Dalle Trobairitz alle Trovatore di oggi

“Note femminili” ha aperto con un salto storico, per festeggiare l’8 marzo in memoria di Mary Ethel Smyth. Da oggi iniziamo una narrazione  cronologica per permettere, a voi lettrici e lettori, di costruire un immaginario storico abbastanza lineare, sotto la lente dell’interpretazione sociologica. Ma non mancheranno interviste a compositrici e musiciste contemporanee, indicazioni su Festival, Convegni, Seminari, Mostre.

E’ dunque un dato di fatto che le compositrici hanno quasi sempre dovuto lottare per ottenere libertà di studiare, di creare e lavorare professionalmente, e la giusta visibilità per le proprie opere. Per far tutto questo hanno seguito strade formali e  informali: nell’ambito della vita quotidiana della propria famiglia, nei micro sistemi sociali di riferimento (Corti, Salotti, Club, ecc), fino ai movimenti di rivoluzione popolare.

Già nell’antichità é possibile trovare le prime musiciste che denunciano le ingiustizie della vita privata e sociale: le trobairitz. Nel Medioevo i trovatori non furono solo uomini: anche alcune donne delle classi inferiori divennero musiciste di corte, e utilizzarono l’arte dei versi non per idealizzare l’amore, ma per denunciare soprusi, tradimenti, infelicità della vita quotidiana. Tra le più famose fu Beatriz, Contessa de Dia vissuta nella seconda metà del XII secolo, la più alta tra le voci femminili della scuola trobadorica. Visse tra la Provenza e la Lombardia. Nei suoi versi, fieri ed eleganti, utilizza un linguaggio spregiudicato per i costumi dell’epoca:

“Devo cantare ciò che non vorrei,

tanto mi amareggia colui di cui sono l’amore,

poiché l’amo più di ogni altra cosa;

con lui grazia e cortesia non mi giovano,

né la mia bellezza, merito o intelletto,

perché sono ingannata, tradita

quanto sarebbe giusto se fossi colpevole”[1].

Anche Azalais de Porcairagues (Portiragnes 1140 –1177) di origini nobili, scrisse in lingua occitana, dedicando la maggior parte dei suoi versi al marito, Gui Guerrejat.

Delle sue testimonianze resta la Vida, con la chanson musicata, Ar em al freit temps vengut:

“ L’amore di una donna è mal servito

Quando si mette a discutere con un uomo ricco,

(uno sopra il rango di vassallo):

E chi lo fa è folle!”

L’eredità delle trobairitz giunge al ‘900, scoprendo nuove modalità compositive con le grandi jazziste e cantanti blues, fino alle più recenti trovatore rivoluzionarie che cantano in difesa di popoli oppressi; per esempio Violeta Parra, Mercedes Sosa, e a seguire, nel  rock esploso contro la guerra, negli anni ’70, nella musica folk-popolare italiana, in cui molte musiciste creano i canti del quotidiano, per denunciare la fatica e le ingiustizie della vita contadina e operaia, la condizione della subalternità femminile e della violenza in famiglia. In particolare ricordiamo Rosa Balistrieri e Caterina Bueno; fino ad arrivare al rap che oggi denuncia la marginalità sociale delle subculture giovanili. Esemplare è la storia di Sonità, una rapper afgana in lotta contro la Sharia. La sua famiglia decide di darla in sposa, a soli quattordici anni, a un uomo disposto a pagare novemila dollari, soldi necessari al fratello di Sonità per comprare una moglie.

I versi della sua canzone gridano:

“Lascia che ti sussurri queste parole, così che nessuno senta che sto parlando delle bambine vendute. La mia voce non dovrebbe essere ascoltata perché contro la Sharia, le donne devono rimanere in silenzio”[2].

All’età di dieci anni Sonità fugge in Iran, lontana dal regime talebano, ma non può frequentare la scuola perché rifugiata e senza documenti, così inizia a frequentare un’ONG dove studia anche musica, con una predilezione per l’hip-hop. A Teheran inizia a cantare la sua storia. Compone un inno alla pace e un brano a favore di elezioni democratiche in Afghanistan, superando il divieto che proibisce alle donne di fare musica in Iran.

Forse, come scriveva Herbert Marcuse, una reale azione utopica e rivoluzionaria avverrà grazie alle popolazioni ribelli di Paesi considerati del “Terzo Mondo”, perché:

“Queste categorie permangono al di fuori  del processo democratico; la loro presenza prova come non mai, quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili”[3].

La sociologa e scrittrice marocchina, Fatima Mernissi, già negli anni ’80 aveva previsto che l’uso di internet sarebbe potuto essere uno strumento di emancipazione e di maggior apertura e libertà per le donne e per quei popoli soggetti alla censura e dunque all’impossibilità anche solo ipotetica di entrare in contatto con altri mondi:

«Educazione é conoscere i hudud, i sacri confini, asseriva Lalla Tam, direttrice della scuola coranica dove, all’età di tre anni, fui mandata a raggiungere i miei dieci cugini. […] Io desideravo tremendamente di compiacere Lalla Tam, e una volta che lei non era a portata d’orecchio chiesi a mia cugina Malika, di due anni maggiore di me, se poteva mostrarmi il punto esatto dove si trovavano i hudud. Da allora, cercare i confini é diventata l’occupazione della mia vita.[4]»

 

[1]Le manuscript du roi, canzoniere copiato nel 1270 per Carlo D’Angiò.

[2] Dal Rap “Bride for sale”. La storia di Sonita é raccontata nel documentario “Sonita” diretto da Rokhsareh Ghaemmaghami e presentato in anteprima al Biografilm Festival di Bologna.

[3] Cfr. Herbert  Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1968, pag. 57.

[4] Cfr., Fatima Mernissi, La terrazza proibita. Vita nell’harem, Firenze, Giunti, 1996, pag. 42.




La breve storia di Santa Cecilia, patrona della musica

È significativo il fatto che Santa Cecilia, patrona della musica, simbolo di uno dei più prestigiosi conservatori del mondo, non fu mai musicista. Cecilia era una ragazza patrizia che volle consacrarsi alla verginità tanto che fece convertire il suo sposo al cristianesimo, e per questo motivo furono entrambi condannati a morte. In seguito Cecilia fu canonizzata e raffigurata con uno strumento musicale tra le braccia.

Venerata come martire e patrona dei musicisti e dei cantanti, appartenne a una delle più illustri famiglie romane e nel III secolo fu una delle più grandi benefattrici della Chiesa.
Secondo un testo, più letterario che storico, sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano ma durante la festa nuziale tra melodie e musiche, il suo cuore cantava lodi a Dio, al quale era stata consacrata.
Condannata a morire nelle acque bollenti delle terme, rimase miracolosamente illesa e invano un carnefice tentò per tre volte di decapitarla.
L’agonia durò quattro giorni poi venne deposta nella tomba vestita di broccato d’oro.
Il fatto che la Santa romana sia stata considerata patrona dei musicisti, si spiega appunto con un passo della leggendaria “Passione” in cui si racconta che mentre gli organi suonavano, ella nel suo cuore, cantasse inni al Signore.

