L’Europa dalla Belle Époque al colonialismo e la Triplice Alleanza

Dopo la fine della Comune di Parigi, in Europa si spengono le rivolte sociali. L’industria va avanti florida, le scoperte tecnologiche procedono a gonfie vele, il ciclo produzione-sfruttamento ha raggiunto un compromesso per cui gli scioperi diminuiscono e la ricchezza aumenta. Londra, Parigi e Berlino vedono crescere la propria rete ferroviaria e metropolitana e la luce elettrica si diffonde in tutte le città rendendo più sicura la vita notturna. Questo periodo di pace, ricchezza e splendore prende il nome di «Belle Époque». Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, l’Europa, e in particolare la Francia, è sede di un rigoglioso laboratorio culturale e intellettuale.

Durante gli stessi anni nella ricca Europa si assiste anche a una serie di fenomeni preoccupanti. Tra i settori più sviluppati e moderni dell’industria vi è quello siderurgico e dell’acciaieria pesante, finalizzato a costruire non solo ferrovie ma anche armi. E se le armi non si usano l’industria va in crisi. Nasce da qui la “corsa agli armamenti” che nel corso di mezzo secolo porterà a far scoppiare una nuova guerra, stavolta molto più grande e drammatica delle precedenti: tutti gli Stati si armano fino ai denti, anche in assenza di guerre imminenti.

Francia e Gran Bretagna arrivano alle porte del XX secolo con un impero marittimo molto esteso e redditizio. La Spagna e il Portogallo, potenze marittime dei secoli precedenti, hanno perso tutta l’America Latina e le Filippine, la Francia ha ristretto i confini europei ma conserva ancora numerosi territori d’oltremare; la Regina Vittoria e i suoi discendenti hanno perso gli Stati Uniti ma detengono l’India e buona parte dell’Africa. La Germania è lo Stato-Nazione più recente d’Europa ma militarmente è il più forte e di conseguenza rivendica un maggiore peso internazionale.

L’Africa è il terreno in cui si scontrano le pretese europee, a volte con vere e proprie guerre di conquista e altre volte con l’istituzione di protettorati locali in mano a deboli governi obbedienti agli Stati europei. Per evitare nuove guerre, le potenze europee si riuniscono e a tavolino si spartiscono gli Stati africani, i cui abitanti vengono chiamati «selvaggi» e ridotti in schiavitù, come secoli prima era successo con le popolazioni native americane. L’altro grande elemento di contrasto è dato dal rapido declino dell’Impero Ottomano, Stato islamico che si espandeva dalla Persia (attuale Iran) fino ai confini settentrionali della penisola balcanica. Le potenze europee sostengono l’indipendenza balcanica, ma si apre immediatamente la contesa tra Austria, Inghilterra e Russia per l’egemonia su queste terre. Nel 1876 scoppiano delle rivolte indipendentiste nei Balcani. Come con la Grecia nel 1820, di nuovo le potenze europee appoggiano le sommosse popolari per togliere peso all’Impero Ottomano ed evitare l’espansione russa. Viene riconosciuto il Regno di Bulgaria e la Serbia viene lasciata autonoma, mentre la Bosnia-Erzegovina passa sotto il controllo austriaco. Germania e Austria stringono un’alleanza antirussa.

Dal momento che l’Italia, violando gli accordi internazionali con la presa di Roma, ha perso credibilità agli occhi francesi e inglesi, nel 1882 entra nell’alleanza austro-tedesca, nonostante lo Stato italiano sia nato proprio dalle guerre contro l’Austria. Questa coalizione prende il nome di Triplice Alleanza. È un accordo esclusivamente difensivo: se uno dei tre Paesi viene attaccato gli altri sono tenuti a intervenire in sua difesa, ma se attacca per primo gli alleati non hanno doveri nei suoi confronti. Si apre così una nuova fase di tensioni.

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Grammatica e sessismo. A Tor Vergata nasce un nuovo Centro Studi

Il cinque giugno 2018, è stato istituito, presso il Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di Storia dell’arte dell’Università di Roma Tor Vergata, il centro di ricerca multidisciplinare denominato “Centro Studi Grammatica e Sessismo – Ges”. Quest’ultimo è il frutto della conversione dell’omonimo laboratorio, nato nel 2011 in seno alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tor Vergata per iniziativa della docente e linguista Francesca Dragotto.

Tra le principali finalità, perseguite prima dal laboratorio e adesso dal Centro Studi, si annoverano le attività di studio e ricerca su tematiche multi e inter-disciplinari connesse con il genere, categoria questa che, come recita lo stesso statuto di Ges, è “presente in numerose lingue oltre che in moltissime altre entità organizzate, allo stesso modo che il linguaggio verbale, in forma di struttura. Società in primis.”

Dalla sua nascita, il Centro Studi si avvale di una coordinatrice e di un Consiglio Scientifico (organo di indirizzo e di coordinamento delle attività scientifiche), i/le cui componenti sono i/le seguenti docenti e ricercatori/ricercatrici dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata: Francesca Dragotto, Stefania Cavagnoli, Antonio Filippin, Anna Maria Guerrieri, Fiordistella Domenica Iezzi, Cristiana Lardo, Maria Lozhano Zahonero, Florinda Nardi, Pier Gianni Medaglia, Emore Paoli, Lorenzo Perilli, Sandra Petroni, Fabio Pierangeli, Paolo Poccetti, Elisabetta Strickland. In aggiunta, anche un ulteriore organo svolge un ruolo determinante. Ci si riferisce al Comitato strategico, i cui membri possono essere selezionati anche al di fuori dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, purché siano rappresentativi di comunità scientifiche, di istituzioni pubbliche e private, nazionali e estere, attive nell’ambito delle attività e delle tematiche proprie di Ges.

Il Centro studi in questione, che vive in questa nuova veste ma si nutre di già sperimentati intenti e obiettivi, svolge innumerevoli attività, progetti e iniziative. In particolare si ricorda: la promozione di progetti di ricerca e collaborazioni con Università e Istituzioni di ricerca italiane e straniere sul tema del genere e delle sue ricadute sociali e individuali; l’organizzazione di attività di formazione e di aggiornamento da svolgere al di fuori dell’Università; l’attività di sostegno e potenziamento relativamente alla circolazione della conoscenza scientifica del genere; la partecipazione a convegni nazionali e internazionali o altre iniziative di carattere scientifico; la possibilità di stipulare convezioni con enti e associazioni.  In relazione a quest’ultimo punto si ricorda che Ges e Toponomastica femminile hanno scelto di collaborare con l’intento di occuparsi del genere e delle sue implicazioni, apportando dei contributi relativi alle proprie aree d’azione.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito www.grammaticaesessismo.com, ove sono riportate attività, studi e iniziative svolte e promosse, fino a qualche mese fa, dal laboratorio “Ges” e attualmente trattate e ampliate dal recente “Centro Studi Grammatica e Sessismo”.




Come voci in balia del vento

Già nel titolo si percepisce la narrazione di una storia dimenticata. Le voci sono quelle delle contadine siciliane che lottarono per l’occupazione delle terre incolte e per l’applicazione della legge Gullo alla fine degli anni Quaranta. Voci coraggiose di donne che sfuggivano agli stereotipi femminili di quei tempi e che abbracciarono le lotte del P.C.I. e dei sindacati. Donne che invece di restare confinate tra le mura di pietra delle loro misere casa, apportarono il loro contributo, marciando, occupando, opponendosi, sventolando il vessillo comunista con la falce e il martello e a volte accanto l’immagine del cuore di Gesù.

