Elogio del cartoccio. A che serve la scuola? (Prima parte)

Con le vacanze scolastiche la cronaca nera ha subito un arresto. Fino a settembre, infatti, i casi di aggressione a docenti e presidi da parte di studenti e genitori – oltre 30 quest’anno – dovrebbero interrompersi, per riprendere presumibilmente alla riapertura delle scuole. Le notizie delle violenze hanno riempito le pagine dei giornali, i social media le hanno fatte rimbalzare e la percezione di esse si è moltiplicata. Della situazione della scuola italiana si parla molto, perché alcuni aspetti appaiono paradossali o addirittura drammatici e molte voci lamentano un progressivo e inarrestabile peggioramento generale. Vorrei però non tanto soffermarmi sugli aspetti più grandguignoleschi, che si trovano facilmente sui media, quanto riflettere su cambiamenti, cause, prospettive. Comincerò con un aneddoto.

Un simpatico e bravo studente quattordicenne, che per comodità chiameremo A., un giorno fu sorpreso dal suo insegnante di disegno e storia dell’arte, che per comodità chiameremo professor Z., a temperare la matita sul banco, disseminandolo di trucioli e grafite. Il professor Z. lo riprese immediatamente, intimandogli di pulire subito il banco e di usare il cestino. A. rispose che la punta della matita aveva un continuo bisogno di essere affilata e che  il continuo andirivieni suo e del resto della classe avrebbe causato grande confusione. Il mio amico Z. convenne che A. aveva ragione e gli disse di farsi un cartoccio con un foglio di carta usato, attaccarlo al banco con del nastro adesivo e adoperarlo come cestino personale, gettandolo via alla fine dell’ora. «Un cartoccio? Cioè?» chiese A. «Ma sì, un cartoccio, un cono di carta, hai presente quello delle caldarroste?». «Ah, sì» rispose A., «e come si fa?». Il mio amico Z., perplesso, glielo fece vedere e poi disse «Ora fallo». A quel punto A. assunse un’espressione sinceramente angosciata e disse: «Prof, per favore, me lo faccia lei, che a me mi viene l’ansia». 

1. Costruzione del cartoccio

Mentre mi racconta l’episodio, Z. è turbato. La parola “ansia”, a quanto mi dice, è diffusissima nel lessico scolastico e compare spesso anche, e soprattutto, nei colloqui con i genitori, i quali parlano dell’ansia che provano nei rapporti con i figli e le figlie nell’attesa di prestazioni che viene continuamente frustrata. Il numero di disturbi specifici dell’apprendimento (o dsa, per usare uno degli infiniti acronimi che ormai funestano la vita dei e delle docenti) come dislessia, disgrafia, discalculia e via discorrendo, e di bes (bisogni educativi speciali) pare aumentare a dismisura. I dsa sono diagnosticati da appositi esami psicologici mentre i bes sono testimoniati da dichiarazioni genitoriali. Bes e dsa danno la possibilità di un trattamento di riguardo: programmi semplificati, interrogazioni programmate, possibilità di usufruire di “mappe” (schemini riassuntivi) che aiutano nelle verifiche scritte e orali. Il professor Z., che non ha competenze psicologiche precise se non quelle affinate da anni di lavoro scolastico, sostiene che, secondo la sua esperienza, non è affatto detto che chi sia affetto da dsa, alla prova pratica, dimostri poi un’effettiva difficoltà o raggiunga comunque risultati inferiori a quelli del resto della classe. «Quanto ai bes», aggiunge, «stiamo parlando di adolescenti. Vorrei sapere quale adolescente normale non ha bisogni educativi speciali. Oggi si può chiedere il riconoscimento dei bes perché i genitori si stanno separando, perché si è subita una delusione d’amore, perché la morte della nonna ha inferto un duro colpo al proprio mondo affettivo, cioè perché è accaduto quello che la vita, inevitabilmente, ci regala: l’incontro con il dolore, la frustrazione del senso di onnipotenza infantile, lo scontro con le avversità, insomma tutto ciò che ci fa crescere». Z. ha anche la sensazione che lo stesso status di bes o di dsa, così solennemente affibbiato dall’alto allo scopo di semplificare la vita scolastica, contribuisca invece al convincimento della propria debolezza. «Tanto è vero» aggiunge Z., «che parlando di loro si sbaglia sempre ausiliare: si dice che il tizio o la tizia non hanno un bes o un dsa, bensì sono bes o dsa. Non una caratteristica della persona ma la persona stessa. Poi vorrei anche vedere che non si sentono inferiori».