È dunque quanto mai stravagante il motivo per cui Cecilia sarebbe diventata patrona della musica. In realtà, un riferimento su Cecilia e la musica è documentato a partire dal tardo Medioevo. La spiegazione più plausibile sembra quella di un’errata interpretazione dell’antifona di introito della messa nella festa della santa (e non di un brano della Passio come talvolta si afferma). Il testo di tale canto in latino sarebbe: Cantantibus organis, Cecilia virgo in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat Domine cor meum et corpus meum inmaculatum ut non confundar (“Mentre suonavano gli strumenti musicali, la vergine Cecilia cantava nel suo cuore soltanto per il Signore, dicendo: Signore, il mio cuore e il mio corpo siano immacolati affinché io non sia confusa”). Per dare un senso al testo, tradizionalmente lo si riferiva al banchetto di nozze di Cecilia. Da qui il passo a un’interpretazione ancora più travisata era facile: Cecilia cantava a Dio… con l’accompagnamento dell’organo. Si cominciò così, a partire dal XV secolo (nell’ambito del gotico cortese) a raffigurare la santa con un piccolo organo portativo a fianco. In realtà i codici più antichi non riportano questa lezione dell’antifona. Gli “organi”, quindi, non sarebbero affatto strumenti musicali, ma gli strumenti di tortura, e l’antifona descriverebbe Cecilia che “tra gli strumenti di tortura incandescenti, cantava a Dio nel suo cuore”. L’antifona non si riferirebbe dunque al banchetto di nozze, bensì al momento del martirio. Dedicato alla santa, nel XIC secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e altri studiosi, che intendevano restituire dignità alla musica liturgica sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare. Sotto il nome di Santa Cecilia sorsero così scuole, associazioni e periodici. Cecilia, in quanto patrona della musica e musicista lei stessa ha ispirato più di un capolavoro artistico, tra cui l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, oggi a Bologna (una copia della quale, realizzata da Guido Reni, si trova nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Ricordiamo anche le raffigurazioni di Santa Cecilia di Rubens, a Berlino, del Domenichino, a Parigi, e di Artemisia Gentileschi. In letteratura, Cecilia è stata citata nei Racconti di Canterbury di Chaucer, in un’ode di John Dryden, poi in una messa di Haendel nel 1736, e da  Hubert Parry nel 1889. Altre opere musicali dedicate a Cecilia includono l’Inno a santa Cecilia di Britten, la più nota Missa Sanctae Ceciliae di Haydn, e a seguire la messa di Scarlatti, la Messe Solennelle de Sainte Cécile di Gounod, Hail, bright Cecilia! Di Purcell e infine l’Azione sacra in tre episodi e quattro quadri di Refice (su libretto di Emidio Mucci) nel 1934. 




Le compositrici italiane del ‘700 tra Illuminismo e cosmopolitismo

Tra Kant e l’Illuminismo europeo le compositrici italiane trovarono alcuni spazi di affermazione: viaggiarono con maggior libertà e talvolta si trasferirono a vivere in alcune corti europee. Pubblicarono e fecero eseguire le proprie opere a proprio nome, ma spesso dovettero rinunciare ai ruoli sociali consoni alla propria professione. Di alcune di loro restano fortunatamente le opere e la fama, ma difficile è ricomporre chiaramente le tracce biografiche.

Poco si sa della vita di Antonia Bembo (Venezia, 1670?- Parigi, 1720?) si pensa sia stata allieva di Giovanni Legrenzi, maestro di cappella di San Marco e figlia della nobile famiglia Bembo. Si trasferì a Parigi come cantante e poi presso la corte di Luigi XIV. A Parigi scrisse l’opera Ercole amante (1707) e Produzioni armoniche composte da 40 brani ispirati a testi sacri in latino, francese e italiano, dedicati al Luigi XIV. Comporrà molta musica per celebrare le nozze del re, per la nascita del principe e un Te Deum per Conservare la Salute del Re. Fu definita anche Maestra di Cappella. Le sue musiche sono custodite manoscritte in diversi musei francesi. 

Maria Teresa Agnesi Pinottini (Milano 1720 – Milano 1795) compose opere liriche e sinfoniche. Sorella della nota matematica Maria Gaetana D’Agnesi. Si ipotizza che abbia iniziato come clavicembalista e che per difficili condizioni sociali riuscì a far eseguire le sue opere dall’età di trentatré anni. Utilizzò stili compositivi innovativi per l’epoca, ad esempio l’intreccio di due diversi cori per accompagnare lo svolgimento di un’azione mitologica, come nell’opera Nicotri in cui narra la storia della Regina di Babilonia. Solo alcune delle sue opere furono stampate dopo la sua morte.

In Inghilterra Elisabetta de Gambarini (Londra 1731 – Londra 1765) fu una stimata organista, cantante, compositrice e direttrice d’orchestra. Esordì a quindici anni esibendosi nell’Occasional Oratorio di Handel, continuando sempre a collaborare nelle sue rappresentazioni: Judas Maccabeus, Giuseppe e i suoi fratelli, Samson, Messiah. 

Compose soprattutto musica per clavicembalo e songs, riscuotendo successo di pubblico e di critica.  

Figlia di un diplomatico italiano visse prevalentemente in Inghilterra. La sua vita fu breve ma ricca di riconoscimenti e di spazi dove rappresentare le sue opere, tanto da dirigere orchestre, quando in Italia le donne difficilmente potevano accedervi.  

Anna Bon (?1739- ?1767) nata in una famiglia di artisti viaggiò con loro per tutta Europa. A quattro anni studiò la viola all’Ospedale della Pietà di Venezia, entrando poi nel coro. Antonio Vivaldi insegnava presso la Pietà e nessun altro posto al mondo, fino ad allora, aveva permesso alle fanciulle una tale educazione musicale. 

A Brandeburgo ricoprì il posto di virtuosa di musica da camera presso la corte Kulmbach. Dedicò al Margravio Sei sonate per flauto e cembalo, scritte e pubblicate all’età di sedici anni. Con la famiglia cambiò diverse Corti dove compose sempre musica da camera, in onore di principi e principesse. In particolare fu virtuosa presso la corte del principe ungherese von Esterhazy, contemporaneamente ad Haydn, che lavorava presso di lui in qualità di Maestro di Cappella. 