“Quando andavamo ad occupare, i carabinieri mettevano  i cavalli tutti in fila davanti a noi e li facevano alzare per farci spaventare e ci dicevano: andate via di qua che per voi femmine non è possibile occupare la terra. Io. allora, ad uno di questi gli risposi: io sono capace di occupare la terra meglio di mio marito. Date la terra a mio marito e noi ci ritiriamo. Ma quello mi spingeva col moschetto. Allora mi arrabbiai e gli dissi: scendi dal cavallo se hai coraggio” Così Maria racconta la sua storia e continua dicendo che l’arrestarono e la misero in un porcile dove c’erano i maiali “con la puzza che non si poteva respirare e col pruvulazzo (polvere) che mi entrava dentro la bocca…poi la sera venne un carabiniere e mi portò una fetta di pane. Siccome insieme a me avevano preso anche gli uomini che stavano chiusi in un’altra stanza, io pensavo, a me il pane me lo danno a loro no. Allora dissi al carabiniere: perché non date il pane pure agli uomini? No, rispose, agli uomini diamo scorce (bucce) di fave. Io allora posai il pane sopra il tavolo e dissi che non lo volevo. Così i carabinieri si convinsero e diedero il pane pure agli uomini”

Questa è una delle tante storie raccontate, storie di donne battagliere e dignitose, come quella di Bernarda di Bisacquino, di Concetta di Valledolmo, di Antonietta di Castellana. Antonietta era stata la prima donna, nel suo paese, ad indossare i pantaloni. Tutte queste voci, la scrittrice le raccoglie nel 1977, quando decide di andare ad intervistarle. Si mette un registratore a tracolla e inizia a percorrere questi estremi lembi di terra siciliana, lontani dal mare e arsi dal sole cocente. Vaga per tanti piccoli paesi, incontra queste donne, le intervista e cattura  e cristallizza per sempre le loro storie.

Per vent’anni le voci tacciano dentro quell’ormai obsoleto registratore. Poi la decisione di farle riemergere dall’oblio: vengono recuperate, riascoltate, raccolte e diventano libro. Così la storia di queste donne ignorate e dimenticate anche dal partito politico a cui avevano aderito con entusiasmo viene restituita nella luce della sua importanza. Nel libro, Gisella Modica, racconta anche la sua personale voce, intreccia a quelle storie parte delle sue vicende personali, dai ricordi della nascita di sua figlia a quelli del dolore e dello smarrimento per la perdita di sua madre.

Voci appunto, voci di donne in balia di folate di vento che soffiano sulla coscienza di ognuna. Voci di donne tradite. Tradite dagli uomini, dai compagni di partito che non colsero la forte valenza delle loro lotte, che sminuirono le loro azioni facendole passare per “stramberie femminili”.

Ma quelle lotte non furono vane e lo dimostra il primo convegno Regionale del P.C.I. delle donne della campagna tenutosi a Palermo nel 1953: le delegate furono millecinquecento. Millecinquecento donne di cui si erano perse le tracce.

“Le immaginavo” scrive Gisella Modica” già alle prime luci dell’alba affaccendarsi per casa, fare ordine, cucinare frittelle di fave e finocchietti, e poi, coi cesti dei viveri sulla testa o appesi al braccio, riversarsi nei vicoli e nelle piazze gremite per il comizio, gridando col pugno alzato Terra a chi lavora! Le immaginavo fare cose fuori dall’ordinario: eccole mentre con esitazione entrano nella sede del Partito dove abitualmente le donne non usavano sostare…eccole mentre impugnano maldestre la bandiera: lasciapassare necessario per accedere dentro ai confini proibiti del feudo occupato… terra-nutrimento per la famiglia, per i figli che vanno protetti e difesi insieme alle masserie…con lo stendardo del cuore di Gesù preso con la forza dall’altare della chiesa contro il volere dei compagni… faranno di testa loro e porteranno lo stendardo in corteo, accanto alla bandiera rossa, perché entrambi sono fiamme che bruciano nei loro cuori… le immagino creature dai mille travestimenti in equilibrio su se stesse, sostenute solo dalla forza dell’amore. Sorprendenti, mutevoli e inafferrabili. Come voci in balia del vento.

Gisella Modica

Come voci in balia del vento

Iacobelli Editore, Roma 2018

pp. 224

13€




Aretha

Il concerto a lei dedicato che si svolgerà in novembre ora avrà più motivo di essere, sebbene lei non potrà viverlo; ha però potuto assistere all’intitolazione di una via a lei dedicata a Detroit lo scorso anno. Aretha Franklin, la “Regina del Soul” figlia del Pastore Battista C. L Franklin, il 16 agosto all’età di 76 anni  dopo una lunga malattia è morta. Ha mosso i suoi primi passi nel mondo della musica come corista prima, cantante e interprete poi, nella New Bethel Baptist Church di Detroit (la Chiesa Battista Nuova Bethel) nella quale il padre esercitava il proprio ministero. Divenuta successivamente una delle maggiori e più grandi interpreti della Black Music (la musica nera afro-americana), ha conosciuto il successo personale e commerciale, ma non ha mai rinnegato le proprie radici musicali, lo Spiritual e soprattutto il Gospel. Mi piace ricordarla anche per quella rivisitazione di Respect, canzone scritta nel 1965 da Otis Redding per invitare le donne a essere più remissive sottomesse all’uomo: Aretha nel 1967 lo riarrangiò, aggiungendo versi e contenuti anche con quello spelling R-E-S-P-E-C-T, e ne fece un inno del femminismo, pieno anche di doppi sensi sul diritto femminile al piacere sessuale, e un manifesto anti-razziale che si è aggiudicato due importanti riconoscimenti: il Grammy Award for Best R&B Performance ed il Grammy Award for Best Female R&B Vocal Performance 1968; inoltre è stato premiato con il Grammy Hall of Fame Award nel 1998 ed è considerato tra i migliori dell’era del rock and roll  tra le 500 migliori canzoni di tutti i tempi.

Avendo vissuto gli anni ’80, personalmente l’ho conosciuta meglio grazie al duetto nel 1985 con Annie Lennox, fascinosa icona androgina, nella canzone Sisters Are Doin’It For Themselves e a quello nel 1987 con George Michael, vittima dei pregiudizi sull’omosessualità dichiarata perciò molto tardivamente, nel brano I Knew You Were Waiting For Me

Ha avuto una vita difficile e travolgente, Aretha, diventata mamma per la prima volta a 13 anni, vita vissuta purtroppo anche tra alcol fumo e problemi di peso benché nell’ultima esibizione, il 7 novembre 2017 alla Cattedrale di Saint John the Divine a New York durante il gala del 25esima edizione dell’Elton John AIDS Foundation, era diventata molto magra.  

“C’é sempre gente in giro ogni giorno/ giocano e fanno punti/cercano di fare perdere ad altri il loro senno./Beh, stai attento a non perdere il tuo!”: non potremo più ascoltarla dal vivo ora, ma la sua anima di regina della musica e la sua passione per i diritti umani e civili continueranno a risuonare anche facendoci riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni … Think!