Tornando all’ansia, questa pare essere una caratteristica sempre più presente nei genitori. Non a caso, accade spesso che madri e padri pretendano di essere in contatto costante con la prole anche durante l’orario scolastico e al mio amico Z. è accaduto di dover intimare a qualche studente di non rispondere al telefono durante le lezioni, infrangendo peraltro il divieto di tenerlo acceso, e di sentirsi rispondere: «Ma è mio padre!». Il telefono, dunque, è diventato un legame inscindibile, una specie di nuovo cordone ombelicale. Tralasciando gli effetti dei mezzi digitali sulla crescita e sull’apprendimento, su cui torneremo, appare chiaro che ormai gli e le adolescenti non hanno più un momento di assoluta indipendenza. Il telefono, nella scuola del mio amico Z. (ma, sostiene, in tutte le scuole), è il mezzo che assicura un legame continuo con la famiglia. Contemporaneamente, il cosiddetto tempo libero appare sempre più inesistente. 

2. Il cellulare a scuola

«Da ragazzini» dice Z. «si andava a giocare a pallone da qualche parte, se andava bene al campetto dell’oratorio, altrimenti – e molto più spesso – dove capitava. Io andavo con i miei amici in un ritaglio d’erba sparuta delimitato dai bastioni delle mura, di forma triangolare e con un albero nel mezzo. Giocavamo con una sola porta e dovevamo stare continuamente di vedetta perché se arrivava un vigile ci sequestrava la palla. Le regole del calcio, giocoforza, le piegavamo alle nostre necessità; non avevamo divise né scarpe apposite, le mamme ci sgridavano perché rovinavamo i vestiti, litigavamo spesso e ci divertivamo un mondo perché eravamo liberi. Adesso chi fa sport – direi la maggioranza – lo fa all’interno di istituzioni, con precisi orari di allenamento, impegni agonistici, allenatori severi, abbigliamento tecnico e costi elevati. La mancanza di un tempo di gioco veramente libero comporta anche una maggior difficoltà nella formazione di una coscienza autonoma. Il gioco non è solo svago, è anche l’apprendistato di un ruolo sociale: non è un caso che maschi e femmine abbiano sempre fatto giochi diversi e adatti al ruolo che la società impone loro. Questo è un altro problema che prima o poi dovremo affrontare, ma nel gioco, al di là dei condizionamenti sociali, c’è sempre stato apprendimento e soprattutto libertà, perché non serve un campo regolamentare, una palestra attrezzata, una piscina olimpionica o un abbigliamento adatto, basta un cortile. 

3. Il gioco in cortile

Invece ora i genitori sborsano un sacco di soldi e quindi si aspettano il successo. Inoltre spesso non sono pronti a cogliere i talenti: ho avuto in quinta liceo un ragazzo che era innamorato della meccanica e il cui massimo desiderio era stare in mezzo a motori e motociclette. I compagni e le compagne di classe gli affidavano i loro motorini e lui ne faceva dei gioielli, e mi diceva che il suo piacere era avere le mani sporche di grasso. I genitori, mamma medica e papà avvocato, volevano farne un ingegnere: non capivano che il figlio non voleva progettare, voleva agire, altrimenti sarebbe stato sempre un frustrato. Poteva diventare un meccanico geniale, e invece loro volevano un figlio di successo. Ecco, anche “successo” è una parola che sento spesso. La mia impressione è che madri e padri, sempre più indaffarati, si sentano colpevoli del cosiddetto “insuccesso” di figli e figlie». L’osservazione mi pare pericolosa: sarebbe dunque meglio la mamma casalinga come un tempo? «Ma no», ribatte Z., «la questione non è la mamma, è anche il papà, è la presenza fisica su cui puoi contare. Il contatto digitale perenne non la sostituisce, anzi: il cellulare sempre acceso è un controllo occulto che non lascia spazi di libertà. Di questi tempi è quasi impensabile, ma davvero credo che quando hai un figlio dovresti avere anche un orario di lavoro ridotto per potertici dedicare, naturalmente senza ripercussioni economiche, cosa impossibile di questi tempi in cui uno stipendio solo o un part-time sono un lusso. Se lavori dalla mattina alla sera, è ovvio che ti attacchi al telefono, ma il telefono non è come parlare, coccolare, litigare di persona. Poi i genitori vengono a dirmi: “Eh, certo che non se ne può più, mio figlio usa il cellulare anche a tavola!”. Una madre una volta mi ha detto piangendo: “Professore, io non capisco più mio figlio!”. E vorrei anche vedere! Quale quaranta-cinquantenne “capisce” un quindicenne? Padri e madri non devono “capire”: devono amare, educare, guidare, sorreggere, incoraggiare, magari premiare e punire. A capire ci pensano gli amici». A questo punto mi chiedo se la situazione sia uguale per ragazzi e ragazze. Le aspettative dei genitori sono le stesse? Anche le ragazze vorrebbero fare le meccaniche? «Be’, quello del meccanico era solo un esempio. Spesso accade il contrario. Ora mi sembra che per le femmine la situazione sia migliore, almeno nei licei. All’università si iscrivono sempre più ragazze, anche nelle facoltà scientifiche, ma non so quanto l’aspettativa sociale per loro sia cambiata. Quando uscì Astrosamantha, il film su Samantha Cristoforetti, portai di corsa le mie classi a vederlo. Le ragazze ne uscirono emozionatissime. Una piangeva. “Ma allora lo potrei fare anch’io!”, mi ha detto. Pare strano, ma nel ventunesimo secolo è ancora opinione comune che una ragazza possa magari essere brava in matematica, ma poi se ne debba stare a casa o faccia l’insegnante invece di andarsene a esplorare lo spazio». Ma quello dell’insegnante è ancora un mestiere di ripiego? «Sempre meno, direi. Una volta lo era certamente, in particolare per le donne. Come ho detto, una laurea a pieni voti in matematica o in filologia greca non apriva la strada alla ricerca ma, per molte donne, all’insegnamento, perché era – era, nota bene – un lavoro a mezza giornata, con un sacco di tempo libero per stirare le camicie del marito, il quale, nelle famiglie borghesi, guadagnava abbastanza da compensare il magro stipendio della moglie. Un sacco di brave studiose sono finite a insegnare e, d’altro canto, un sacco di ottimi maestri e professori hanno finito col diventare meccanici, ingegneri, medici o operai per soddisfare le aspettative o le necessità della famiglia. Ora, per chi insegna, il lavoro è raddoppiato e lo stipendio non è cresciuto, ma la percezione che ne si ha è ancora quella. Anzi, il prestigio sociale è diminuito e anche per questo, quando parli con i genitori, hai a volte la sensazione che ti considerino uno sfigato. Quanto al tempo libero e alle vacanze smisurate, non ne voglio neppure parlare. Basti dire che l’insegnante ha la responsabilità penale della classe e che non può neanche andare a fare la pipì quando ne ha bisogno». 