A Roma Maria Rosa Coccia (Roma 1759 – Roma 1833) già a tredici anni compose l’Oratorio Daniello nel Lago dei Leoni eseguito a Roma nella Chiesa Nuova riscuotendo approvazione e pubblici elogi. Scrisse sempre nello stesso anno L’isola disabitata su testo di Metastasio. A soli quindici anni superò l’esame come Maestra di Cappella presso la Confraternita di Santa Cecilia: la prima donna in Italia a ricoprire un ruolo che fu esclusivamente maschile. A venti anni divenne anche Accademica della Filarmonica di Bologna. Nonostante questi riconoscimenti non ebbe mai un lavoro fisso in qualità di Maestra di Cappella presso un’istituzione religiosa.  Dedicò tutta la sua vita alla composizione musicale.




Le musiciste e compositrici della musica popolare-folklorica italiana (prima parte)

Sono state attive protagoniste della memoria sociale, custodi, divulgatrici e creatrici della musica popolare delle diverse regioni italiane: musiciste geniali, ricercatrici, che oggi definiamo interpreti della musica folk. Già nell’antichità le trovatore utilizzarono il canto e la musica per denunciare ingiustizie private e sociali.

1. Giovanna Daffini

Nella prima metà del Novecento, da Nord a Sud dell’Italia, ricordiamo Giovanna Daffini, nata a Villa Saviola di Motteggiana, presso Mantova, nel 1914 e morta a Gualtieri, presso Reggio Emilia nel 1969, che iniziò giovanissima a suonare come ambulante e divenne una delle esponenti di spicco del Nuovo Canzoniere Italiano. Lavorava nelle risaie e da mondina, “con la voglia di libertà”, iniziò a interpretare brani celebri, narrativi della tradizione padana e in seguito, grazie alla sua partecipazione alla Resistenza, brani di lotta sociale: Amore mio non piangere, L’amarezza delle mondine, Bella ciao, La lega, A morte la casa Savoia, Sacco e Vanzetti. Con il marito, il violinista Vittorio Carpi, si esibì in feste popolari e fu scoperta da Gianni Bosio e Roberto Leydi, con i quali collaborò come informatrice e cantante. Le sue reinterpretazioni di canzoni popolari e il timbro della sua voce, aspro e aggressivo, definito spesso “eversivo”, ben rappresentavano l’anima della lotta di classe, della denuncia sociale e politica di quegli anni. È stata sicuramente una musa ispiratrice per le cantanti folk italiane, come Giovanna Marini; ammirata dalla generazione rock e riscoperta negli anni Novanta come una madre del punk. 

Risale al 1964 la sua prima produzione discografica. 

Giovanna Salviucci Marini (Roma 1937, foto di copertina) cantautrice, interprete e ricercatrice etnomusicale si diplomò in chitarra classica al Conservatorio di Santa Cecilia e si perfezionò con Andreas Segovia. In seguito all’incontro con Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Roberto Leydi, Gianni Bosio e Diego Carpitella scoprì il valore del canto sociale e politico, e promosse quindi sia spettacoli in tutta Italia, sia lo studio e la trasmissione della musica folklorica. Nel 1974 fondò con un gruppo di musicisti e musiciste la Scuola popolare di musica di Testaccio a Roma, di cui è attualmente presidente onoraria. Con l’Istituto Ernesto De Martino, si è dedicata alla raccolta di canti di tradizione orale e ha inventando un sistema di notazione musicale che permette di trasportare la storia orale cantata sul palcoscenico. Con i suoi allievi ha condotto decine di viaggi di studio per ascoltare e registrare i canti di tradizione orale ancora presenti in Italia nelle feste religiose o profane. Nel 1976 ha fondato il Quartetto Vocale per il quale compone le “Cantate” e con il quale si esibisce in concerti e tournées in Italia e all’estero. Numerosi sono i premi e i riconoscimenti ricevuti (tra i quali Premio Tenco, Premio Maria Carta, Commendatore della Repubblica Italiana) come pure le collaborazioni con grandi artisti  e registi italiani, quali: Dario Fo, Francesco De Gregori, Ascanio Celestini, Nanni Loy, Citto Maselli, Paolo Pietrangeli e Yervant Gianikian. 

2. Maria Carta

Maria Carta nacque a Siligo (Sassari) nel 1934 e morì a Roma nel 1994. Cantautrice e attrice, dedicò tutta la sua vita di ricerca alla musica sarda e alla sua divulgazione, rivitalizzando ninne nanne, gosos, canti rituali religiosi e canti gregoriani. Studiò musica popolare nel centro di Carpitella al Conservatorio di Santa Cecilia, continuando sempre a svolgere ricerca etnografica. Nel 1971 la Rai trasmise un documentario su di lei, Incontro con Maria Carta. Nel 1975 pubblicò il volume di poesie Canto rituale, ma lasciò anche numerosi inediti di grande intensità. I più prestigiosi teatri europei hanno ospitato il suo Canto della memoria e, in particolare, si ricorda il tour sardo con Amália Rodrigues. Come attrice ha lavorato con Francis Ford Coppola e Franco Zeffirelli. Il suo è un canto necessario alla vita: «Ho sempre detto che scacciavo le Ombre dalla mia strada solo attraverso la mia voce […] Avevo paura del buio, sentivo echi di passi, sapevo che erano loro, le Ombre, che mi accompagnavano dal mondo del passato. Allora cantavo a voce delirante».

3. Sassari, intitolazione a Maria Carta (foto di Teresa Spano)

Arriviamo ora in Sicilia, a cui è stata data voce da Rosa Balistreri (Licata, 1927 – Palermo, 1990) cantante e cantastorie. Figlia di un padre violento, lavorò fin da giovane nei campi, nei mercati e come domestica. Scoprì la sua voce e il canto per dare sfogo alla propria rabbia per le condizioni di vita personali, e poi collettive, della sua terra. Dichiarò: «Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto. Diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra. Le mie storie di miseria provocheranno guai a molti pezzi grossi il giorno in cui l’opinione pubblica sarà più sensibile ad argomenti come la fame, la disoccupazione, le donne madri, l’emigrazione, il razzismo dei ceti borghesi…». Il timbro della sua voce, forte e originale, le permise di esprimere tutta la drammaticità della sua vita gravata, per due volte, dal carcere per vicende di vita privata. Nel 1966 partecipò allo spettacolo di canzoni popolari portato sulle scene da Dario Fo, dal titolo Ci ragiono e canto. La sua prima produzione discografica risale al 1967 con La voce della Sicilia, alla quale seguirono: Un matrimonio infelice (1967), La cantatrice del Sud (1973),  Amore tu lo sai la vita è amara (1971), Terra che non senti (1973), Noi siamo nell’inferno carcerati (1974), Amuri senza amuri (1974), Vinni a cantari all’ariu scuvertu (1978), Concerto di Natale (1985).