La Guerra ispano-americana e la Rivoluzione messicana

Abbiamo già analizzato le caratteristiche e le contraddizioni degli Stati Uniti, dove, nonostante gli strascichi della schiavitù e la massiccia industrializzazione, il sistema elettorale è allargato anche agli stranieri, vige il sistema meno autoritario del mondo basato sulle libertà civili individuali e la società liberale permette ottime possibilità economiche e imprenditoriali; paradossalmente la grande apertura e accoglienza ai nuovi arrivati convive con un forte razzismo verso le minoranze etniche, soprattutto quella nera. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento, il Nord America è il sogno e la meta di tutta la gente povera che emigra dall’Europa: la speranza di fare fortuna lì crea il “mito americano”. 

Cartina dell’America

A livello di politica estera, già nel 1823 era stata emanata la “dottrina Monroe” che, con lo slogan «l’America agli americani», intendeva in un primo momento cacciare dal continente tutte le potenze europee e in un secondo tempo assoggettare l’intero territorio, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, agli interessi statunitensi. Ma a questo punto occorre spiegare in modo più approfondito come cambia il significato della dottrina Monroe. Tra il 1893 e il 1896 la floridissima economia americana si blocca in una crisi di sovrapproduzione: se già tutti hanno tutto, la merce diventa superflua e il meccanismo industriale rischia di incepparsi. A questo punto, per non soffocare nella propria sovrabbondanza di produzione eccessiva rispetto ai bisogni e ai consumi, è necessario allargare il mercato; così l’opinione pubblica, prima isolazionista per rispetto all’idea di libertà su cui la mentalità americana è basata, diventa favorevole a una politica coloniale espansionistica. 

Nel 1898 a Cuba scoppia una rivolta guidata da José Martí per cacciare dall’isola l’esercito spagnolo ancora occupante. Contemporaneamente, la stessa rivolta antispagnola esplode alla Filippine, vicine alla Cina (e la Cina ha sempre fatto gola ai commerci europei fin dal Medioevo). Per gli Stati Uniti sono occasioni d’oro. L’esercito USA interviene in difesa di Cuba e delle Filippine e in poco tempo sconfigge la Spagna. Ma né José Martí (ucciso da soldati spagnoli durante la guerra) né il movimento indipendentista filippino ottengono ciò che speravano: le isole del Pacifico sono ridotte a colonie USA e Cuba viene riconosciuta come Repubblica sotto il protettorato statunitense. La popolazione cubana si ritrova senza diritti, amministrata da governi fantoccio, a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero i cui profitti andranno ad arricchire le casse di Washington: la situazione sull’isola rimarrà tale fino al 1959. Oltre alla produzione agricola, Cuba è sfruttata dagli statunitensi per il turismo sessuale, tanto che fino al 1959 l’isola sarà soprannominata «il bordello d’America».

Foto di José Martí

Il colonialismo USA non finisce qui: subito dopo vengono annesse agli Stati Uniti anche le isole Hawaii. Quando il Panamá insorge per ottenere l’indipendenza dalla Colombia, gli USA l’appoggiano in cambio di un contratto centennale che assicuri loro il controllo del canale che collega l’Oceano Atlantico al Pacifico, fondamentale per le comunicazioni e gli scambi commerciali intercontinentali. Per tutto il Novecento, gli investimenti degli Stati Uniti in America centrale saranno vincolati all’accettazione delle loro politiche economiche.

Le ingerenze statunitensi condizionano pesantemente soprattutto i processi sociali e politici in corso in Messico, Paese confinante e ricco di materie prime. Dopo l’indipendenza, il Sud del Messico si è sviluppato con un’economia di tipo latifondista: poche persone possiedono da sole terre estese più di interi Paesi europei in cui lavoravano braccianti senza alcun diritto; il Nord invece è industrializzato sotto il controllo degli Stati Uniti. Nessuna legge tutela contadini e operai dallo sfruttamento né controlla i salari e i prezzi dei prodotti alimentari; per sopravvivere, molte famiglie sono costrette a indebitarsi e, non avendo abbastanza soldi, pagano il cibo con il lavoro, fino a ritrovarsi incastrati a vita in condizioni disumane come i servi della gleba nel feudalesimo europeo. Le terre su cui sorgono la haciendas (i latifondi) sono state espropriate alle popolazioni indigene (prevalentemente Maya e Azteca) nei secoli successivi alla conquista europea. A gestire questa situazione di ingiustizia è il dittatore Porfirio Diaz, al potere dal 1876 con lo slogan «Pace, ordine e progresso». La situazione è destinata ad esplodere. Nel 1910, dopo più di trent’anni di dispotismo di Diaz, varie città messicane insorgono sotto la guida di Francisco Madero, un proprietario terriero di idee liberali. Scoppia così una lunga guerra civile. Gli USA, che prima appoggiavano Diaz, lo lasciano deporre per il troppo potere che ha accumulato. Madero apporta al sistema politico messicano varie riforme di stampo liberale, come l’allargamento del suffragio elettorale e il divieto di ripetere il mandato presidenziale, ma non risolve i problemi economici strutturali e non fa nulla per alleviare la fame e la miseria delle masse contadine e operaie. Esplodono di conseguenza nuove rivolte, stavolta tra i ceti più poveri. A Sud del Paese Emiliano Zapata (foto in copertina) guida contadini e Indios con gli slogan «Terra e Libertà» e «La terra è di chi la lavora», chiedendo una riforma agraria che abolisca i latifondi distribuendo le terre tra i contadini e restituisca alle comunità indigene le zone a loro sottratte. A Nord Francisco Pancho Villa organizza un esercito popolare composto da operai, minatori, Indios e nullatenenti in appoggio a Zapata.

Gli USA in un primo momento appoggiano Madero ma, davanti all’insurrezione contadina, temono di perdere il controllo della situazione: su mandato dei latifondisti, del clero e degli Stati Uniti, nel 1913 il generale Victoriano Huerta assassina Madero e prende il suo posto, dando inizio a una nuova guerra civile. In seguito a nuove insurrezioni popolari e alla stesura di una Costituzione democratica con diritti sociali fortemente avanzati, l’esercito degli Stati Uniti entra in Messico e riprende il controllo della situazione mettendo al potere il liberale Venustiano Carranza. Nel 1919 Emiliano Zapata viene assassinato: la fase rivoluzionaria può considerarsi conclusa. Segue un lungo periodo di forte instabilità politica in cui è frequente l’intervento militare USA: la Rivoluzione messicana apre a tutti gli effetti la pesante ingerenza politica statunitense sull’America Latina. Dal 1940, per i settant’anni a venire, il potere rimarrà sempre nelle mani di un unico partito, il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che, con il beneplacito dei vicini del Nord, applica una minima parte degli obiettivi della Rivoluzione del 1910 ma trascura i problemi dei contadini, delle donne e dei popoli Indios. Eppure Emiliano Zapata è sempre rimasto un mito per tutti gli abitanti del Sud del Messico, mito che riesploderà a sorpresa molti decenni più tardi.

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“La Bastarda degli Sforza” di Carla Maria Russo

di Roberta Pinelli

Il libro si presta a una piacevole lettura per il contenuto e la figura di Caterina Sforza, tratteggiata con grande umanità nei suoi pregi e difetti, e per un ritmo serrato che avvince. Anche se non di recente pubblicazione (2015), è un romanzo storico che deve essere letto.

