di cui occuparsi al tal fine risultano piuttosto impreparati e impacciati. 




Ansia, panico e stili di vita contemporanei

Chi opera in ambito psicoterapeutico sa che esiste un nesso tra stili di vita e forme di patimento e che tali forme sono mutevoli in funzione dei mutamenti sociali e culturali. Più difficile è mettere a fuoco cosa di preciso dei nostri stili di vita ci ha cambiato tanto da determinare più o meno direttamente il modo in cui noi soffriamo psicologicamente.

Ad esempio, se pensiamo agli impegni maturatividi noi contemporanei sia nell’area affettiva (relazioni sociali, familiari, sentimentali, sessuali) sia nell’area socio-lavorativa (impegni formativi, lavorativi, sociali, progettualità personali, fondazione e continuità di coppia e famiglia), ci rendiamo subito conto che hanno radicalmente cambiato senso e contenuto non solo per le mutate aspettative/rappresentazioni e relative codificazioni sociali, ma ancor più a monte a causa di una radicale disarticolazione dei cicli vitalidegli individui avvenuta negli ultimissimi decenni della nostra storia, per cui quando oggi noi parliamo di prima infanzia, seconda infanzia, preadolescenza, adolescenza, tardo-adolescenza, età giovanile, età matura, maturità avanzata, terza età, terza età avanzata, non siamo più tanto sicuri di indicare, con queste denominazioni, connotazioni e denotazioni precise e inconfondibili collegate ad esse, tutt’altro. Basti pensare che oggi la parola “ragazzo-ragazza” si estende senza alcun problema e imbarazzo ad individui che oltrepassano i 50 anni. Ma non è solo una questione di denominazione, ogni contemporaneo sotto i 50 se chiude gli occhi e pensa a se stesso non vede un uomo o una donna, ma vedee sente un ragazzo o una ragazza. Letteralmente impensabile fino a soli 20-30 anni fa.

Incrociando dunque impegni maturativi(affettivi e socio-lavorativi) e cicli vitali disarticolatici accorgiamo immediatamente di come bisogni, impellenze, mete interne, aspettative personali, familiari e sociali, sono diventati come dei pezzi di un puzzle che non si incastrano più per formare un disegno intero e coerente.

Rimangono pezzi di un puzzle sparpagliati sul tavolo.

Ma cosa c’entra tutto questo con ansia e panico?

È presto detto. L’ansia e soprattutto il panico possono essere descritti icasticamente come una sorta di “ingorgo psichico”, come cioè una sorta di impallamento legato a sovraccarico di un sistema che non processa ordinatamente i dati e che quindi è costretto a fermarsi per resettare e ricominciare.

In genere invece lo si vive e lo si rappresenta (inizialmente) come una vulnerabilità somatica e non come una vera e propria difficoltà di adattamento assolutamente comune, direi ubiquitaria, di tutte e tutti, relativa a questa oggettiva difficoltà contemporaneaa definire una propria identità, un proprio posto nel mondo, una ordinata successione nel tempo e nella propria percezione autobiografica di compiti maturativi, una propria direzione chiara e autonoma.

Per uno psicologo che come il sottoscritto è abituato a trattare quotidianamente questi sintomi, essi non rappresentano, per quanto oggettivamente drammatici nel loro proporsi nella nostra vita, nulla di particolarmente “grave”, ma sono sintomi assolutamentebenigni, degli ammonimenti utili che anzi ci aiutano a fermarci per ricominciare su altri presupposti, dal momento che i presupposti precedenti ci hanno condotto al malessere. In genere le sintomatologie diminuiscono di intensità dopo non molto tempo dall’inizio di un lavoro terapeutico e molto spesso regrediscono alla fine di esso.

 




Bar-sport-mondo

Ciò che sta accadendo in questi giorni fa molto divertire i vari commentatori politici e sociali. Alcuni dei leader politici stanno utilizzando come strumenti argomentativi dichiarazioni di personaggi dello spettacolo del calibro di Rita Pavone, Jerry Calà e la copertina di una rivista musicale, come se fossero dichiarazioni di personaggi culturalmente accreditati.

Tutto ciò era stato abbondantemente previsto dal filosofo Guy Debord nel lontano 1967 nel suo profetico testo La società dello spettacolo. In tale testo, Debord avvertiva i lettori dell’avvenuto capovolgimento della realtà in apparenza, in spettacolo, e della totale perdita di senso degli atti politici ed economici nella vita reale delle persone. È lo spettacolo stesso che è diventato la nuova merce: senso e contenuto della vita politica della società si sono del tutto svuotati.

Non è affatto strano quindi che nello scambio di opinioni sui social network una dichiarazione di Rita Pavone si contrapponga politicamente a quelle di un gruppo rock americano, i Pearl Jam, che contestano la chiusura dei porti italiani durante un loro concerto a Roma, rispondendo di farsi i fatti propri, e che tali dichiarazioni diventino sintesi politica del leader nazionale che le riprende con spirito patriottico. 

Così come non è affatto strano, sempre in questo clima surreale, che un altro leader riprenda un post a contenuto economico (!) di Jerry Calà, noto comico degli anni ’80, famoso per la sua fatuità, facendo eco ad esso con il tormentone che lo caratterizzava come a sottolinearne l’esattezza del suo pensiero.

Terzo ed ultimo episodio, la copertina di una rivista musicale, Rolling Stones, che nel suo marketing politico-sociale decide di schierarsi contro un leader nazionale (lo stesso di Rita Pavone, ndr) facendo la conta dei personaggi dello spettacolo (appunto) che la pensano diversamente da lui.

Ma non equivocatemi, il mio non è snobismo: il punto non è che sia illegittimo da parte di chicchessia, anche della famosa casalinga di Vigevano, avere opinioni politiche, sociali, economiche, e persino filosofiche, teologiche e scientifiche, e che nel caotico mondo dei social network non sia possibile incrociare le spade su ciascun tema emergente. No, il mondo dei social network è il mondo dell’opinionismo spinto, secondo i greci antichi, è il mondo della doxa, dell’apparenza, dell’opinione comune, che si oppone a quello dell’episteme, del pensiero empiricamente fondato. Tuttavia tutti hanno diritto a prendersi i propri 5 minuti di celebrità dicendo la propria, indipendentemente da quanto sia fondato il proprio pensiero. E magari talvolta si incontra saggezza e pensiero pensante anche nei social network. 

Quello che sta accadendo è però un fenomeno del tutto nuovo e cioè che la doxa ha oramai del tutto fagocitato l’episteme e il parere dell’uomo qualunque ha superato in dignità e peso politico qualunque alto parere accreditato. Tanto è vero che il consulente della comunicazione del principale partito politico italiano è un signore diventato famoso per aver partecipato al Grande Fratello.

Le leadership politiche si allineano totalmente all’opinione delle persone comuni e le riutilizzano, come merce riciclabile, in quanto sono le persone comuni che forniscono il necessario consenso al loro potere.

Le leadership politiche devono fare di tutto per parlare lo stesso linguaggio di Rita Pavone e Jerry Calà perché se ci riescono e si fanno capire da loro hanno raggiunto il vero obiettivo: rappresentarli. La crisi di rappresentanza della nostra democrazia si è totalmente spostata sui media e sul web in particolare, e si è del tutto sciolta e diluita negli effimeri bytes del bar-sport-mondo di un tweet o di un post su Facebook.