4. Licata (AG), in memoria di Rosa Balistreri (foto di Giovanni Savio)




Francesca Caccini, Compositrice della prima opera lirica italiana rappresentata all’estero

Francesca Caccini nasce nel 1587, nella corte Medicea, primogenita in una famiglia di musicisti, all’età di tredici anni si esibì, forse per la prima volta, in pubblico, cantando nel Concerto Caccini, in occasione del matrimonio di Maria dei Medici con Enrico IV, Re di Francia. Oltre a distinguersi come cantante, venne istruita dal padre, il famoso Giulio Caccini, alle lettere; scrisse poesie in latino e nella lingua volgare, apprese le lingue straniere: cantava in francese e in spagnolo, aprì una scuola di canto, e dal 1619 già si parla delle sue discepole. Suonava il liuto, il chitarrineto e il clavicembalo e all’età di diciotto anni iniziò a comporre.

La Cecchina, come poi fu solito chiamarla e ricordarla, viene definita come donna di grande cultura, sensibile, di un carattere forte, esuberante, insolito, forse tipico di un altrettanto insolita genialità.

Grande fu lo spazio che conquistò come compositrice: iniziò a musicare le poesie di Michelangelo Buonarroti il Giovane, scrisse madrigali, ballate, variazioni, musica per voce, e un melodramma. Nel 1607 entra ufficialmente al servizio della corte e divenne la musicista più pagata: passò dai 10 ai 20 scudi mensili, guadagnando più del marito, il cantante Giovan Battista Signorini.

Nel 1618 viene pubblicato il suo primo libro di musica a una e due voci.

Indubbiamente fu forte l’influenza del padre sulle sue prime composizioni ma nella sua prima Ooera Romain Rolland vi trovò, secoli dopo, l’espressione di una delicata individualità di insigne artista, “in cui riflette già l’influsso del genio di Monteverdi e per questo la Caccini rimarrà vicina a noi più degli altri compositori fiorentini dell’epoca sua”.

Viaggiò in tournée per le corti italiane ed europee, rappresentando a Varsavia, in onore del principe ereditario polacco Ladislao Sigismondo, proprio la sua prima opera La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, che porterà la dedica al futuro re. E’ la prima opera italiana, scritta da una donna a essere rappresentata all’estero.[1]

Eppure, nonostante la fama e il successo già nel 1700 la Cecchina cade nell’oblio. Nel 1847 la sua persona e la sua arte vengono rievocate in un articolo pubblicato nella Gazzetta Musicale di Milano. L’Ambros nella Storia  della Musica ne scrive con profonda ammirazione: “Francesca era un genio, essa aveva l’ispirazione musicale anche più del suo celebre padre e nella sua opera ha eretto un monumento veramente fastoso al suo straordinario talento”. Romain Rolland la colloca al di sopra su tutte le donne compositrici conosciute nella storia della musica.

Ma viene attaccata violentemente dal musicologo tedesco Ugo Goldschmidt, la Cecchina a suo parere è stata sopravvalutata “La musica della Cecchina è misera e inetta. La sua volgare melodia e il suo disperato basso sono ancora forse i più felici particolari della sua musica”. Definisce la Liberazione di Ruggiero non Opera ma Balletto.

Certo è strano che proprio quest’opera passi alla storia come la prima che si ricordi tra le opere italiane ad aver varcato le Alpi e che diede l’impulso per affermare la supremazia del genio italico nel campo del teatro lirico.

Alla fine del 1626 il marito muore e con questa morte si perdono le tracce anche della Caccini. Rimane un unico ricordo di un contemporaneo che scrive: “Ella si rimaritò in un lucchese lasciando il servizio di queste Altezze et morì di cancro alla gola”.[2]. Dal 1640 non è più ricordata come vivente.

Francesca Caccini nasce e vive in un ambiente d’eccezione: tra un padre, un marito e una corte che oggi definiamo liberali, che le permisero di lavorare, di esprimere il proprio talento, di coltivarlo, di affinarlo, di viaggiare, di conoscere e di confrontarsi con realtà diverse. Le fu concesso e richiesto di esibirsi nelle chiese, luogo interdetto alle donne. Ma il suo successo ottenuto non è dovuto soltanto all’essere nata in una famiglia di musicisti straordinari, ad aver ricevuto un altrettanto straordinaria preparazione musicale, culturale, la sua fortuna fu anche quella di conoscere le più importanti figure letterarie e artistiche del periodo, raggiungendo una posizione tale che le consentì di comporre per una compagnia, e di far eseguire i suoi lavori.

Della sua vita è un mistero e una sorpresa lo scomparire dietro la morte del marito. Una vita da protagonista di corte, indipendente, come lo poteva essere una donna nel 1600, si dilegua e muore nell’anonimato, nell’irraggiungibile. Una semplice coincidenza?

Non si può attribuire, questa sua assenza dalle stagioni concertistiche, come risultato di critici accaniti, perché ve ne furono per la maggioranza in sua ammirazione.

Eppure le sue composizioni sono cadute vittime del pregiudizio che ne ha impedito la presenza nella storia della musica. Recentemente, in Italia, Elena Sartori, direttrice d’orchestra, e studiosa della letteratura e arte rinascimentale e barocca, ha eseguito le musiche di Francesca Caccini e ha prodotto un’importante discografia (in copertina).

Negli anni ’90 fu sempre una direttrice d’orchestra, Elke Mascha Blankenburg, a far eseguire dopo secoli di silenzio, la famosa Liberazione di Ruggiero, in un Festival musicale di Montepulciano.

Consigli di ascolto:

https://www.youtube.com/watch?v=U6ND6O_4a-A

https://www.youtube.com/watch?v=Rn129DOrmyQ

https://www.youtube.com/watch?v=oJOV_lMOpmk

 

[1]La liberazione di Ruggero dall’isola di Alcina, scritta nel 1625, è custodita nella Biblioteca di Santa Cecilia. Nello stesso periodo scrisse Rinaldo Innamorato, rimasto manoscritto e di cui oggi non se ne ha più traccia.

[2]Dizionario Biografico degli italiani, voce a cura di Liliana Pannella, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1973, pag. 21.




Direttrici d’orchestra. Ieri e oggi

Persone e musica sono un’unica cosa.

La musica d’insieme è la più bella società esistente!

Il suono dell’orchestra, i colori, il repertorio,

essere uniti in quaranta anime”.

Elke Mascha Blankenburg

 

Vedere su un podio una donna dirigere un’orchestra è ancora molto raro. Raro ma non impossibile. Nel ‘900 molte donne hanno studiato, spesso come autodidatte, perché generalmente i maestri non le accettavano nelle proprie classi di insegnamento, ma sono comunque riuscite a dirigere importanti orchestre.