4. I quadri di fine anno

Il tema del successo e dell’insuccesso mi pare interessante. Nella scuola i risultati sono misurati con i voti e la promozione appare il discrimine fondamentale anche se, in realtà, essa misura solo l’assimilazione di un programma svolto e la previsione che lo o la studente potrà affrontare l’anno seguente con un minimo di tranquillità. Non è, né è mai stata, il giudizio sulla persona né sui suoi molti e svariati talenti. Non ha un significato morale né, tantomeno, è una promessa o una condanna. Accade che una persona, nel delicato periodo dell’adolescenza, attraversi una fase più o meno lunga di distrazione e di fatica; in tal caso, ripetere l’anno è di aiuto. Il professor Z. prosegue: «La non ammissione all’anno seguente (guai, di questi tempi, a chiamarla bocciatura), così come il “debito” da recuperare a settembre, è una dilazione, un prolungamento dell’ospitalità che la scuola offre per acquisire una formazione sufficiente a proseguire. È una cosa buona, quando serve. Io, per esempio, sono stato bocciato in seconda liceo perché quell’anno mi ero innamorato e non capivo più niente. Lì per lì la cosa mi ha scottato, ma poi ho capito che quella prof di matematica, fermandomi con un cinque a settembre, mi ha salvato la vita. Poi è stato tutto facile. Ma ora, in altri Paesi europei, le superiori durano solo 4 anni, quindi abbiamo la sensazione di arrivare in ritardo. Ma in ritardo rispetto a cosa? La disoccupazione è arrivata a cifre drammatiche, i giovani, quando va bene, collezionano lauree stage e master e poi restano a casa, chi se la sente scappa all’estero e noi abbiamo fretta? Di che? Non sarebbe meglio approfittare e approfondire lo studio? Invece noi docenti, se fermiamo qualcuno, assistiamo a due fenomeni: innanzitutto la dolorosa delusione delle famiglie, che talvolta si tramuta in incredulità e in rabbia nei confronti della scuola, rea di non aver capito e/o di non aver aiutato; e poi il comportamento riflesso e timoroso di presidi e consigli di classe, che tendono a mitigare i giudizi e ad arrotondare i voti per eccesso. Ora, il punto è che il registro elettronico, che sta sostituendo ovunque quello cartaceo ed è consultabile in tempo reale dai genitori, ha eliminato qualunque forma di mediazione e di riflessione. I genitori vengono al colloquio non per conoscere e capire, ma per chiedere conto e contestare, dato che hanno accesso ai voti e dunque pensano di sapere già tutto. La media aritmetica è chiara e apparentemente oggettiva: i voti, allo scrutinio, sono arrotondati dal software, dunque da 5,00 al 5,49 è 5 e dal 5,50 al 5,99 è 6. È un calcolo molto semplice, meccanico. Poi, in sede di giudizio, il consiglio di classe può modificare il voto finale sulla base di varie considerazioni, ma intanto chi ha cinque virgola qualcosa sa già che avrà sei e, se ciò non avviene, si scatena la frustrazione. Non è solo una questione di decimali, perché nella scuola italiana la sufficienza è sei, dunque un voto inferiore a sei è insufficiente. Mi pare un ragionamento chiaro. E lo sanno bene anche gli e le studenti, infatti quando, appena compiuti i 18 anni, si mettono di lena a studiare per conseguire la patente di guida e si affannano ad esercitarsi per superare i quiz, è loro chiaro che dovranno rispondere a 40 domande in 30 minuti e che non potranno fare più di quattro errori. Il 10%. Se saranno cinque, ovvero solo il 12,5%, niente patente. Ma l’esame per la patente non presenta nessuna delle implicazioni psicologiche e affettive della scuola, ed è proprio tale anaffettività che dà l’illusione di un giudizio obiettivo, mentre la scuola è percepita come un prolungamento della famiglia, in cui tutto è riassorbito nella sfera affettiva. La scuola, in realtà, è una via di mezzo, un filtro fra la famiglia e il mondo esterno, quello adulto. Se in famiglia i conflitti vengono risolti sulla base degli affetti, nel mondo adulto gli errori hanno conseguenze gravi: paghi una multa, ti licenziano, vai in galera. La scuola è un filtro nel senso che gli errori sono sempre lievi, come pure le sanzioni, e hanno sempre uno scopo educativo e formativo. Il problema è appunto qui: l’educazione di una persona giovane deve basarsi sulla chiarezza, sulla precisione e sull’onestà. Non possiamo dare segnali ambigui, non possiamo dire sì quando intendiamo no. Anche perché rischiamo di minare alla base la stessa matematica. Il numero cinque virgola qualcosa, fosse anche una serie infinita di nove, non sarà mai sei. Se stabiliamo in confine fra sufficiente e insufficiente, dev’essere chiaro. E questa è solo la punta dell’iceberg di un problema molto serio che riguarda, tra l’altro, la comprensione della scienza». 