Caterina Sforza (1463-1509), figlia illegittima del Duca Galeazzo Maria Sforza, viene allevata alla corte di Milano dalla nonna Bianca Maria e amata come figlia anche dalla moglie legittima del Duca, Bona di Savoia.

Fin da bambina manifesta un carattere inusuale per le donne del suo tempo: ama la caccia, le armi, la lotta. Pur assoggettandosi alla formazione umanistica prevista per i nobili, Caterina preferisce le attività all’aperto e si rivela ferrata in matematica e scienze. Particolare interesse riveste per lei l’alchimia, che apprende dallo speziale di corte, e per tutta la vita coltiverà lo studio delle erbe per uso medicinale e cosmetico.

Bellissima, bionda, intelligente ed elegante, è per lei impossibile adattarsi al ruolo “femminile” che tutti si aspettano da una nobildonna. Soltanto la nonna Bianca Maria sembra avere qualche influenza sulla sua educazione ed è proprio alle parole della nonna (“Combatti chi ti sfida, ma resta sempre leale alla tua famiglia”) che Caterina si aggrapperà quando la sua condizione di nobildonna pretenderà da lei il sacrificio di un matrimonio precoce. All’età di dieci anni Galeazzo decide infatti di darla in sposa a Girolamo Riario, nipote del Papa, uomo rozzo e volgare, che per avere rapporti sessuali con lei non attende l’età canonica di 14 anni e la violenta la notte delle nozze. Il matrimonio serve a rinforzare i rapporti fra la Chiesa e gli Sforza, per cui viene concordato che Caterina porti in dote al marito la città di Imola, mentre il Papa si impegna a versare a Galeazzo Maria Sforza un’enorme somma di denaro e a donare agli sposi la città di Forlì. 

Inizia a quel punto la vita adulta di Caterina, che rivela ben presto doti politiche di cui il marito è del tutto privo. Dopo un periodo a Roma, durante il quale riesce addirittura a impadronirsi di Castel Sant’Angelo e a minacciare il Conclave perché elegga un papa non ostile agli Sforza, Caterina e il marito si recano a Forlì, dove ben presto gli errori di Girolamo Riario determinano una congiura che lo porta alla morte. Caterina si sposa una seconda volta, per amore, ma dopo pochi mesi anche il secondo marito viene ucciso da una congiura, a cui forse non sono estranei nemmeno i figli di lei, timorosi che la madre perda lo Stato. Caterina però non desiste nella sua politica di difesa della Signoria e ne diventa reggente in nome del figlio Ottaviano. Nel 1498, conosciuto Giovanni de’ Medici detto il Popolano, Caterina si sposa per la terza volta, ma rimane vedova dopo pochi mesi per la morte improvvisa del marito per malattia. 

A trentasei anni e con otto figli, Caterina Sforza deve difendere la Signoria da Cesare Borgia, figlio del nuovo Papa Alessandro VI. Nonostante una disperata resistenza, che provoca 500 morti, Caterina è costretta a cedere; arrestata, viene imprigionata per sei mesi a Castel Sant’Angelo, dove subisce ogni tipo di angherie e di violenze. Sopravvive ancora una volta, onorando il soprannome di “tygre di Forlì” che le è stato attribuito. Liberata per l’intervento dei francesi, si rifugia a Firenze con il figlio Ludovico, ribattezzato Giovanni in memoria del padre, che diventerà il famoso condottiero Giovanni dalle Bande Nere e padre del primo Duca dei Medici, Cosimo I. Caterina muore a quarantasei anni di polmonite fulminante, mentre sta ancora brigando per riprendere Forlì, 

Il romanzo si conclude però molto prima, quando Caterina riesce ad impadronirsi della rocca di Forlì dopo la cosiddetta “Congiura degli Orsi” e a resistere ai suoi oppositori, nonostante la minaccia di impiccare i suoi figli e pur essendo incinta al nono mese. L’autrice ha promesso di continuare a raccontare la storia di Caterina e vedremo come sarà il prossimo romanzo.

Da queste brevi note, si comprende che la figura di Caterina, descritta in maniera molto più articolata nel libro, merita un’attenzione particolare, sia per gli eventi che la videro protagonista sia per le sue caratteristiche. Caterina è l’ultima grande donna del Medioevo ma anche una rappresentante delle donne del Rinascimento. Ne sono la prova non solo le sue imprese militari e politiche, ma anche la sua passione per l’alchimia, di cui si è detto. Nel 1499, mentre si prepara a difendere Forlì da Cesare Borgia, dà alle stampe gli Experimenti della excellentissima signora Caterina da Forlì, libro espressamente pensato per un pubblico femminile e contenente 454 ricette. Con questa pubblicazione, Caterina conferma il ruolo attivo delle donne del Rinascimento nella circolazione di teorie e pratiche alchemiche, uno spazio autonomo di potere attraverso la conoscenza. In quest’ottica il mondo della cosmesi, centrale nel lavoro di Caterina e a prima vista relativo solo alla dimensione estetica, si lega alle pratiche mediche e curative, interessando un vasto pubblico non solo aristocratico ma anche borghese.

Come si vede, una grande donna, un’abile politica, un soldato senza paura, un’esperta diplomatica, una madre affettuosa, una nobildonna fuori dai rigidi schemi riservatile dalla mentalità del tempo.

È un libro che si legge con grande interesse, che scorre veloce per un linguaggio semplice ma diretto e coinvolgente. Piacevole anche l’alternarsi di capitoli descrittivi, in cui gli avvenimenti sono narrati in terza persona, e altri capitoli in cui l’autrice dà voce alla stessa Caterina. Se è adatto in particolare a chi ama le ricostruzioni storiche (e quella di Carla Maria Russo è corretta e documentata), si lascia leggere con piacere anche da chi vuole scoprire una donna di eccezionale valore, come le tante che hanno dato buona prova di sé e di cui non veniamo mai a conoscenza.

Carla Maria Russo

La Bastarda degli Sforza

Milano, Edizioni PIEMME, 2015

pp. 363

€ 17,90




Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, di Nadia Filippini

di Eleonora de Longis             

“Si nasce da un corpo di donna; tutti, uomini e donne, nascono da un corpo di donna: non c’è nascita senza la gravidanza e il parto di una donna […]. Tuttavia questo fatto non ha trovato nella cultura occidentale un’iscrizione simbolica o un adeguato rilievo a livello rappresentativo, almeno non da quando la società indoeuropea ha imposto il proprio Olimpo maschile, declassando le Dee madri di più antica tradizione (Iside, Ishtar, Demetra)” (p.11).  

Il percorso di Nadia Filippini attraverso le vicende della generazione, del parto, della nascita è un itinerario articolato, che si muove tra le diverse pieghe non solo della storia sociale e istituzionale, ma anche di quella culturale, delle mentalità, della religione e mostra come la rappresentazione della maternità sia in continuo movimento nel corso del tempo “anche se in forme tutt’altro che lineari e progressive, con fasi di improvvisa accelerazione e lunghe continuità e permanenze, accanto a innovazioni e mutamenti» (p. 10). Continuità e rotture di una vicenda ultramillenaria sono indagate nella parte del volume che affronta fecondazione, gravidanza, aborto, parto e nascita dall’antichità al Settecento. Le molte raffigurazioni della nascita di Maria nel corso dei secoli offrono uno specchio fedele dell’esperienza del parto nella tradizione dell’occidente cristiano. Anche sulla scorta di queste fonti iconografiche Nadia Filippini osserva con attenzione la scena del parto e della nascita, l’occupazione degli spazi, le figure coinvolte, le pratiche, i ruoli, tra i quali, centrale, quello della levatrice, un ruolo anch’esso destinato ad attraversare nel corso del tempo molte trasformazioni. O, per dir meglio, un ruolo plurale, che, fin dal mondo antico, comprendeva figure dotate di competenze diverse in merito alla fisiologia e alla patologia delle donne e del parto.