Già nelle antiche civiltà del Mediterraneo esistevano musiciste che possono definirsi direttrici di coro e di piccoli complessi musicali, forse i primi esempi di attività direttoriale femminile. Tra le più antiche si ricorda Miriam, nata nel 1200 a.C. descritta nella Bibbia come cantante, danzatrice e direttrice di un coro femminile; è la stessa Miriam che posa in un cesto il piccolo Mosè per salvarlo dall’uccisione dei figli maschi ordinata dal Faraone.

Nella storia occidentale, fin dal 1600, sono sempre stati i compositori a dirigere le proprie opere: come Francesca Caccini e Claudio Monteverdi, spesso suonando il clavicembalo, come tra il ‘600 e il ‘700 anche Jean-Baptiste Lully ed Elisabeth Jacquet de la Guerre, compositrice alla corte di Louis IV, Re Sole, la quale dirigeva a Parigi e a Versailles i suoi Balletti e le sue Cantate. A partire dal 1700 i compositori e le compositrici hanno diretto sempre più spesso suonando il clavicembalo o il violino di spalla: divenne nota la compositrice Marianna Martinez, amica di Mozart e che diresse a Vienna le sue Messe e Oratori.

Dopo il 1850 si afferma la professione del direttore d’orchestra non più coincidente con il compositore che dirigeva e faceva eseguire le proprie musiche, divenendo una prassi largamente riconosciuta nel 1900. Vi furono continui scambi di ruoli tra direttori d’orchestra e compositori: Fanny Mendelssohn diresse opere di Gluck, di Mozart, di Beethoven e Felix Mendelssohn diresse l’orchestra di Königsstadt nelle famose serate musicali di Berlino.

La direttrice d’orchestra, Elke Mascha Blankenburg fondò nel 1978 l’associazione “Donne e musica” con la quale pubblicò e fece rappresentare musiche di compositrici, in particolare di Fanny Mendelessohn e Marianna Martinez, scoperte da lei stessa. Autrice di un’importante ricerca dedicata alla storia delle direttrici d’orchestra e alla loro presenza nel mondo[1], ha raccolto le loro biografie nei percorsi formativi e professionali. In questo libro Blankenburg scrive:

“Quando mi alzo per dirigere non penso, se sono un uomo o una donna. «Faccio il mio lavoro», diceva 74 anni fa Nadia Boulanger quando un giornalista le chiese come si sentiva come donnaal podio. Questa domanda è ancora oggi una delle prime che vengono rivolte alle direttrici d’orchestra, e ognuna di loro risponde più o meno pazientemente allo stesso modo. C’è un muro da parte degli agenti, degli organizzatori di teatri e festival, perché questo essere sensazionaleserve per creare curiosità, aiuta a vendere ma anche a conservare le donne nella ghettizazione. Quando una donna sale al podio per dirigere è quasi impossibile che la stampa non dia l’eco della sensazionalità che «Una donna dirige!».

Si leggono diversi titoli: “Una donna addomestica 60 uomini” – “Una donna è come un uomo al podio” – “La bacchetta nella morbida mano”. Spesso le recensioni iniziano con la descrizione degli abiti indossati. Il Die Zeit,nel 1977 scriveva su Hortense von Gelmini ” Sinfonia in bionda” – “Rosso diventa solo nel fortissimo”. “Sarebbe meglio se dirigesse nuda.”
Nel 1996, Süddeutsche Zeitungpubblica su Simone Young: “Questa giovane donna delicata, in un completo di seta nero porta scarpe con tacco così alto, che si deve pensare che le ha comprate in un negozio sado-masochista”. E ancora, il Die Weltscrive nel 2000, sempre su Simone Young, Titolo: “stiletto-pumps per l’Opera di Sidney” “Simone Young, una piccola bersagliera con capelli rossi, con uno smoking stretto e stiletto-pumps sarà direttrice d’orchestra all’Opera di Sidney.”
Infine, quando nel 2002 Lisa Xanthopoulou vinse il primo premio di un importante concorso a Bad Homburg, concorrendo tra 50 uomini, viene pubblicato: “La prima volta che una donna si afferma in un mondo ancora maschile.”
Eppure già nel 1929 Lise Maria Mayer dirige i Berliner Philharmoniker con la IV Sinfonia di Beethoven, e l’Ouverture “Euryanthe” di Carl Maria von Weber, più una sua composizione dal titolo “Kokain”, le succede nel 1930 Antonia Brico con opere di Händel, Schumann e Dvorak.

Echeggiano le parole di Thomas Beecham, il quale sosteneva: “Non voglio donne in orchestra perché se sono belle mi distraggono, ma se sono brutte non posso guardarle”.

È interessante, sottolinea Blankenburg, che fino ad oggi non troviamo una direttrice con una posizione fissa oltre i 55 anni di età. Le direttrici  più anziane non sono chieste da nessun parte, riescono ad imporsi solo se giovani e belle. “La maturità nell’interpretazione, la conoscenza della pratica musicale, un orecchio esperto, non contano. Invece il pubblico ascolta con fervore i concerti, diretti da signori di settanta, ottanta, novant’anni. Infatti Pierre Monteux dirige la London Symphony Orchestracon un contratto stabile: all’età di 80 anni ha ricevuto un prolungamento per 25 anni; Leopold Stokowski ha sottoscritto a 92 anni un contratto con la RCA per altri 10 anni.”

Sicuramente, nella storia moderna un numero esiguo di donne ha avuto la forza di imporsi nella direzione d’orchestra e soprattutto in un ambiente così chiuso. Vale la pena citarle: Ethel Leginska, inglese (1886-1970); Antonia Brico, olandese (1902-1989); Mary Ethel Smyth, inglese (1858-1944); Carmen Campori Bulgarelli, italiana (1910-1965); Mary Davenport Engberg, americana (1881-1951); Florica Dimitriu, romena (1915-1993); Vitezslava Kaprálová, ceca (1915-1940); Elisabeth Kuyper, olandese (1877-1953),Veronika Borisovna Dudarova(Baku, 1916-2009)..

Oggi, in Italia, purtroppo nessuna donna ha la direzione artistica di un teatro o di un ente concertistico, come invece già accade in altri paesi europei, negli Stati Uniti, o in Australia. Una più fitta presenza di donne nell’ambito della direzione d’orchestra si ha a partire dal 1988, ma in modo sostanziale dal 1995 ad oggi, in particolare con Julia Jones e Claire Gibault. Nel sito www.dirigentinnen.detroviamo i curriculum di 96 direttrici del mondo occidentale, di cui dieci italiane. Tra le italiane coloro che dirigono importanti orchestre sono Nicoletta Conti e Silvia Massarelli. Nei corsi di direzione di orchestra, in media su cento diplomati solo cinque sono donne, di queste una minoranza riesce effettivamente a dirigere un’orchestra. Vi sono delle eccezioni, per esempio Nicoletta Conti si è diplomata in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra, è divenuta assistente di Leonard Bernstein, ha debuttato dirigendo l’orchestra di Santa Cecilia, ha diretto l’Orchestra Arturo Toscanini, la Covent Garden e la Royal Philarmonic Orchestra, ma non ha un’orchestra stabile.