 




Un coro di voci per salvare la Casa

di Barbara Belotti, Livia Capasso, Maria Pia Ercolini

In un tweet di lunedì 21 maggio Michela Marzano ha posto una domanda serissima: “Com’è possibile che a rompere il patto con la Casa Internazionale delle Donne sia una giunta guidata da una donna?”. E ancora: “La sindaca Raggi – prima donna eletta a Roma – non conosce, oppure dimentica, oppure sottovaluta, l’importanza che i luoghi di accoglienza e di rilancio culturale rivestono oggi per tutte quelle donne che, nonostante i progressi dell’uguaglianza, continuano a subire violenze e ad essere emarginate?”. 

Forse è proprio questo che appare più incredibile, doloroso, paradossale e la riflessione di Michela Marzano diventa la riflessione di tutte e di tutti.

Il contenzioso fra il Comune di Roma e la Casa Internazionale delle Donne ha radici lontane. Dalla valutazione del debito accumulato negli anni, era nato un dialogo-confronto già con le precedenti amministrazioni, persino con quella del sindaco Alemanno che rinnovò la convenzione, segno evidente che le azioni svolte dalla Casa Internazionale, il suo radicamento storico, il suo valore simbolico venivano considerate un bene comune per l’intera città anche da amministrazioni “meno amiche”. La giunta Marino andò oltre, istituendo un’apposita commissione per procedere alla valutazione e rimodulazione dei costi esorbitanti che il mantenimento, e non soltanto l’affitto dei locali, richiedeva.
Laboratorio politico e culturale unico nel suo genere” è stata definita l’esperienza del Buon Pastore in un comunicato stampa della Regione Lazio dello scorso dicembre, in cui si annunciava un contributo straordinario di 90 mila euro per il sostegno ai servizi di consulenza di tipo legale, psicologico e per la genitorialità messi in atto dalla Casa Internazionale delle Donne, riconoscendole di “rappresentare per le donne di Roma, in Italia e per le visitatrici straniere un punto di riferimento certo”. La giunta Zingaretti, intervenendo economicamente, entrava di fatto a far parte di un tavolo di discussione che sembrava disponibile al dialogo: poche settimane prima, infatti, il Comune di Roma, in un comunicato stampa, dichiarava che grazie a “un confronto aperto e costruttivo” era possibile “arrivare a una soluzione condivisa”. Il comunicato stampa del Campidoglio chiudeva l’incontro del 13 novembre 2017 fra le rappresentanti della Casa Internazionale delle Donne e l’assessora al Patrimonio, Rosalba Castiglione, l’assessora alle P.O. Flavia Marzano e la dirigente dell’assessorato al patrimonio Stefania Grassia. 

Poi il cambiamento di strategia e di prospettiva da parte del Comune che ha trasformato la Casa Internazionale da laboratorio politico e bene comune in bene immobiliare. 

È di questi giorni la mobilitazione di moltissime donne e moltissimi uomini contro la decisione della sindaca Raggi di riallineare il progetto alle moderne esigenze dell’Amministrazione – ovvero quelle di risanamento del bilancio comunale – e contro la minaccia di sfratto. 