Il Settecento rappresenta uno snodo determinante, una cesura nella storia occidentale della nascita: mutano figure, luoghi e tecniche del parto. Si afferma il “chirurgo-ostetricante” che introduce pratiche e terapie nuove, sorgono gli ospedali specializzati nell’accoglienza delle partorienti, si modifica ulteriormente il ruolo della levatrice, “si avvia insomma quel processo di medicalizzazione che si dispiegherà più ampiamente nel secolo successivo” (p. 181) e sarà indice di profonde trasformazioni sociali e culturali che coinvolgeranno soprattutto l’interesse specifico – e “politico” –  per la popolazione e una diversa sensibilità nei confronti del feto. 

La lotta alla mortalità materna e infantile, combattuta fieramente da politici, intellettuali, medici, comporta in primo luogo la colpevolizzazione delle tradizionali forme di assistenza al parto e in primis della levatrice, come figura priva delle necessarie conoscenze mediche e scientifiche. Si avvia nei paesi occidentali il lungo processo di professionalizzazione e istituzionalizzazione delle levatrici mentre, con tempi e modalità diverse, si afferma sulla scena del parto il chirurgo-ostetrico. Anche le prime teorie della fecondazione – che diedero avvio alla ricerca embriologica come si svilupperà nell’Ottocento – contribuirono a far sorgere una nuova sensibilità degli ambienti religiosi e laici verso il feto come “cittadino non nato”. Johan Peter Frank, consigliere di vari sovrani europei e direttore di sanità nella Lombardia austriaca aveva affermato: “I cittadini che sono ancora racchiusi nell’utero materno non sono anch’essi membri dello Stato? Non abbisognano o non meritano essi la protezione dei magistrati?” (p. 240). Da tali premesse discendevano misure volte a controllare e tutelare da parte di medici e amministratori non solo il momento della nascita ma tutto il periodo precedente, la gravidanza. In questa prospettiva anche il taglio cesareo sulla donna in vita, a lungo considerato come un’indebita interferenza con un processo naturale, veniva legittimato come estremo tentativo di salvare la vita del nascituro (raramente della madre): in realtà solo i progressi nella conoscenza della sepsi e dell’antisepsi acquisiti nel corso del Novecento renderanno sicura tale pratica anche per la madre.    

Il Novecento è l’epoca delle “molteplici rivoluzioni”: l’assistenza e la tutela della maternità per le donne lavoratrici, l’ospedalizzazione del parto, la diffusione di nuovi presidi igienico-sanitari volti ad assicurare la salute e il benessere del bambino trasformano profondamente, nel mondo occidentale, l’esperienza del parto e della nascita. Se nella prima metà del secolo aveva prevalso, sulla spinta dei movimenti di emancipazione femminile, l’affermazione dei diritti civili e politici, le esperienze dei movimenti femministi del dopoguerra avevano profondamente ribaltato la prospettiva delle donne nel rivendicare l’autonomia nella gestione del proprio corpo: “l’utero e mio e lo gestisco io” è la parola d’ordine significativa di questa rivoluzione copernicana al cui centro si collocava la libertà di scelta rispetto alla maternità, all’uso dei metodi contraccettivi, all’interruzione volontaria di gravidanza. Con tempi diversi, e attraverso il coinvolgimento dell’opinione pubblica, la legislazione dei paesi occidentali si adegua progressivamente alle rivendicazioni in fatto di contraccezione e IVG, mentre altri tabù sul parto e sulla nascita cadono per effetto degli sviluppi della medicina e delle tecnologie sanitarie e della sperimentazione di tecniche e metodi analgesici, che tendono a ridurre i dolori e le “violenze” associate al parto. 

Tra le trasformazioni più radicali che, nel corso del Novecento, hanno coinvolto il campo della riproduzione si colloca senz’altro la fecondazione artificiale “perché attraversa molteplici piani dell’esperienza umana (dell’immaginario, del simbolico, della rappresentazione) e perché mette in atto cambiamenti profondi che investono, oltre che la maternità e la nascita, anche i ruoli sessuali e la famiglia, sollevando una serie di problemi bioetici” (p. 299). 

Le questioni suscitate dalla fecondazione artificiale e le diverse risposte politiche e legislative che i paesi dell’occidente hanno dato alla crescente domanda di donne e uomini infertili di adire alle tecniche di PMA mettono in luce, secondo Filippini, le profonde ambivalenze e contraddizioni che, alle soglie del terzo millennio, segnano la realtà sociale del parto e della nascita. 

Nadia Filippini 

Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta 

Viella

2017

€ 29

pp. 349




Il genere prima della lingua, nelle lingue e nella lingua in dieci domande (e risposte) – Seconda parte

Esiste il genere come categoria non riferita alla contrapposizione maschile-femminile?   

Nella prospettiva di Jackendoff, un autore contemporaneo che ricordava la capacità di categorizzare come peculiarità essenziale della cognizione, il genere si configura come una “idea” che, ad un certo punto, trova “forma” nel sistema linguistico. Proprio perché si tratta di un’idea non è scontato che il genere abbia a che fare con un marker di tipo sessuale (che però è il più frequente e che, probabilmente a seguito del maggior peso assunto dalla consapevolezza di sé, ha scalzato persino quello relativo all’opposizione animato/inanimato da cui l’opposizione m/f stessa ha avuto origine). In effetti, oltre ai generi grammaticali maschile/femminile ne sono possibili altri: in una lingua dell’Australia, il dyirbal, ci sono generi per il maschile, il femminile, il commestibile diverso dalla carne e il neutro; in navaho ci sono tredici generi: esseri vivi, oggetti rotondi, oggetti riuniti in insieme, contenitori rigidi con contenuto, oggetti compatti, oggetti che somigliano al fango, massa, ma nessuno distingue maschile e femminile. La maggior parte delle lingue indo-europee dotate di genere ne annovera da uno a tre; nell’ambito di altre famiglie linguistiche si conoscono lingue (della famiglia caucasica) che ne hanno da quattro a otto e altre (la maggior parte delle lingue bantu) che ne hanno da dieci a venti (ma questa cifra potrebbe essere viziata dal fatto di considerare come classi distinte quelle maschile e femminile riferite ad una stessa caratteristica).    

Esiste una corrispondenza tra marca di genere m/f e sessismo? 

Presa in considerazione l’esistenza di lingue in cui il genere maschile/femminile è perlomeno secondario, e associando in un binomio sessismo e contrapposizione di genere, con l’elemento non marcato riferito al maschile, si potrebbe ipotizzare che lingue prive di tale contrapposizione corrispondano a culture non sessiste. Anzitutto, un dato numerico: le lingue prive di generi sono più numerose di quelle che li hanno. Quanto all’equazione lingua senza generi = lingua non sessista, basterebbe una scorsa a birmano, turco, giapponese, ungherese ad alimentare una certa perplessità. Ciò non toglie, va sottolineato, che alla base dell’elezione del maschile a genere non marcato possa aver agito una mentalità in cui dominante era quanto connesso con la patrilinearità. Più generi non significa più sessismo. 