Per rompere la barriera sedimentata nei secoli, le donne crearono delle orchestre tutte al femminile come la “Vienna Ladies Orchestra” (1867), diretta da Josephine Weinlich, oppure “Fadette Women’s Orchestra”(1868), diretta da Caroline Nichols, o la “Philadelphia Symphony Orchestra” (1921), diretta da F. Lehman.

L’America sembra essere il Paese più aperto e democratico per quanto riguarda la presenza delle direttrici d’orchestra: sono 52 le donne negli Stati Uniti che dirigono stabilmente un’orchestra, tra cui due direttrici d’orchestra afro-americane: George Robert e Margaret Harris. Nel 1903 il sindacato americano decise di interrompere la discriminazione, così le donne furono finalmente accettate.

Oggi giovani direttrici continuano a fondare orchestre indipendenti, come ha fatto Alondra de la Parra (1980). La sfida di oggi è quella non solo di non considerare più una direttrice d’orchestra un’eccezione alla regola, ma anche la possibilità che si possano scegliere programmi concertistici con musiche composte da uomini e donne.

 

 

 

[1]Elke Mascha Blankenburg, Dirigentinnen im 20. jahrhundert, Hanmburg, 2003, pag. 9.




Le compositrici italiane del ‘500 e del ‘600: cortigiane e religiose

Francesca Caccini fu sicuramente un’eccezione per la sua genialità e la possibilità di esprimerla e affinarla in una corte, quella Medicea, che ambiva all’eccellenza, ma non fu la sola compositrice del periodo, nei conventi e monasteri emergono molte altre musiche. Le corti italiane, a Mantova, a Milano, a Venezia, a Ferrara, a Urbino, diedero ampio spazio alle musiciste, duole però rilevare che talvolta la loro fama fu accompagnata dall’appellativo di cortigiana, ossia: donna dai facili costumi. Anche l’iconografia del tempo ci riporta immagini tutt’altro che professionali.

Di Francesca Caccini resta solo un medaglione marmoreo con scolpito il suo volto, ma Barbara Strozzi sembra piuttosto un Erinni che una compositrice… Purtroppo anche nel XXI secolo assistiamo a titoli dei media dove la bellezza di una donna viene esaltata come prima dote, anziché la sua genialità. Come ci insegna Mary Wollstonecraft, nel 1700 conoscere questo passato costringe a chiedersi come e perché, a distanza di secoli, in contesti radicalmente diversi, possano riaffiorare (travestiti nei panni della modernità) aspetti arcaici del rapporto fra sessi, trasmessi dal sistema mediatico che implicitamente e subdolamente li propone come modello.

 

Tra il ‘500 e il ‘600 non furono poche le musiciste famose ai loro contemporanei che poterono dunque studiare ad alto livello, rappresentando e diffondendo le proprie opere in forma scritta. Ripercorriamo alcune delle loro vite e opere.

Maddalena Casulana (Casuale d’Elsa 1540? – 1583?), nota a Venezia come liutista e cantante, fu tra le prime a stampare la propria musica. Compose la prima collezione di Madrigali nel 1566, con il titolo Il Desiderio. Amica di Isabella de’ Medici le dedicò alcuni Madrigali, e Orlando di Lasso mise in scena il suo Primo libro di Madrigali alla corte di Alberto V, a Monaco. Poco altro si sa della sua vita.

Stampando il suo primo libro di Madrigali scrisse: “Voglio mostrare al mondo per quanto possa in questa professione di musicista, l’errore vano degli uomini che credono di essere gli unici a possedere i doni dell’intelletto e dell’arte e che tali doni non vengano mai dati alle donne”.

La più conosciuta ai nostri giorni, interpretata in vaste discografie, è sicuramente Barbara Strozzi (Venezia 1619 – Padova 1677), compositrice e soprano (in copertina), nota come virtuosa a Venezia, dove si esibì presso l’Accademia degli Unisoni, fondata dal padre. Dedica il Primo Libro dei Madrigali alla Duchessa di Toscana. Le sue composizioni comprendono cantate, arie e duetti; compose prevalentemente per voce soprano. In particolare si ricordano Sacri musicali affetti e Ariette a voce sola. Fu definita cortigiana di alta classe, perché conduceva una vita libera, autonoma, tanto che ebbe quattro figli senza mai sposarsi.

FOTO. Vittoria Aleotti

Entriamo nei conventi: Vittoria Aleotti (Ferrara, 1575 – 1620) iniziò ancora bambina lo studio della musica, ascoltando le lezioni impartite alla sorella maggiore e proseguì gli studi musicali presso il convento ferrarese di San Vito. Il padre ottenne per lei da Battista Guarini alcuni madrigali da porre in musica, che furono stampati a Venezia nel 1593 con il titolo Ghirlanda de madrigali a quattro voci. Oltre all’edizione veneziana, uscì a nome di Vittoria anche un madrigale a cinque voci (Di pallide viole). C’è la possibilità che Raffaella, ritenuta la sorella maggiore, sia stata in realtà la stessa persona, che avrebbe mutato nome al momento di prendere gli ordini.

Sulpitia Ludovica Cesis (Modena 1577 –?) era una monaca agostiniana, liutaia e “compositore” (com’è definita nei documenti dell’epoca). Di lei sono rimasti stampati solo i Mottetti Spirituali del 1619, dove troviamo preziose informazioni sulla prassi esecutiva musicale in uso a quei tempi nei conventi italiani femminili. Difficile spiegare come abbia potuto divulgare musiche pensate per cornetti, tromboni, viole e violoni, perché in pieno contrasto con i dettami della Chiesa, che aveva proibito nei conventi l’uso di strumenti musicali diversi dall’organo.

La suora benedettina Caterina Assandra(Pavia, 1590 –1618) fu subito appoggiata dall’editore e musicista Filippo Lomazzo, che nel 1606 le dedicò una raccolta di madrigali. Studiò contrappunto con Benedetto Re, uno dei principali organisti e maestri di cappella lombardi dell’epoca. La sua prima opera fu una raccolta di Mottetti a due e tre voci e di lei resta anche un bellissimo Salve Regina.

Ebbero grande eco le composizioni della suora orsolina Isabella Leonarda(Novara 1620 –1704), interamente dedicata alla musica sacra, in cui prevale il mottetto per voce sola con l’accompagnamento dell’organo o, in qualche caso, di pochi strumenti. Isabella arrivò a sperimentare la sola scrittura strumentale, componendo una sonata, e dunque andando contro le regole monastiche.