Irene Giacobbe, ‎Vicedirettora della rivista e presidente della Associazione e Testata on line POWER & GENDER, ricapitola i punti salienti della questione: 

La Casa Internazionale non costa niente al Comune, versa mensilmente all’amministrazione capitolina l’affitto che può: abbiamo versato dal 2003 circa 600.000 euro. La Casa mantiene e cura, con interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, che forse non le compete, un complesso immobiliare del 1600 che era abbandonato e condannato al degrado e per il quale sono stati versati affitti anche nel periodo di “occupazione” dello stabile.
Non ci sono debiti né con fornitori, né per le utenze o tasse comunali. La Casa dà lavoro, versa i contributi INPS, accantona correttamente il denaro per le lavoratrici che sono impiegate stabilmente. Per il ruolo che svolge, che ha svolto e che continuerà a svolgere può essere inserita tra gli enti che possono fruire dell’utilizzo dei locali in comodato d’uso, in base ad una legge nazionale sul volontariato votata nel 2015.

Dopo la riunione del 21 maggio tra le rappresentanti della Casa Internazionale delle Donne e il Comune, il confronto si è fatto più teso e, come afferma Irene Giacobbe, intorno al Campidoglio si è alzata un’aria tossicaquella della misoginia e del potere patriarcale, che inquina da millenni menti e cuori. La Casa immette nel respiro di Roma la consapevolezza di sé e della propria storia, delle lotte che hanno portato a migliorare la vita di tutte le donne; non è un polline miracoloso che viaggia nell’aria e che respiriamo tutte, ma è la speranza per tutte di un respiro vitale.

La Regione Lazio si schiera nuovamente a fianco del Buon Pastore, come dichiara Marta Bonafoni: 

In questa battaglia a difesa della casa Internazionale delle Donne c’è innanzitutto il riconoscimento di quel luogo come uno spazio di autonomia politica delle donne di straordinaria importanza. Un valore non computabile con metodi ragionieristici. Poi arriva la questione del rientro dal debito, sulla quale la Casa ha già proposto un piano puntuale di fattibilità, che tiene ovviamente conto del valore sociale ed economico dei servizi sociali e culturali attivi nel Buon Pastore. Su entrambi questi aspetti la Regione è a fianco della Casa Internazionale delle Donne e farà la sua parte”.

Dalla stessa parte stanno le migliaia di persone che hanno partecipato alle assemblee pubbliche e alla manifestazione di lunedì scorso in piazza del Campidoglio, durante la riunione fra la sindaca Raggi e le rappresentanti della Casa Internazionale. 

Molta la determinazione a non fare passi indietro, a non arrendersi, a difendere i progetti femminili e femministi messi in atto in questi anni dalle tante realtà associativi all’interno della Casa. Determinazione accompagnata dalla grande ironia con la quale le donne e gli uomini, ai piedi del Palazzo Senatorio, apostrofavano Virginia Raggi:

 A te le pecore, a noi il Buon Pastore”.