Sessismo e italiano contemporaneo: quali sono i principali usi e fenomeni notevoli?  

La derivazione in -essa. Il suffisso derivazionale -essa, che serve a femminilizzare nomi di professione, ha avuto un apice di produttività a cavallo tra il XIX e il XX secolo, con la coniazione di forme indicanti donne o animali di sesso femminile (leonessa, elefantessa) o creature fantastiche (diavolessa, orchessa). In epoca recente, alcune di queste formazioni sono state riutilizzate per indicare donne che ricoprissero quei ruoli ormai per loro possibili; ma per la formazione di nomi professionali il suffisso -essa è in forte concorrenza con altri procedimenti [É]. Tra i nomi d’agente in -essa che indicano donne che svolgono determinate professioni o ruoli sono piuttosto saldi nell’uso dottoressa, professoressa, studentessa, campionessa, poetessa. Le basi delle mozioni in -essa sono in prevalenza maschili in -e; in qualche caso si sono formati femminili in -essa da maschili in -tore (dottoressa). Sono in -essa anche i femminili da alcuni maschili in -a: papessa, poetessa, profetessa (cfr. Grossmann e Rainer). A un certo punto della storia linguistica italiana (le fonti sono molto eloquenti in merito) al suffisso è stata associata una carica peggiorativa e stigmatizzante, di cui recano incontrovertibili tracce anche i meno comuni madrigalessa, articolessa, filatessa, sonettessa, capitolessa, che nulla hanno a che vedere con le professioni.
Venendo alla questione sessista, alla liceità o meno dell’abolizione di tali forme, è plausibile ritenere che evitando l’uso delle forme in -essa si restituirebbe dignità a chi si sente leso dal retaggio di cui queste forme mantengono traccia? Oppure, trattandosi, almeno nei casi di dottoressa, poetessa, professoressa, di forme ben consolidate nell’uso (oltre che del lessico di base), una eventuale modificazione in senso acrolettico, verso le varietà alte del repertorio, condurrebbe ad una condizione che “saprebbe” di artificiale?   Inoltre, quandanche si riuscisse ad “imporre” l’espunzione dell’odiata forma, assai probabilmente si tratterebbe di una eliminazione di principio: come la storia dei vari purismi ha insegnato, difficilmente le dinamiche del mutamento si lascerebbero infatti guidare dalla ragione, anche quando supportata da argomentazioni lodevoli. Si potrebbe perciò venire a determinare uno scenario che ricorderebbe da vicino quello tipico dei contesti di diglossia con stavolta una variante a marcare i registri di un politicamente corretto allargato e l’altra i registri meno controllati. E se così fosse, non è difficile immaginare che il suffisso -essa non sarebbe espunto dal sistema, neppure nelle varietà più controllate, perché, come oggi già accade, ritornerebbe a marcare forme scherzosamente ironiche che potrebbero celare il consueto sessismo.

 
Che dire di usi asimmetrici per i due generi (es. disponibile) nell’italiano? 

La quota di soggettività che caratterizza i significati nell’uso (significato pragmatico) e li differenzia anche notevolmente dal significato “di base” (lessicale, atteso da chi guardi ai dizionari) rimanda all’abbondanza di asimmetrie “di genere”. Si tratta infatti di esempi arcinoti (e cavalcati da chi ritiene che sia necessario emendare la lingua per correggere comportamenti sbagliati) di polarizzazione in senso sessuale che coinvolgono aggettivi, sostantivi e locuzioni che sul piano lessicale non comportano alcuna discriminazione. Per esempio, tra gli aggettivi, libero, che se si riferisce ad un uomo ha connotazioni morali e intellettuali, ma se riferito ad una donna connota il suo comportamento sessuale. Tra le forme complesse, basti pensare all’opposizione uomo di mondo, uomo facile, uomo senza morale, uomo con un passato, uomo da poco, uomo allegro vs donna di mondo, donna facile, donna senza morale, donna con un passato, donna da poco, donna allegra, tutti, tranne forse donna da poco, orientati in senso sessuale. 

Che dire, poi, del divario tra usi lessicali, pragmatici (connotativi) e delle conseguenze sulla percezione dei parlanti? 

Dei due significati delle parole, lessicale e pragmatico, il secondo, in quanto riferito alla comunicazione effettiva tra parlanti, è per definizione fluido come è fluida la comunicazione. A tale fluidità ci si riferisce per mettere l’accento su alcuni fenomeni della lingua riferibili al sessismo. Nel corso della primavera 2012 numerosi giornali, anche di prestigio e tradizione, si sono occupati della nuova relazione di Rita Rusic, ex moglie di Vittorio Cecchi Gori, con un compagno più giovane. Le parole scelte per descrivere il nuovo compagno della Rusic attingono a quel lessico in sé “neutro” ma di fatto esemplificativo della sussistenza di una asimmetria rappresentata da quegli usi linguistici che trasmettono modelli stereotipati di uomini e donne: fidanzato toy-boy / giovane fidanzato / giovane e muscoloso fidanzato / giovane e aitante fidanzato / giovanissimo e muscoloso fidanzato / nuovo fidanzato (corpo mozzafiato) / giovane e muscoloso fidanzato / mare, sole e giovane fidanzato / mare infinito col fidanzatino. Tali forme, in sé, non avrebbero particolare valenza negativa, ma si caricano di una connotazione sessista (maschilista) nel momento in cui si sottolinea l’età della protagonista. Lo stereotipo si riferisce e agisce sulla comunanza di pareri in merito a una presunta passatezza e conseguente scarsa appetibilità di una donna di cinquantadue anni, e all’ironia riservata alle donne che “si consentono il lusso” oppure “hanno il privilegio” di una relazione con un uomo molto più giovane di loro. Nei fatti, non è quindi la lingua a essere sessista, ma è quello che il parlante “aggiunge” alle parole (e che è parte integrante del suo bagaglio di conoscenze, della sua visione del mondo, insomma qualcosa di esterno alla lingua, benché espresso per mezzo di essa) a rendere discriminatorio il testo. Esempi che costituiscono la prova dell’esistenza di una ideologia che si alimenta di stereotipi che trovano nella lingua una forma di espressione, senz’altro la più potente, ma che non possono essere imputati alla lingua. Si consideri il caso contrario, quello di un uomo che intrattiene una relazione con una donna molto più giovane: alludo al caso della modella Elle Macpherson tradita dal compagno per una donna (modella a sua volta) assai più giovane e al modo in cui questa notizia è stata trattata per esempio in un articolo pubblicato su Corriere.it. Palese la differenza rispetto al primo caso, tangibile nelle attenuanti fornite all’ex-compagno della Macpherson colpevole di essere fedifrago perché un’altra donna “gli ha fatto perdere la testa”. Differenza resa ancora più eclatante dal fatto che l’articolo sia stato scritto da una donna, Simona Marchetti, a riprova di come certi schemi mentali (e i conseguenti stilemi) abbiano permeato il cervello di tutti e di tutte. Del resto, in riferimento alla stessa vicenda, il Giornale titolava: “Elle Macpherson mollata, la donna più bella del mondo trattata come una racchia”, quasi che l’atto di abbandono a favore di una donna molto più giovane fosse accettabile se perpetrato ai danni di una donna poco avvenente. Insomma, per fatti analoghi scattano gradi diversi di censura orientati lungo una scala costruita in ossequio ad una ideologia dominante e modaiola. Ci si potrebbe allora domandare se un’abolizione “per decreto” dell’uso connotativo risolverebbe o almeno migliorerebbe la situazione. La risposta non può che essere, ancora una volta, che no, un’azione per decreto non è pensabile, perché a bloccarsi sarebbe il funzionamento stesso della lingua, che trova una risorsa potentissima proprio nella possibilità di organizzare un numero non dico ristretto ma contenuto o comunque definibile di significati lessicali in un numero potenzialmente infinito di significati pragmatici.  Si può però, e anzi si deve, lavorare, invece, sulla creazione di nuove ideologie, che risultino meno discriminatorie o non univocamente discriminatorie e che, soprattutto, possano contribuire al radicamento nelle nuove generazioni di una nuova mentalità.  
In conclusione, vale la pena sottolinearlo ancora una volta, la discriminazione passa per la lingua, è vero, muovendo però da cornici cognitive, da veri e propri frameworks consolidatisi per effetto della rappresentazione mentale della società. Ecco allora che l’insidia maggiore è quella evocata da nomi di professione che, come cuoco o cuoca, rappresentano linguisticamente l’opposizione m/f ma solo formalmente, poiché sul piano dei valori che muovono (sul piano, cioè, della connotazione) non appare esservi equipollenza; oppure da commesso e commessa per l’immediata evocazione del genere naturale insieme a quello grammaticale; oppure, e qui lo iato percettivo tra m e f si incrementa, da casi come chef, pilota, astronauta, ancora evocatori di un immaginario quasi esclusivamente maschile. Quello che sembra inutile dover dimostrare, come tra l’altro la storia dei vari purismi ha insegnato, è che la soluzione all’uso sessista della lingua non può passare per un appiattimento su quello che da alcuni è bollato come politicamente corretto e da altri come sensibilità e espressione di pari opportunità. Si pensi agli effetti che una generalizzazione miope dei femminili produrrebbe comunque nell’uso: se, ad esempio, di Rita Levi Montalcini si dicesse che è una tra le più grandi scienziate per evitare il maschile inclusivo, la si priverebbe della primazia anche su buona parte degli uomini.   Insomma, dietro alle forme raccomandate e ai problemi nella loro accettazione, c’è molto più che un problema di cacofonia o di abitudini e un eccesso di razionalità a guidare i comportamenti verbali non ritengo sia auspicabile per la natura stessa della lingua.
Il sessismo veicolato attraverso la lingua è un dato di fatto e non lo si ribadisce mai abbastanza; ma come la bellezza è negli occhi  di chi guarda, così la discriminazione è anche nelle orecchie di chi ascolta.  