La vita di queste religiose dimostra che, oltre ogni limite e censura, anche il monastero divenne luogo dove esprimere il proprio talento, sfidando la Chiesa al suo interno, come fece Ildegarda di Bingen già nel Medioevo. Ed è evidente che anche le loro musiche influenzarono lo sviluppo della musica polifonica rinascimentale




La storia di Elke Mascha Blankenburg, Direttrice d’Orchestra (seconda parte)

Oggi e la prossima settimana potrete leggere alcuni estratti dalla storia di Elke Mascha Blankenburg. La sua storia è parte della storia collettiva, è il vissuto di chi, determinata, stupita e felice, scopre centinaia di compositrici vissute in ogni tempo e luogo del mondo. È la lotta per la propria affermazione come direttrice d’orchestra, unita all’impegno costante per la divulgazione delle donne che hanno composto nuove musiche.

Quanti anni avevi quando hai diretto il primo concerto?

Ventisette anni. 

Tuo padre ti ha osteggiata?

Era contrario, ma la nostra casa era sempre piena di musica. Naturalmente l’idea che aveva di me era quella di studiare la musica perché bella, ma non perché diventasse un lavoro, fino a quando non mi sarei sposata poteva andare bene, ma dopo? Questa era la sua preoccupazione. Dopo sposata avrei potuto suonare per il piacere della casa, per gli amici… Mia madre aveva lasciato la musica per la famiglia. Nessuno dunque mi ha mai sostenuta al pensiero di vivere con la musica. Neanche io pensavo di fare carriera! Ho iniziato a insegnare ai bambini, ho fatto dei concerti. Con il tempo ho capito che non tutto è il prodotto dei nostri errori, la società ha fatto del male alle donne. Quando penso agli uomini che ridono quando dirige una donna!

Come sei arrivata a scoprire le compositrici?

Ero legata al movimento delle donne, non conoscevo il pensiero sociale delle donne, solo quello privato, quello delle confidenze. In famiglia con mio padre e mio fratello non mi sentivo repressa. Un giorno a Colonia durante una manifestazione ho incontrato donne meravigliose, intelligenti, che avevano letto già tante cose. Le donne nel Rinascimento erano pirate, professoresse a Bologna, le Pinottini, una matematica e l’altra filosofa. Io non lo sapevo. Dunque ho pensato che non era possibile che non ci fossero musiciste. Dove cercare? Sono andata all’Istituto Musicologico di Colonia, il più grande dopo quello di Berlino, e ho lavorato dalle otto fino alle cinque del pomeriggio al catalogo per scoprire i nomi: Francesca Caccini, Lili Boulanger… vedevo solo i nomi, tanti, e scrivevo senza sapere delle loro musiche. Dopo dieci giorni ho trovato 112 nomi. Non hanno scritto solo musica per pianoforte o canzoni, quella permessa per una donna, no! Hanno scritto sinfonie, opere. In quel momento ho scoperto un nuovo mondo che ha cambiato la mia vita. Divenne una mania, per quindici anni, dovevo sapere chi erano queste donne, cosa hanno scritto, come hanno vissuto. E se quello che hanno scritto è buono. Perché siamo pieni di dubbi verso la qualità delle donne. 

E quando hai letto i primi spartiti?

Il primo fu di Barbara Strozzi, arie e canzoni di Francesca Caccini, Fanny Mendelssohn, Lili Boulanger, canzoni di Clara Schumann. Chiesi a un musicologo un giudizio sulla musica di Clara Schumann; mi disse che non si poteva. In un’altra occasione gli dissi era di Robert Schumann e lui: “Ma che meravigliosa musica, che periodo era? Ma che opera! Devi fare un’edizione!” Così ho parlato alla radio, in televisione, ho scritto articoli. Quando ho visto la ricchezza di tutta questa musica, ho pensato che tutti dovevano conoscerla e lavorare. Ho fondato un istituto dove tutte le donne, musicologhe, giornaliste, musiciste, possono iscriversi.

Pensi che sia giusto rinunciare allo “charme” per farsi rispettare?

Io penso che ancora non si hanno altre possibilità, perché gli uomini non vogliono perdere il loro potere. Quando faccio i concerti, quando sono andata in tournée chi mi ha curato, stirato, lavato? Io, naturalmente. Come tutte le donne. Sto scrivendo un libro su questo tema, sulle direttrici d’orchestra da ieri a oggi. Io sono come tutti, non voglio essere solo una donna, ma un direttore d’orchestra. Naturalmente la musica classica è da un punto di vista sociologico un ambiente conservatore. Non è come quella moderna. Quando tu entri in un conservatorio, il mondo è completamente diverso rispetto a una scuola di pittura dove la gente beve, non sono sempre vestiti bene! Anche i giornalisti o gli scrittori, sono più artisti, invece quando studi violino o pianoforte sei in un mondo elegante e questo è anche bello, ma non si può rimanere a ieri. E così le donne che vivono in questo ambiente sono così felici di riuscirci che si comportano come gli uomini, e quando dico che per una donna è più difficile mi si risponde che è un problema di qualità. Non è vero. Io lo so. Ma le giovani stanno cambiando. Sì, molto.

Perché hai deciso di diventare direttrice d’orchestra?

Amo lavorare con gli altri, quando suonavo il pianoforte ero sola nella stanza, con gli esercizi da fare, io pensavo che fosse strano, amavo la musica ma ero pigra nel suonare da sola. Non ho mai pensato al solismo. Il canto, è un’altra passione, le canzoni di Brecht e Dubrolvich, Tucholsky. Quando dirigo do sempre le spalle al pubblico ma quest’altro aspetto del teatro lo amo, canto in concerto per avere il pubblico di fronte. Nell’orchestra io servo la musica.

Quando ho cominciato a dirigere tutto è cambiato. Non voglio mai finire, quando faccio le prove mi sorprendo che gli altri si stanchino, “ma come, io sto in piedi! Venite, continuiamo!” Persone e musica sono un’unica cosa. La musica d’insieme è la più bella società esistente! Il suono dell’orchestra, i colori, il repertorio, essere uniti in quaranta anime.

E il tuo primo maestro di direzione d’orchestra come è stato?

I più importanti mi hanno detto “Vai! Hai talento”. Da Swarowski andava tutto il mondo, Zubin Metha, Da Swarowski andava tutto il mondo, Zubin Metha, quando io entrai, era l’allievo più bravo. 