ITALIA – Le indagini del disastro ferroviario tra Andria e Corato

I vertici di Ferrotramviaria sono indagati dalla Procura di Trani per il disastro ferroviario del 12 luglio tra Corato e Bari in cui sono morte 23 persone e altre 52 sono rimaste ferite. Ferrotramviaria è la società privata che gestisce la linea su cui si è verificato il disastro. I nuovi indagati sono il direttore generale di Ferrotramviaria, Massimo Nitti, il direttore di esercizio delle Ferrovie del Nord Barese (Ferrotramviaria), Michele Ronchi, e la presidente e legale responsabile di Ferrotramviaria Gloria Pasquini. I reati ipotizzati sono: disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose plurime. “Siamo pronti a dare tutti i chiarimenti necessari e a fornire la massima collaborazione possibile ai magistrati inquirenti”. Lo ha detto l’avvocato Michele Laforgia, difensore dei vertici di Ferrotramviaria indagati nell’inchiesta sul disastro ferroviario in Puglia. Laforgia, che ha depositato questa mattina in procura a Trani la nomina a difensore di fiducia, ha sostenuto che l’iscrizione dei vertici dell’azienda è un “atto dovuto” anche in conseguenza del fatto che alcuni dipendenti dell’azienda sono morti nello scontro tra i due treni. Indagato anche capotreno sopravvissuto Nicola Lorizzo, il capotreno sopravvissuto allo scontro tra convogli in Puglia, è indagato dalla procura di Trani. Lorizzo, ricoverato all’ospedale di Bari, martedì era il capotreno del regionale 1021, il treno partito dalla stazione di Andria. Sono dunque sei le persone indagate nell’inchiesta per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo. Oggi la consegna delle salme alle famiglie Saranno riconsegnate alle famiglie oggi pomeriggio 20 delle 23 salme delle vittime dell’incidente ferroviario avvenuto martedì scorso vicino Andria e che si trovano nell’istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari. Le altre tre – quelle dei ferrovieri Pasquale Abbasciano, Luciano Caterino e Albino De Nicolo – saranno invece consegnate ai parenti entro questa sera: sui loro corpi sono in corso gli esami autoptici effettuati dal direttore dell’Istituto, Francesco Introna. I funerali per venti delle vittime saranno celebrati domattina alle 11 nel palazzetto dello sport di Andria. Lunedì interrogatorio per i primi due indagati Saranno interrogati lunedì mattina i due capistazione della Ferrotramviaria, in servizio ad Andria e Corato, indagati dalla Procura di Trani nell’ambito dell’inchiesta sul grave incidente ferroviario del 12 luglio costato la vita a 23 persone. Vito Piccarreta, 57 anni di Corato, e Alessio Porcelli, 62 di Trani, che rispondono di omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario, saranno ascoltati dai pm della Procura di Trani, assistiti rispettivamente dagli avvocati Leonardo De Cesare e Massimo Chiusolo. De Cesare, intanto, ha voluto precisare che Piccarreta, del quale sono apparse dichiarazioni nei giorni scorsi,á”non ha mai rilasciato dichiarazioni perché è molto molto addolorato, anche perché molte delle vittime erano persone di sua conoscenza”. Domani i funerali ad Andria, bandiere a mezz’asta in Italia I funerali delle vittime del disastro ferroviario si terranno domani mattina alle 11 ad Andria In segno di lutto bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici dell’intero territorio nazionale. Lo annuncia una nota della presidenza del Consiglio. 10 mln a famiglie in Dl Enti Locali Via libera del governo e della commissione Bilancio, all’unanimità, alla proposta Boccia per gli aiuti alle famiglie. Lo prevede un emendamento al Dl Enti Locali depositato dal relatore Misiani e votato all’unanimità in commissione Bilancio che autorizza una spesa di 10 milioni “in favore delle famiglie delle vittime” e “di coloro che a causa del disastro hanno riportato lesioni gravi e gravissime”. A ogni famiglia andranno non meno di 200 mila euro, spiega l’emendamento.




Ricordando Patricia

Il 12 giugno scorso ci ha lasciato improvvisamente Patricia Adkins Chiti, mezzosoprano e musicologa inglese, da tempo cittadina italiana, fondatrice e presidente della Fondazione Donne in Musica, ente che promuove e sostiene la creatività delle musiciste.

Noi di Toponomastica femminile la conoscevamo bene, perché con la sua Fondazione ha sostenuto e patrocinato sin dall’inizio il nostro concorso nazionale Sulle vie della parità, mettendo a disposizione anche premi consistenti in importanti volumi di storia della musica e delle sue protagoniste. Conoscevamo la sua grinta e la sua passione nel dar voce alla presenza femminile nell’arte della musica, spesso dimenticata dalla musicologia ufficiale, un campo, come altri, da sempre riservato agli uomini. Apprezzavamo le sue frequentazioni internazionali, che creavano quella rete indispensabile a unire forze e competenze in tutto il mondo. 

Nata in Inghilterra, Patricia aveva studiato alla Guildhall School of Music and Drama di Londra e debuttato al Teatro dell’Opera di Roma nel 1972. Da allora molte sono state le sue registrazioni per emittenti radiofoniche europee e per case discografiche, in un repertorio che andava dalle cantate barocche alle opere di Verdi e Donizetti, alla musica contemporanea. Sposata con il compositore italiano, Gian Paolo Chiti, è stata insignita nel 2004 del titolo di Commendatore della Repubblica per meriti culturali dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ha scritto quaranta libri e circa ottocento articoli accademici sulle compositrici, per editori italiani, europei, americani e asiatici. Ha fondato nel 1978 il movimento Donne in Musica/Women in Music, riconosciuto dal Governo Italiano e dall’UNESCO, che è diventato Fondazione internazionale senza scopo di lucro nel 1996. Con sede a Fiuggi (FR), da quaranta anni la Fondazione promuove la musica di compositrici e cantautrici di tutte le età e nazionalità, in tutti i generi, e ha pubblicato più di cinquanta libri sulla storia delle donne compositrici, in inglese, italiano e arabo. 

Foto 1. Fondazione Donne in Musica

Patricia ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio de Investigación Musical “Rosario Marciano”. Parlava inglese, italiano, francese e tedesco; dal 2012 ha cominciato a studiare anche l’arabo. Dal 1980 ha diretto festival, serie di concerti e simposi in Italia e all’estero e ha anche lavorato a stretto contatto come esperta in politica culturale con governi e università in Europa, Stati Uniti e Asia.

In questi ultimi mesi era impegnata a organizzare l’importante Concerto di Gala del prossimo 5 novembre al Teatro Argentina di Roma, in occasione delle celebrazioni dei settanta anni della firma della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Instancabile, stava preparando una conferenza che avrebbe tenuto a Vienna all’inizio di luglio per inaugurare l’installazione di MusicaFemina a Schönbrunn.