*** Contenuti tratti da Francesca Dragotto (a cura di), Grammatica e sessismo, Questione di dati?, Universitalia, Roma, 2012 




L’Alba di Roma

Giornata torrida, oggi. Tra i vicoli stretti trasteverini non si respira, non c’è un centimetro d’ombra neanche a pagarlo oro.
Tra le botteghe e i tanti caffè per turisti intorno a San Callisto, finalmente vedo Alba, che mi aspetta davanti a uno dei pochi bar senza menù fisso.
“Non me la ricordavo così questa piazza… Trastevere mia come t’hanno ridotto?!”
“Anzi, è uno dei pochi quartieri che ancora un minimo si preserva nella sua autenticità, signora De Céspedes1… Lei è tanto che non vive più a Roma?”
“Sì, sono solo di passaggio. Ormai sono una parigina a tutti gli effetti, ma a Roma ho passato gran parte della mia vita.”
“È nata qui?”
“Sì, mio padre è stato mandato come ambasciatore da Cuba e si innamorò di mia madre. Anche lei perse la testa e per sposarlo divorziò dal marito… Credo sia stata una delle prime donne in Italia! Mio padre le diceva “sei l’alba della mia vita” e guarda un po’? Proprio Alba mi hanno chiamata!”
“Che tipo di persone erano i suoi genitori?”
“Due gran belle persone per me, mi hanno trasmesso l’amore per la politica, per l’antifascismo: a casa mia non si parlava d’altro!”
“Dimenticavo che è stata partigiana!”
“Ora, partigiana forse è un termine esagerato se lo intendiamo come combattente. Se invece vuol dire che mi sono schierata, che ho parteggiato, allora sì, lo sono stata eccome. Per il fascismo ero un personaggio molto scomodo, tanto che nel ’35 sono stata arrestata. In tutta risposta io ho continuato a scrivere e me ne sono andata da Roma, verso il Sud. A Bari ho condotto per un po’ una trasmissione radiofonica resistente, sotto lo pseudonimo di Clorinda. Sempre in quegli anni, quando ho pubblicato “Nessuno torna indietro” hanno anche tentato di far ritirare le copie in vendita, ma non ci sono riusciti. Anzi, quel libro è stato fortunatissimo, anche troppo.”
“Perché ‘troppo’?
“Perché purtroppo il primo libro fortunato ti marchia a vita e penso che la fama di scrittrice di successo abbia effettivamente disturbato le mie reali ambizioni di novità stilistica e tematica, soprattutto con l’ultima produzione.”
“Pensando ai romanzi successivi a “Nessuno torna indietro”, la mia mente va subito a “Quaderno proibito”, che trovo un magistrale percorso verso l’autocoscienza. Lei che ne pensa?”
“Questo quaderno proibito non è poi altro che un diario, che Valeria, la protagonista, vede come proibito perché ci annota sopra le sue riflessioni più intime su sé stessa e sulle persone che ha intorno, con un enorme senso di colpa. È uno dei romanzi in cui sento di aver messo più elementi di me stessa: la scrittura è per Valeria una sorta di rivelazione e, acquisendo coscienza di sé, le fa intravedere nuove possibilità di esistenza. Ho voluto provare a raccontare quel mondo interiore che le donne non raccontano, o quantomeno non raccontavano, mai.”
“Che poi Valeria non è l’unica donna dei suoi romanzi, anzi, direi che c’è un assoluto protagonismo femminile, o sbaglio?”
“Non sbagli: è così. Il fatto è che durante la guerra, con la convinzione che davanti alla morte siamo tutti uguali, si erano fatti molti passi avanti nell’equilibrio tra i sessi. Non dico che fosse un concetto radicato, ma decisamente la situazione era diversa. Con il ritorno alla normalità, le donne sono, a mio parere, semplicemente riscivolate nella subalternità e credo fosse giusto contestare questo fatto con i mezzi a mia disposizione, ovvero con la scrittura.”
“La critica letteraria dell’epoca ha etichettato la sua produzione letteraria come una sorta di ‘apologia delle donne’. È d’accordo?”
“Lo sarei pienamente se nei miei romanzi avessi previsto esclusivamente figure femminili riscattate, eroiche, vincenti. Invece, nella maggior parte dei casi, l’epilogo dei personaggi è tutt’altro che trionfale. La vera vittoria delle protagoniste, al di là del finale felice o meno, sta a mio giudizio nell’aver tutte compiuto un percorso di crescita, di scoperta e coscienza di sé, senza però mai tradire sé stesse. E non tradirsi per compiacere qualcun altro, cara mia, è il più grande successo che una donna possa dire di aver raggiunto!”