Altri studenti erano Claudio Abbado, Gabriel Chmura, Daniel Barenboim, Miguel Gomez Martìnez. Per essere ammessi bisognava studiare otto grandi opere e dirigere un movimento. Quando mi presentai eravamo in sessanta, tutti diressero un movimento, chiamati in ordine alfabetico. Io fui saltata. Andai da Swarowski chiedendo se mi avesse dimenticata e lui rispose: “Ah, lei vuole dirigere! Ma incredibile! Che brava!”. Gli feci vedere che mi ero iscritta, e lui: “Ma una donna! Ascolta, fai le tue esperienze…” Io avevo comprato tutte le grandi opere e gli dissi “Voglio imparare”. Mi rispose di dirigere Mendelssohn il giorno dopo. Il giorno dopo disse “La signora Blankenburg ci mostri cosa sa fare, per favore diriga Mozart”. Come potevo cambiare all’improvviso? Chiesi di suonare Mendelssohn e lui si girò verso le finestre, dandomi le spalle mentre dirigevo. Dopo poche pagine mi prese il braccio: “ Vai in cucina! Lì è il tuo mondo, tu sei uno zero, non puoi fare niente! Prendi un posto che è fatto per l’uomo” è una cosa che non potrò mai dimenticare. Io ero completamente distrutta, ma essendo una ribelle, dopo pochi giorni ho detto “mai mi lascerò avvilire così!” Lui era un despota, anche contro gli uomini, specialmente con le donne e io su sessanta allievi ero la sola donna. Infatti tutti mi dicevano stupiti “Tu dirigi? Che brava e che fai quando ti sposerai?” e io rispondevo “Ma sono già sposata.” E che dice tuo marito? “Gli piace”, “ma dirigerai anche quando avrai dei bambini?” Così era la società. 

[…] Insomma, dopo tre giorni sono ritornata dal Maestro dicendo “ho pagato il corso, ho comprato la musica, ho studiato, e se lei pensa che le donne non devono (il femminismo in Germania non esisteva ancora) dirigere non scriva sui moduli d’iscrizione signore e signori. Scriva solo uomini! Ognuno ha avuto la possibilità di dirigere un intero movimento, anche io lo devo fare. Lui disse “Va bene, domani, ma non serve a nulla”. Io penso di non aver mai studiato un’opera in quel modo! Ho diretto tutto a memoria. “Questo non è male, signora, -disse- può inscriversi come allieva effettiva” solo diciotto erano effettivi. Molti pensarono che ero stata a letto con lui! Alla fine mi ha dato un diploma con un giudizio inaspettato, buono.

Già da tre anni lavoravo con il coro, avevo ventinove anni, e in quel momento capii che la mia vita di direttrice d’orchestra sarebbe stata legata all’ingiustizia, al potere, alle derisioni, alla gelosia e che la mia vita non sarebbe stata solo una vita per la musica. Dovevo decidere se affrontare tutto e difendermi oppure lasciare. Ma ho scelto di difendermi. Ho continuato.

Link: https://www.youtube.com/watch?v=EE6V0xTCq1c&t=39s 

La storia integrale è pubblicata nel libro di M. Gammaitoni, Storie di vita di artiste europee, dal medioevo alla contemporaneità, Cleup, Padova, 2013




L’Ottocento europeo: trasformazioni sociali e nuova vita per le compositrici?

Cosa accade alle compositrici europee con l’affermazione delle prime Costituzioni e trasformazioni sociali di fine ‘700 e prima metà dell’800? Per alcuni secoli poterono studiare professionalmente grazie alla propria famiglia di artisti, tutte le altre donne se si avvicinavano a uno strumento era unicamente in funzione di un dilettantismo, che se non si sviluppava ulteriormente, mirava soprattutto ad esaltare qualità così dette femminili. Solo dal 1870 i conservatori iniziarono ad ammetterle nelle classi di prove orchestrali e di composizione. Le grandi scuole furono gli Ospedali di Venezia, i Conservatori in Germania, Francia, Inghilterra. Il Conservatorio di Parigi, fondato nel 1795, e la Royal Accademy of Music di Londra, aperta nel 1823, accettarono sia uomini che donne, ma in tutta Europa le donne poterono accedere in giorni e orari diversi dagli uomini, con programmi di studio sottostimati – “especially organized for their requirements” – e lo studio di molti strumenti era precluso (violoncello, strumenti a fiato, ecc.) per la posizione fisica disdicevole, non adatta alla reputazione di una donna.

Certamente con il moltiplicarsi dei Conservatori vi furono più spazi per le donne, fu il caso di Maria Pleyel e di Pauline Viardot, di Louise Farrenc docente al Conservatorio di Parigi per trent’anni. Poterono così far conoscere le proprie opere, sia per scopi educativi, che per attività concertistica; come per esempio la famosa compositrice polacca, Maria Szymanowska, e a seguire Clara Wieck Schumann, Louise Adolphe Le Beau, Agathe Backer Grondal.

In ogni nazione troviamo storie e percorsi istituzionali diversi: alla fine dell’800 il direttore del Conservatorio di Milano, Antonio Bazzini, condivise pubblicamente le perplessità relative alla “questione femminile nelle classi di composizione”, con il direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, Giuseppe Martucci, dichiarando che nonostante tutto l’unico candidato degno di ammissione nella sua classe in quell’anno fosse proprio una donna, Antonietta Gàmbara Untersteiner .

Le compositrici che poterono agire, anche se non appartenenti agli ambienti aristocratici furono in particolare le francesi e le inglesi. In Germania, Austria, Italia, Spagna le donne musiciste appartenevano a una élite e per lo più frequentavano Scuole strettamente legate alla vita di corte o aristocratica, quando poterono studiare e divenire professioniste, ma con assai poca libertà di diffusione e circolazione delle proprie opere.

A tutte fu impedito di accedere alle orchestre nazionali e ai teatri dell’opera, motivo per il quale alcune decisero di formare in modo indipendente degli ensemblese orchestre femminili.

Quando a fine ‘800 la classe media iniziò la sua ascesa, e la scuola divenne accessibile a diversi strati sociali, anche nuove compositrici di differenti classi sociali riuscirono a emergere, ma sempre con grande fatica: per esempio, Augusta Holmes (1847-1903), Cecile Chaminade (1857-1944), Ethel Smyth (1858-1944). L’ostruzionismo radicato nelle tradizioni patriarcali rese sempre una dura lotta di affermazione quando una donna decideva di specializzarsi e dunque accedere ai livelli più alti delle professioni, divenendo un modello di un nuovo agire sociale, pubblicamente visibile. Le prime forme di democrazia, di scolarizzazione di massa non facilitarono lo sviluppo e l’affermazione della genialità femminile; le musiciste faticarono ancora a lungo, soprattutto se la propria famiglia non le sosteneva, ancora, e troppo spesso dovettero accettare di lavorare nella penombra di ruoli secondari.

 

 IN COPERTINA: Vienna Damen Orchester, Creata e diretta da Josephine Weinlich, 1870