Silvia Costa, eurodeputata e grande amica della musicista scomparsa, propone di dedicarle in Italia, in Europa e nel Mondo la Festa internazionale della Musica 2018. 

 “No country is without women making music. Humanity would be poorer without our contribution. When children are born, mothers sing”, questa era la sua citazione preferita.




Si chiamava Razan

Sabato 2 giugno migliaia di persone hanno partecipato ai funerali della ragazza, mentre la bara sfilava per Gaza City avvolta nella sua bandiera. Si chiamava Razan Ashraf al-Najjar l’infermiera palestinese ventunenne uccisa venerdì scorso nella striscia di Gaza. Durante la cerimonia funebre, i genitori hanno mostrato le sue uniche armi: il camice insanguinato e un rotolo di garze. Aveva il volto scoperto e le mani alzate quando l’esercito israeliano ha aperto il fuoco e l’ha colpita al petto. Secondo alcuni (su questo le fonti non concordano), la sua assassina sarebbe una donna, cosa rara per il mondo occidentale, ove a commettere violenza sono quasi sempre gli uomini, ma che non sorprende nello Stato più militarista del mondo in cui il razzismo verso la popolazione araba è fortemente radicato. È in carcere accusata di terrorismo la sedicenne araba che a mani nude ha schiaffeggiato un soldato occupante, armato di mitra, pochi mesi fa, gesto che ha indignato l’opinione pubblica ebraica molto più delle migliaia di vittime fatte da Israele nel corso dei decenni. 

Oltre al quotidiano panarabo Al Jazeera, è il giornale israeliano Haaretz a riportare la notizia secondo cui lo stesso Stato di Israele starebbe aprendo un’inchiesta sui propri soldati per quanto accaduto a Razan. E non è affatto scontato che l’intransigente e spietato governo Netanyahu ammetta i crimini delle cosiddette Forze di Difesa Israeliane (IDF).

La sua uccisione rientra in un contesto molto più ampio. A partire dal 30 marzo la popolazione della striscia di Gaza, esasperata da decenni di umiliazioni e soprusi, ha dato inizio alla Marcia del Ritorno. Tale manifestazione, che ha luogo ogni venerdì, rivendica il diritto delle famiglie palestinesi di tornare nelle terre da cui furono forzatamente allontanate per fare spazio allo Stato ebraico-sionista. Infatti la striscia – una specie di carcere a cielo aperto ove mancano i generi di prima necessità – ospita quasi due milioni di persone, in maggioranza rifugiati e profughi cacciati dal resto della Palestina nel 1948 in occasione di Al Naqba (che significa «la catastrofe»), come è ricordata nel mondo arabo la nascita di Israele. A dare il via a queste manifestazioni è stata la decisione di Donald Trump di spostare a Gerusalemme (e la sua occupazione israeliana viola decine di risoluzioni ONU) la sede dell’ambasciata USA, gesto che umilia gravemente il diritto internazionale e la dignità dei popoli arabi ma che mostra  continuità, nei rapporti con Israele, tra la presidenza Trump e le precedenti amministrazioni statunitensi. La Marcia del Ritorno non è certo una provocazione di Hamas, come invece i vertici politici e militari israeliani vorrebbero far credere: con modalità estremamente pacifiche e nonviolente, la popolazione palestinese sta dimostrando in queste settimane una determinazione incredibile nell’opporsi alla violenza del «popolo eletto». Ma alla resistenza non violenta palestinese Israele risponde con crimini di guerra. Oltre ai gas letali e le bombe al fosforo bianco, le IDF usano spesso proiettili che, una volta penetrati nel corpo della vittima, si aprono diffondendo schegge: per i medici l’unico rimedio a queste ferite consiste nell’amputare gli arti dei sopravvissuti. Scandaloso, anche se giustificato da Netanyahu come «legittima difesa dal terrorismo», è stato lo sparare ai giocatori della squadra di calcio palestinese mirando alle ginocchia. L’ultimo ed ennesimo atto criminale della brutalità sionista, dopo aver sparato persino sulle ambulanze, è stato proprio l’omicidio di Razan, nonostante la sua inconfondibile uniforme da paramedica. Lo sparo è stato effettuato non durante un momento di “scontri” ma a freddo, durante la medicazione dei feriti; nello stesso contesto, una granata ha ferito un altro operatore sanitario. Sparare al personale medico e paramedico è considerato un crimine di guerra gravissimo secondo tutte le convenzioni internazionali. 