1ALBA DE CÈSPEDES: nata a Roma nel 1911 è stata una scrittrice e poetessa italiana, autrice anche di testi per il cinema e il teatro.Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo “Nessuno torna indietro” (1938), “Dalla parte di lei” (1949), “Quaderno proibito” (1952) e “Nel buio della notte” (1976).
Fu una figura di spicco nell’ambiente degli intellettuali antifascisti del tempo,  tanto che, quando nel 1944 fondò Mercurio“, la rivista letteraria si avvalse fin dalle prime pubblicazioni delle firme di AlbertoMoraviaErnest HemingwayMassimo BontempelliSibilla Aleramo
Si trasferì a Parigi negli anni




Le architetture fantastiche nelle illustrazioni di Giovanni Colaneri

Tanti piccoli elementi che interagiscono tra loro per formare una grande composizione e dare vita a una struttura più grande, come un mosaico. Le illustrazioni di Giovanni Colaneri sono come un grande collage di elementi: figure di uomini e donne dialogano con oggetti e strutture geometriche e architettoniche, per dare vita a dei veri e propri macrocosmi dove ogni cosa trova silenziosamente il suo posto.

Giovanni Colaneri è un giovane illustratore napoletano, laureato all’Accademia di Belle Arti di Firenze in Grafica d’arte, per poi proseguire i suoi studi all’ISIA di Urbino nel biennio in Illustrazione.

Fig. 1

Nel 2016 è tra gli illustratori selezionati al Bologna Children’s Book Fair. Nello stesso anno è tra i 29 selezionati al concorso That’s a mole!.

Nel 2017 vince il concorso Art stop monti, che ha come obiettivo la promozione di interventi artistici all’interno delle stazioni metropolitane di Roma. Giovanni realizza due illustrazioni destinate agli ingressi della stazione Cavour della Metro B di Roma, nelle quali combina persone con elementi architettonici di Roma, che accostate creano delle lettere, minuscole e maiuscole.

Tra le collaborazioni di Giovanni, troviamo quella con Pelo Magazine, la rivista made in ISIA.

Fig. 2

I colori che Giovanni utilizza sono sempre tenui, la cui delicatezza deriva anche dagli strumenti utilizzati, ovvero colori ad acqua. La bellezza delle sue illustrazioni sta nella grande complessità di elementi al loro interno, dove ogni cosa deve avere il giusto colore per tirare fuori una composizione bilanciata.

Le illustrazioni di Giovanni Colaneri sono inclusive, a ricordarci che una società è tale perché formata da tanti elementi diversi che, senza attirare troppo l’attenzione, trovano il loro posto e si inseriscono in qualcosa di più grande: un messaggio molto importante in questo momento storico. Le sue illustrazioni sono come un grido silenzioso che si diffonde per trovare il suo posto, senza fare troppo rumore o troppo scalpore.

Fig. 3

Ho fatto qualche domanda a Giovanni per scoprire qualcosa di più su di lui e sul suo lavoro.

Le tue illustrazioni si caratterizzano per essere delle composizioni formate da tanti elementi.

Come costruisci le tue illustrazioni?

Comincio con un piccolo outing come premessa: di base ho il terrore del vuoto, il famosissimo horror vacui. Credo di essere peggiorato col tempo, man mano che disegnavo. A volte non ce la faccio proprio a vedere quel piccolo spazio bianco vuoto tra due omini, quindi qualcosa ce la devo mettere per forza, che sia una sfera, un cubo o altro. Stava diventando un problema quando iniziavo a riempire proprio tutto, però la buona notizia è che ultimamente ci sto lavorando su e a volte quello spazietto riesco a lasciarlo così com’è. Questo per spiegare i tanti elementi. Come le costruisco invece è difficile da spiegare, proverò a farlo in senso ampio. Quando mi siedo alla scrivania, metto le cuffie e mi alieno che manco io so come faccio e ci posso stare per tutto il tempo che voglio. Uso principalmente matite e pennarelli, soprattutto pantoni ma anche acquerelli, brushpen, acrilici, a seconda di quello che serve. Disegno oggetti, luoghi, piante e soprattutto persone, tante e tutte diverse, giganti o minuscole, reali o fantastiche, che fanno cose tra di loro o in solitudine, a seconda delle parole, di come mi sento, di cosa devo raccontare e a chi. In ognuno di queste c’è una parte di me che viene fuori, del mio mondo. È tutto.

Una domanda di rito: progetti nel cassetto che vorresti tirare fuori?

Ho un cassetto gigante e ogni volta che lo apro mi ci perdo. Ci metto dentro tutto quello che sento mio. Saper aspettare è importante. Se ho qualcosa che non sono molto sicuro di voler tirare fuori, la lascio lì fino a quando non mi sento pronto. Un progetto così l’ho realizzato quest’anno ed è Che cos’è una sindrome?, la mia tesi di laurea. Dal titolo si capisce di cosa parla, è un argomento che mi sta molto a cuore, quello della disabilità. Vorrei tirarne fuori altri sul tema, spaziando sempre di più nella diversità. Ho molta voglia di farlo perché sento che nella società in cui viviamo manca un’educazione al rispetto della diversità. Non è vero che siamo tutti uguali, anzi, siamo tutti diversi e tutti dovremmo avere gli stessi diritti, nessuno escluso. Almeno, io l’ho vissuta e la vedo così. Mi piacerebbe fare molto per questo, perché il mio lavoro possa dare un contributo, anche minimo, per riuscire a stare meglio in questo mondo. Stavo pensando da un po’ che ho quasi sempre usato figure umane per i miei lavori, mi manca disegnare una storia con protagonista un amico a quattro zampe. Qualche settimana fa ho disegnato un cammello e gli ho dato un nome, Dario. Non sapeva come sentirsi e così ha iniziato la sua corsa alla ricerca di sé, della sua identità perché non si sentiva cammello. Chissà dove andrà o cosa scoprirà, di sé e del mondo che lo circonda. Il bello di creare storie per me è anche questo.

Fig. 4

Nel 2016 sei stato selezionato in un concorso internazionale e da lì non ti sei più fermato: quali sono i tuoi programmi?

Hashtag fatturare. Scherzi a parte, in realtà ogni tanto mi fermo o comunque mi sono fermato. Da quell’esperienza ne sono uscito leggermente meglio di prima. Parlo della mia autostima, che era sempre a zero, invece adesso ce n’è qualche briciolo in più. Sì, cerco di continuare sempre e comunque anche perché, come si dice, chi si ferma è perduto. Sinceramente non ho particolari programmi per il futuro, ma alcune cose che cercherò di fare ogni giorno ce ne sono, illustrazione a parte, intendo. Cercare di stare bene, ad esempio, che non è la cosa più facile. Fare quello che mi piace, sempre o almeno ogni volta che posso. Non smettere di crescere e restare curioso e meravigliato dalle cose, come fa un bambino. Non perdere le amicizie, quelle belle, sparse per l’Italia e per il mondo, che la distanza a volte è proprio brutta. Parlare un po’ di più, in generale, perché è una cosa che non fa parte di me e chi mi conosce lo sa bene. A pensarci bene, per adesso seguirò Dario, per un po’, vedo dove mi porterà. 

Fig. 5