Foto Razan

Arriva così a 119 il bilancio dei palestinesi inermi uccisi dal fuoco Israeliano dal 30 marzo a oggi. Dopo il massacro di civili nei campi profughi di Sabra e Chatila (Libano 1982) sotto la guida diretta di Ariel Sharon, gesto che non trova alcuna giustificazione umana né politica, già l’operazione Piombo Fuso contro la striscia di Gaza del 2008-2009, diretta dallo stesso Netanyahu che siede al governo oggi, aveva comportato per i vertici politici e militari di Tel Aviv (unica legittima capitale israeliana) l’apertura di un procedimento penale presso il tribunale internazionale dell’Aja per «crimini contro l’umanità» e «genocidio»: mai accuse tanto gravi avevano colpito governi sedicenti liberaldemocratici dopo la seconda guerra mondiale.

La cosa più eclatante di quanto sta accadendo è il totale silenzio dei nostri media: se si vuole avere una decente informazione sulla carneficina unilaterale in corso è necessario leggere Le Monde o Al Jazeera o Libération o The Guardian o il Middle East Eye, mentre i giornali e le televisioni italiane si limitano ogni tanto a parlare di «momenti di tensione» o addirittura di «nuovi scontri nel conflitto arabo-israeliano», come se i rapporti di forza tra le due parti fossero pari o quasi. Se invece fosse stato un soldato israeliano ad essere ucciso dai razzi di Hamas, l’Italia avrebbe visto levarsi un coro di slogan di solidarietà con la «vittima del terrorismo islamico».




ITALIA – Indagini in corso per il disastro ferroviario tra Bari e Barletta

La regione Puglia si è stretta intorno alle famiglie delle vittime del disastro ferroviario avvenuto il 12 luglio lungo la linea che collega Barletta a Bari. Il bilancio dello scontro frontale tra i due treni è stato pesantissimo, 23 persone hanno perso la vita e 52 sono rimaste ferite. Un incidente che si sarebbe potuto evitare, se si fosse provveduto a dotare quella tratta di un moderno  sistema automatico di supervisione, al posto del cosiddetto “blocco telefonico” che veniva utilizzato da oltre sessant’anni.
Erano anche previsti dei lavori dal 2008 di ampliamento della linea ferroviaria che prevedevano il raddoppiamento del binario, in origine il collaudo sarebbe dovuto avvenire già nel 2015, ma nel corso degli anni si sono registrati dei ritardi che hanno portato allo slittamento dell’inizio dei lavori e della presentazione delle offerte inerenti la gara d’appalto con scadenza il 19 luglio.
Le indagini atte ad individuare i colpevoli dell’accaduto sono in corso e il procuratore di Trani Francesco Giannella ha affermato: “L’errore umano c’è stato ma chiudere la vicenda così è riduttivo”.
Il presidente del consiglio Matteo Renzi ha dichiarato:”La strage dei treni in Puglia ha scosso molti di noi, ma ha soprattutto distrutto la vita di oltre venti famiglie. I giudici indagano come è giusto sulle cause. Da parte mia ho volutamente scelto di evitare con cura ogni polemica: non è il tempo delle accuse, non è il tempo degli sciacalli. Lasciamo che i magistrati facciano il loro lavoro, punto”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ieri ha incontrato presso il policlinico di Bari i parenti delle vittime e i feriti assicurando loro che giustizia sarà fatta.
I pugliesi in questi giorni hanno dato grande prova di solidarietà, rispondendo all’appello della regione Puglia di donazione del sangue, recandosi in massa nei vari centri di raccolta, alcuni hanno pazientemente atteso per ore e in 4 giorni sono state raccolte quasi 3000 sacche di sangue, inoltre la Croce Rossa Italiana ha fornito un servizio di supporto psicologico ai feriti e ai familiari delle vittime.




MESSICO – E’ morta Miriam Rodriguez Martinez, si batteva per i desaparecidos

Miriam Rodriguez Martinez si batteva per far luce sui desaparecidos. La donna, madre di una ragazza rapita nel 2012 e ritrovata morta in una fossa comune, era conosciuta come “mamma dei desaparecidos” per aver investigato sulla scomparsa della figlia ed essere riuscita a far arrestare alcuni membri del cartello della droga degli Zetas, responsabili del sequestro.

Da allora, è diventata leader dell’organizzazione Comunidad Ciudadana che cercava altri dispersi e enunciava i mandanti di questi omicidi. Forse è per questo è stata messa definitiva a tacere da un commando di uomini armati che hanno fatto irruzione nella sua abitazione a San Fernando, Stato di Tamaulipas.

A marzo uno dei killer della figlia riuscì a fuggire dalla prigione e la donna cominciò a ricevere numerose minacce di morte. Più volte ha chiesto alla polizia protezione, ma le sue richieste rimasero inascoltate. Una versione smentita dalla autorità, secondo le quali delle pattuglie eseguivano delle ronde almeno tre volte al giorno. Diverse organizzazioni, tra cui l’ufficio messicano dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, hanno chiesto alle autorità di indagare su questo omicidio, perché non resti impunito e per garantire la sicurezza degli attivisti in simili circostanze.